Dopo l’assoluzione Lula continuerà a tenere un profilo basso?

Geraldina Colotti

Il giudice Edson Fachin, del Supremo Tribunal de Brasil (STB), ha annullato tutte le condanne per corruzione che avevano portato in carcere l’ex presidente Lula da Silva nell’ambito del caso Lava Jato. La XIII sezione della Corte Federale di Curitiba, che Moro presiedeva, non era competente a giudicare Lula per le diverse cause intentate contro di lui, come avevano ripetuto i suoi legali e numerosi esperti internazionali.

I fatti a lui contestati – ha stabilito l’STB -, non hanno connessione diretta con la più grande indagine per appropriazione indebita aperta nei confronti di Petroleo Brasileiro SA (Petrobras) nel 2014, dentro e fuori il paese. Secondo Fachin, i procedimenti contro Lula devono essere esaminati dal tribunale della capitale Brasilia. È stata così evidenziata, anche dalla stessa magistratura, l’azione persecutoria a fini politici portata avanti dall’ex giudice ed ex ministro di Bolsonaro, Sergio Moro, a sua volta sotto processo dalla II Sezione del STB dal 2019.

Due anni fa, il procedimento era stato interrotto su un risultato favorevole all’ex giudice. Ora c’è stata una nuova interruzione, ma sulla base di equilibri mutati, che hanno mostrato un voto di parità (2 a 2), e le cose potrebbero andare per le lunghe. Anche i nuovi processi contro Lula avranno bisogno di tempo per compiere l’intero iter. Intanto, l’ex sindacalista è rientrato in possesso dei diritti politici e può nuovamente sfidare Bolsonaro alle elezioni del 2022.

Nel suo primo discorso pubblico dopo la sentenza, Lula ha ringraziato il presidente venezuelano, Nicolas Maduro, “che ha avuto la dignità di chiamarmi e di esprimermi solidarietà”, ha detto. Il Venezuela è stato uno dei più importanti snodi internazionali della campagna Lula Libre, portata avanti dal Foro di San Paolo, che si è svolto a Caracas.

“Gli Stati Uniti – ha aggiunto Lula – non devono occuparsi del Venezuela, di Haiti, della Repubblica Dominicana, di Cuba. Si occupino degli statunitensi. Il problema della democrazia in Venezuela riguarda il popolo venezuelano”. Poi, ha ringraziato la solidarietà del presidente cubano Miguel Diaz-Canel. “In pochi giorni – ha ricordato – sono riusciti a raccogliere 2.350.000 firme in solidarietà con me”.

Riferendosi a Moro, Lula ha detto che “gli dei di fango” non durano a lungo e ha invitato a continuare la battaglia legale per sancirne definitivamente la parzialità. Ha detto anche che l’ingiustizia commessa contro di lui è poca cosa a fronte di quella subita dai brasiliani poveri, colpiti dalla pandemia, dalla fame e dalla disoccupazione, e che il dolore a lui provocato è di certo minore a quello provato dai 270.000 brasiliani che hanno perso i familiari a causa del covid-19 e non hanno nemmeno potuto assisterli.

Poi, ha ribadito la giustezza della scelta di consegnarsi al carcere, il 7 aprile del 2018, dov’è restato per 580 giorni, per dimostrare la propria innocenza e veder riconosciuta la propria integrità morale. Una scelta compiuta davanti al popolo che lo accompagnava in galera, e che non si rassegnava a vedersi portar via i benefici ottenuti durante il suo governo. “Non consegnarti”, gli gridavano i manifestanti, che poi rimasero per giorni accampati davanti alla prigione.

Una forza popolare indignata per l’evidente uso politico di una magistratura intrappolata nell’intreccio di poteri che hanno portato alla criminalizzazione del Partito dei Lavoratori (PT) e spianato la strada alla vittoria di Bolsonaro, ma anche disorientata e delusa dalle timidezze mostrate dal PT nell’ultima parte dei suoi quattro governi consecutivi.

Un ciclo che si concluse nel 2016 con l’impeachment a Dilma Rousseff per corruzione, innescato e gestito in modo fraudolento da personaggi che poi sono finiti a loro volta in carcere, condannati per corruzione. Un golpe istituzionale su un modello già sperimentato in precedenza in America Latina, organizzato all’interno dell’alleanza di governo con la complicità del grande capitale internazionale con i suoi terminali nei media, nella magistratura e nei circoli militari.

 Il 16 marzo del 2016, Dilma nominò Lula come capo di stato maggiore del suo governo. L’incarico, che lo avrebbe protetto dall’arresto con l’immunità parlamentare, venne bloccato dal giudice Gilmar Mendes, del STB. Lo stesso che ora ha votato contro Moro, accusandolo di aver rappresentato “un progetto populista di potere”.

Un piano evidenziato anche dai messaggi Telegram scambiati tra Moro e il procuratore capo dell’Operazione Lava Jato, Deltan Dallagnol nei quali i due prendevano accordi per condannare Lula e impedire la sua candidatura alle presidenziali del 2018, com’è poi avvenuto. Messo fuori gioco il carismatico Lula, Bolsonaro vinse le presidenziali di ottobre 2018 e portò il paese nel baratro, azzerando tutti i vantaggi acquisiti dai settori popolari. Nel novembre del 2019, la Corte federale suprema stabilì l’illegalità delle incarcerazioni durante i ricorsi pendenti, e Lula poté uscire dal carcere.

In Brasile – dice Lula nel libro-intervista La verità vincerà. Il popolo sa perché sono stato condannato, scritto poco prima dell’arresto e pubblicato in Italia da Meltemi – “la democrazia non è la regola, ma l’eccezione. Non c’è bisogno di un golpe militare, puoi farlo sfruttando la legge”: comprando i giornali che costruiscono opinione pubblica e usandola contro il governo, smorzando l’indignazione popolare. Gli interessi in gioco sono enormi, come enormi sono i mezzi impiegati per diffonderli anche attraverso le migliaia di think tank neoliberisti come l’Instituto Millenium.

Interessi che, all’interno, fanno leva su un razzismo secolare, portati avanti – dice Lula – da “quei bastardi” che quando i gringos salgono su un aereo con i bermuda, “lo trovano carino”, mentre se è un brasiliano nero a salire con i bermuda dicono “che non sa vestirsi per prendere l’aereo”.

“Continua ad avere fiducia nell’ultimo tribunale, quello Supremo?” gli domanda nel libro il giornalista Juca Kfouri. E Lula risponde: “Devo per forza avere fiducia. Se perdessi la fiducia nel Potere Giudiziario, dovrei smettere di essere un politico e dire che le cose in questo Paese si possono risolvere solo con una rivoluzione. Allo stesso modo non credo nel tribunale popolare, continuo a credere nella democrazia e nel funzionamento di tutte le istituzioni”.

Sarà ancora così pacata la strategia di Lula se ritorna in politica nel disastro brasiliano? In molti se lo chiedono in America Latina e non solo.

(Articolo per la rivista Cuatro F)

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