Di nuovo in vendita l’insaccato “voto cubano”

José Ramón Cabañas Rodríguez  www.cubadebate.cu

Diversi articoli sono apparsi sulla stampa USA nei giorni scorsi ricorrendo all’argomento dell’impatto del “voto cubano”, come probabile motivo che spiega perché il governo di Joe Biden non abbia ancora corretto le retrocessioni registrate nella relazione bilaterale con Cuba, sotto l’amministrazione precedente.

Quando affermazioni come queste sono viste come pioggia di stelle nella stampa USA, è perché c’è una comunità di giudizi tra un gruppo di osservatori, o è stata lanciata intenzionalmente l’idea per vedere fino a che punto è accettata o respinta dal pubblico.

Su questo tema si è scritto molto su entrambi i lati dello Stretto della Florida. Il professor Guillermo Grenier e il suo team della Florida International University hanno un registro esatto delle variazioni di opinione tra i cubani residenti in detto stato dal 1991. Dall’Avana esperti come i dottori Antonio Aja e Jesús Arboleya, del Centro di Studi Demografici e Migratori, hanno dati e conclusioni che hanno punti di contatto con le osservazioni del primo.

Gli intenditori in materia concordano sul fatto che la percentuale di cubanoamericani registrati per votare è ed è stata una minima parte dei residenti nello stato della Florida con diritto di voto, che questi non votano in blocco come gruppo, né in relazione coi temi che si registrano nella tessera elettorale e che in quelle circoscrizioni in cui hanno una maggiore presenza hanno sempre vinto i Democratici, benché lo stato in generale si alterni tra un partito e l’altro in ogni elezione. Ma nonostante questo, il tema risorge ogni quattro anni.

Forse si deve proporre la prospettiva di lasciare da parte i numeri per un momento per addentrarci in questioni qualitative.

Del resto, le statistiche che si analizzano sono nella maggior parte dei casi approssimazioni, non sono dati definitivi, poiché non ci sono registrazioni ufficiali su quanti cubani possono votare in ogni ciclo, quanti si iscrivono e tanto meno su chi ha votato e per quali candidati. Le speculazioni sul tema si basano su sondaggi e altri studi parziali, che in un ambiente di polarizzazione sono sempre più discutibili.

C’è un elemento poco gestito quando si tratta di comprendere le distorsioni del voto tra i cubani. La metà dei lavori non agricoli nello stato della Florida sono legati ai servizi (dai ristoranti alle pescherie) o appartengono all’apparato statale, in particolare ai diversi livelli del sistema educativo.

Cioè, un cubano a basso reddito (e soprattutto un nuovo arrivato) che non dichiara la sua fede controrivoluzionaria (anche se vota diversamente) vedrà sempre ridotte le sue opportunità di lavoro e, quindi, il sostentamento della sua famiglia. Nell’area dei servizi, saranno intervistati dalle generazioni che si ‘sono esiliate’ per prime a seguito del trionfo rivoluzionario. Molti dei lavori governativi non decisionali sono assunti in quello stato con meccanismi che ricordano la “chambelona” cubana pre-rivoluzionaria: voto contro libretto degli assegni.

Abbiamo il diritto di chiederci perché, se c’è tanta popolazione ebraica che vive a New York come in Israele, che ha inoltre potenti organizzazioni per promuovere i loro interessi, non sentiamo mai parlare di voto di quell’origine come un elemento determinante a livello nazionale o locale. Qualcosa di simile potrebbe interrogarsi sul numero di messicani nel sud e nell’ovest del paese, che raramente si presentano come elemento decisivo in una o nell’altra contesa.

Il cosiddetto “voto cubano” negli USA è un prodotto politico che è stato ben promosso nel mercato elettorale, che è sostanzialmente finanziato, e che conta su un gruppo importante di compratori e pubblicitari. Ma non cessa di essere, un prodotto fabbricato, finzione più che storia reale.

I primi cubano-americani che hanno ottenuti posti elettive nella politica locale della Florida meridionale erano militanti democratici e hanno avuto accesso alle loro responsabilità senza il supporto di una macchina oliata dal livello locale sino a quello federale. Non è stato fino al 1982 che si fabbrica la prima versione del “voto cubano” sotto il governo di Ronald Reagan.

Durante i due decenni precedenti, le agenzie federali USA (dominate dall’alternanza di Democratici o Repubblicani) hanno gradualmente costruito una “comunità” che ha avuto un supporto legale unico per installare la sua enclave (Legge di adeguamento cubano), che contava su bilanci speciali per garantire il suo insediamento nella nuova destinazione e che ha sempre avuto uno spazio politico preferenziale nella principale corrente del pensiero sociale USA, come conseguenza del “comunismo extra emisferico”.

Nessun altro gruppo di immigrati ha avuto tali privilegi, a nessun altro gruppo di immigrati si è costruito un’identità con un tale livello di articolazione e risorse.

Dopo il flusso migratorio del porto di Mariel (1980) e la lettura che ha fatto la società USA sui nuovi migranti, si è percepito con più chiarezza che gli ampi settori della “comunità cubano-americana” non si sarebbero uniti in futuro a progetti come quello dell’invasione di Playa Girón o dell’Operazione Mangusta. Sempre più la “liberazione” di Cuba sembrava un obiettivo che non sarebbe stato raggiunto immediatamente, né in un colpo solo, per cui sarebbe stata necessaria una pianificazione a lungo termine.

C’è un’ampia bibliografia che ha parlato dei dirigenti cubano-americani, quando in realtà i “presidenti” ed i “coordinatori” delle principali organizzazioni che li univano in qualche modo hanno agito da agenti dei servizi speciali USA. In questa veste, sebbene molti siano già in pensione, hanno svolto compiti politici con il sostegno del finanziamento occulto dal bilancio federale USA.

In modo curioso, sebbene promossero la “causa” del ripristino della “democrazia” a Cuba, nessuno di loro era disposto a sottomettersi al suffragio all’interno della propria organizzazione, con rarissime eccezioni, né hanno abbandonato o hanno lasciato “l’incarico” per decenni. Coloro che sono morti sono stati ereditati monarchicamente dai loro parenti più stretti. Molte delle cosiddette “organizzazioni” cubano-americane avevano meno membri che parole nella loro denominazione.

L’evoluzione qualitativa dei cubani americani negli anni Ottanta è stata sostenuta dalla percezione dei gestori d’influenze repubblicani, con la motivazione che un tale gruppo umano potrebbe convertirsi in un fattore importante per espandere e stabilire la presenza del partito in uno stato con una forte militanza rivale (Democratica) e che ogni volta acquistava più importanza nel gioco del Collegio Elettorale nelle elezioni presidenziali, o per aggiungere e sottrarre consensi alla Camera dei Rappresentanti nelle elezioni di medio termine.

I capetti scelti per guidare il fronte del cosiddetto “voto cubano” hanno promesso fedeltà solo in cambio che iniziassero ad approvarsi programmi “contro Cuba” nel Congresso federale, al quale erano associati finanziamenti significativi, la maggior parte dei quali sarebbe stato investito dove? ebbene nel sud della Florida.

Dagli schermi delle cosiddette Radio e TV Martí, negli elenchi dei dipendenti di innumerevoli programmi di “cambio di regime”, hanno sfilato centinaia e migliaia di cubano-americani che andavano plasmando uno stile di vita e creando una fortuna grazie alla vendita del prodotto denominato “voto cubano”.

Il cerchio dell’opportunismo si è chiuso quando una parte significativa dei suddetti fondi è passata dalle tasche dei dipendenti federali alle campagne politiche di quei candidati che giuravano fedeltà a chi? ebbene, al Partito Repubblicano.

All’inizio degli anni ’90, i patrocinatori della Florida del “voto cubano” hanno mostrato una certa anzinità, prendendo le distanze dai loro “genitori” repubblicani (la squadra di George HW Bush) per sostenere un candidato rivale (William J. Clinton) che prometteva misure estreme contro l’Isola (la cosiddetta Legge Torricelli).

Tuttavia, nonostante l’accordo al vertice politico, i modelli di voto dei cubano americani non sono cambiati in modo significativo, né nelle elezioni del 1992, né nel 1996. La storia racconta che nel 2000 il “voto cubano” non è stato determinante per George W. Bush. La sua vittoria è stata sancita grazie al colpo di palazzo che ha visto protagonisti i gruppi cubani per fermare il riconteggio dei voti a Miami-Dade.

Nonostante queste oscillazioni nelle preferenze dei cacicchi cubano-americani, il Partito Democratico non è stato in grado di fabbricare un proprio prodotto (con relativo discorso) per cercare di prevalere tra i cubano-americani, tanto meno promuoverlo.

Grazie all’aggressività verbale e fisica dei capetti di Miami, in molti casi neppure i democratici hanno  osato aprire uffici locali, o stampare volantini da attaccare ai pali dell’impianto di illuminazione. La vittoria repubblicana più significativa si è verificata quando persino importanti funzionari democratici sono diventati consumatori della fabbricazione del “voto cubano”, che da allora hanno digerito a loro convenienza.

La politica verso Cuba ideata da Barack Obama negli ultimi anni del suo mandato presidenziale, considerando i più alti interessi della politica USA, benché non abbia significato subito una sfida alle finanze dei venditori promotori del “voto cubano”, indicava una preferenza verso il ruolo di altri attori all’interno della massa cubano-americana, che non militavano nella casta dei primi comproprietari del mostro elettorale.

Obama è stato rieletto ad un secondo mandato non solo senza il sostegno di quelli, ma nonostante un’opposizione razzista guidata da quelli. Per frustrazione degli strateghi di Calle Ocho e dei loro padrini, negli anni della riorganizzazione politica ufficiale tra Cuba e gli USA, tutti i sondaggi (imprecisi o meno) indicavano una modifica dell’atteggiamento cubano-americano nei confronti del rapporto con il loro paese di origine, la cosiddetta “agenda familiare” ed ai viaggi in numero mai visti verso l’isola, per partecipare, in vari modi, alla realtà cubana.

Durante questi stessi anni, tuttavia, si sono prodotti almeno altri due processi paralleli che avrebbero avuto un certo impatto sul funzionamento del “voto cubano”.

Il brutale scontro bipartisan contro il Venezuela chavista ha causato una destabilizzazione interna, che a sua volta ha generato un flusso migratorio di persone e capitali in varie direzioni, tra esse in modo rilevante la città di Miami.

In Colombia, le interpretazioni generate dalle forze di destra dopo la firma degli Accordi di Pace e le politiche neoliberali che da allora si sono rafforzate, hanno anche spinto innumerevoli colombiani a cercare la realizzazione delle loro aspettative personali all’estero, preferibilmente in Florida, luogo che aveva il valore aggiunto di avere un ampio elenco di associati commerciali nell’affare del traffico di sostanze proibite.

Entrambi i gruppi umani che le risorse finanziarie ad essi associate non hanno finora creato proprie strutture politiche nel nuovo scenario. Un’alta percentuale di loro si è subordinato alla dirigenza cubano-americana nella “grande crociata” contro il socialismo nella regione. Coloro che hanno brevettato la storia del “voto cubano” nell’enciclopedia della politica USA hanno offerto sostegno incondizionato alle “cause” venezuelane e colombiane. Ai nuovi arrivati ​​è solo stato chiesto di amplificare il messaggio reazionario, anticomunista e al culmine del 2016 e del 2020 essere più trumpisti dello steso Trump.

La strategia democratica per portare Joe Biden al potere ha concentrato gli sforzi e le risorse in stati, città e gruppi etnici ritenuti essenziali alla vittoria. Solo molto vicino alle elezioni gli agenti di detto partito hanno concluso che avrebbero avuto alcune opzioni di successo in Florida e hanno fatto sforzi tardivi per attrarre un certo pubblico.

Ma di fronte al “voto cubano” non hanno presentato una difesa coerente della loro piattaforma, non hanno scelto candidati con opzioni di successo e non hanno sostenuto con finanziamenti coloro che avevano una reale possibilità di battere i loro avversari democratici. Questi errori hanno lasciato uno spazio vuoto che è stato riempito dal discorso radicale trumpista, dai timori di invasioni aliene e dal rifiuto di cospirazioni di ogni tipo.

In qualche modo il candidato repubblicano ha vinto in Florida perché il democratico aveva già perso in anticipo.

Anche così, prendendo per buoni i cosiddetti exit poll, la percentuale approssimativa del “voto cubano” a favore di Trump nel 2020 non si è separata in modo significativo dai modelli storici, né tanto meno “ha definito” il saldo finale a livello statale. Altre azioni sì lo hanno fatto, come ad esempio l’impossibilità di oltre un milione di ex detenuti e altri perseguiti dalla legge che non hanno potuto riconquistare il loro diritto al voto, nonostante il fatto che la popolazione dello stato abbia approvato tale possibilità (Tema 4) nelle elezioni del 2016.

In ogni caso, il risultato delle elezioni è servito per una nuova asta del “voto cubano”, che molti hanno acquistato a basso costo e hanno consumato con piacere.

I risultati dovrebbero, tuttavia, invitare alcuni a fare una lettura inversa di quanto pubblicato finora sull’argomento. Nonostante le campagne di demonizzazione contro la sinistra reale o presunta, l’instaurazione di un discorso uniforme in tutti i mass media e la demonizzazione di qualsiasi dissidente sulle retii sociali, tra il 40 e il 45% dei cubano-americani residenti nel sud della Florida è rimasto fermo nel sostenere l’agenda democratica; una parte di essi aspirando alla continuità della politica di avvicinamento all’Isola.

Ci sono molte ragioni per non consumare la storiella sul “voto cubano”. Coloro che comprano il presunto affiliato sono orfani di argomenti, in fondo hanno coincidenza ideologica con i suoi promotori, oppure non hanno la volontà politica di assumere rischi nell’agitato mare delle preferenze.

La politica USA verso Cuba dovrebbe essere costruita sugli interessi nazionali di quel paese. Non già di una dominazione impossibile che è stato provato da più di 60 anni, bensì nella rappresentazione della volontà di una maggioranza di contadini, insegnanti, medici, operai, funzionari pubblici, uomini d’affari e anche di molti cubano-americani (democratici, repubblicani e di altre varie appartenenze) che vedono nella normalizzazione dei rapporti con l’Isola l’atteggiamento più razionale.

Sorry guys, qui il “voto cubano” non si vende.


De nuevo a la venta el embutido de “voto cubano”

Por: José Ramón Cabañas Rodríguez

Varios artículos han aparecido en la prensa estadounidense en días recientes acudiendo al argumento del impacto del “voto cubano”, como razón probable que explique que el gobierno de Joe Biden no haya corregido aún los retrocesos registrados en la relación bilateral con Cuba, bajo la administración precedente.

Cuando aseveraciones como estas se ven como lluvia de estrellas en los medios de prensa de Estados Unidos es que existe comunidad de criterios entre un grupo de observadores, o se ha lanzado intencionalmente la idea para ver hasta dónde es asumida o rechazada por el público.

Sobre este tema se ha escrito mucho a ambos lados del Estrecho de la Florida. El profesor Guillermo Grenier y su equipo de la Universidad Internacional de la Florida poseen un registro exacto de las variaciones de opinión entre los cubanos residentes en dicho estado a partir de 1991. Desde La Habana expertos como los doctores Antonio Aja y Jesús Arboleya, del Centro de Estudios Demográficos y de Migraciones, poseen datos y conclusiones que tienen puntos de contacto con las observaciones del primero.

Los entendidos en la materia coinciden en que el por ciento de cubanoamericanos registrados para votar son y han sido una porción mínima de los residentes en el estado de la Florida con derecho al sufragio, que estos no votan en bloque como grupo, ni en relación con los temas que se registran en la boleta y que en aquellas circunscripciones donde tienen mayor presencia siempre han ganado los demócratas, aunque el estado en general alterne entre uno y otro partido en cada elección. Pero a pesar de ello, el tema resurge cada cuatro años.

Quizás se deba proponer la perspectiva de dejar las cifras a un lado por un momento, para adentrarnos en cuestiones cualitativas.

Después de todo, las estadísticas que se analizan son en la mayoría de los casos aproximaciones, no son datos definitivos, ya que no hay registros oficiales sobre cuántos cubanos son elegibles para votar en cada ciclo, cuántos se registran y muchos menos sobre quién votó y por qué candidatos. Las especulaciones sobre el tema se basan en encuestas y otros estudios parciales, que en un ambiente de polarización son cada vez más cuestionables.

Hay un elemento poco manejado a la hora de entender las distorsiones del voto entre los cubanos. La mitad de los empleos no agropecuarios del estado de la Florida están relacionados con los servicios (desde restaurantes hasta pescaderías) o pertenecen al aparato estatal, en particular los distintos niveles del sistema de educación.

Es decir, un cubano de bajos ingresos (y sobre todo recién llegado) que no declare su fe contrarrevolucionaria (aunque vote de otra manera) verá siempre reducidas sus posibilidades de empleo y, por tanto, la manutención de su familia. En el área de los servicios serán entrevistados por las generaciones que se “exiliaron” primero a raíz del triunfo revolucionario. Muchos de los empleos gubernamentales no decisorios se contratan en ese estado por mecanismos que hacen recordar la “chambelona” cubana prerrevolucionaria: voto contra chequera.

Tenemos derecho a preguntar por qué si radica en New York tanta población judía como en Israel, que cuenta además con poderosas organizaciones para promover sus intereses, nunca escuchamos hablar de voto de ese origen como un elemento definitorio a nivel nacional o local. Algo similar podría cuestionarse sobre la cantidad de mexicanos en el sur y oeste del país, que raramente se presentan como elemento decisivo en una u otra contienda.

El llamado “voto cubano” en Estados Unidos es un producto político que ha sido bien promovido en el mercado electoral, que está sustantivamente financiado y que cuenta con un grupo importante de compradores y publicistas. Pero no deja de ser eso, un producto fabricado, ficción más que historia real.

Los primeros cubanoamericanos que obtuvieron puestos electivos en la política local del sur de la Florida eran militantes demócratas y accedieron a sus responsabilidades sin el apoyo de una maquinaria engrasada desde el nivel local hasta el federal. No es hasta 1982 que se fabrica la primera versión de “voto cubano” bajo el gobierno de Ronald Reagan.

Durante las dos décadas anteriores, las agencias federales estadounidenses (dominadas por demócratas o republicanos en alternancia) fueron construyendo poco a poco una “comunidad” que tenía un respaldo legal único para instalar su enclave (Ley de Ajuste Cubano), que contaba con presupuestos especiales para garantizar su asentamiento en el nuevo destino y que tuvo siempre un espacio político preferente en la corriente principal del pensamiento social estadounidense, por ser una consecuencia del “comunismo extra hemisférico”.

Ningún otro grupo inmigrante contó con tales privilegios, a ningún otro grupo inmigrante se le construyó una identidad con tanto nivel de articulación y recursos.

Después del flujo migratorio del Puerto de Mariel (1980) y la lectura que hizo la sociedad estadounidense sobre los nuevos migrantes, se percibió con más claridad que los amplios sectores de la “comunidad cubanoamericana” no se sumarían en lo adelante a proyectos como el de la invasión por Playa Girón, o la Operación Mangoose. Cada vez más la “liberación” de Cuba parecía un objetivo que no se lograría de inmediato, ni de un solo golpe, por lo que habría que planificar en el largo plazo.

Existe una amplia bibliografía que ha hablado de líderes cubanoamericanos, cuando en realidad los “presidentes” y “coordinadores” de las principales organizaciones que los fueron nucleando, de alguna manera actuaron como operativos de los servicios especiales estadounidenses. En tal calidad, aunque ya varios en condición de jubilados, cumplieron tareas políticas con respaldo del financiamiento oculto del presupuesto federal estadounidense.

De manera curiosa, aunque promovían la “causa” de restaurar la “democracia” en Cuba, ninguno de ellos estuvo dispuesto a someterse a sufragio al interior de su organización, salvo muy raras excepciones, ni abandonaron o han abandonado el “cargo” durante décadas. Los que han fallecido fueron heredados monárquicamente por sus familiares más cercanos. Muchas de las llamadas “organizaciones” cubanoamericanas tenían menos miembros que palabras en su denominación.

La evolución cualitativa de los cubanoamericanos en los años ochenta fue respaldada por la percepción de los manejadores de influencias republicanos, con el razonamiento de que tal grupo humano se podría convertir en un factor importante para ampliar y asentar la presencia del partido en un estado con fuerte militancia rival (demócrata) y que cada vez cobraba más importancia en el juego del Colegio Electoral en las elecciones presidenciales, o para sumar y restar apoyos en la Cámara de Representantes en los comicios de medio término.

Los cabecillas que fueron escogidos para ponerse al frente del llamado “voto cubano” prometieron lealtad solo a cambio de que comenzaran a aprobarse programas “contra Cuba” en el Congreso federal, que llevaban asociados un financiamiento importante, la mayor parte del cual sería invertido ¿dónde?, pues en el sur de la Florida.

Por las plantillas de las llamadas Radio y TV Martí, en las listas de empleados de innumerables programas de “cambio de régimen” han desfilado cientos y miles de cubanoamericanos que fueron conformando un modo de vida y creando una fortuna gracias a la venta del producto denominado “voto cubano”.

El círculo del oportunismo se cerraba cuando una parte importante de los fondos antes mencionados pasaban de los bolsillos de los empleados federales a las campañas políticas de aquellos candidatos que juraban fidelidad ¿a quién?, pues al Partido Republicano.

A inicios de la década de los años 90 los patrocinadores floridanos del “voto cubano” mostraron cierta mayoría de edad, al distanciarse de sus “padres” republicanos (el equipo de George H. W. Bush) para apoyar a un candidato rival (William J.Clinton) que prometió medidas extremas contra la Isla (la llamada Ley Torricelli).

Sin embargo, a pesar del acuerdo en la cima política, los patrones de votación de los cubanoamericanos no cambiaron de forma significativa, ni en los comicios de 1992, ni en el 1996. La historia narra que en el 2000 el “voto cubano” no fue definitorio para George W. Bush. Su victoria fue sellada gracias al golpe palaciego que protagonizaron las congas cubanas para detener el reconteo de votos en Miami-Dade.

A pesar de dichas oscilaciones en las preferencias de los caciques cubanoamericanos, el Partido Demócrata no fue capaz de fabricar su propio producto (con un discurso asociado) para intentar prevalecer entre los cubanoamericanos y mucho menos promoverlo.

Gracias a la agresividad verbal y física de los cabecillas miamenses, en muchos casos ni siquiera se atrevieron los demócratas a abrir oficinas locales, o a imprimir octavillas para pegarlas en los postes del sistema de alumbrado. La victoria republicana más significativa ocurrió cuando incluso importantes personeros demócratas pasaron a ser consumidores la fabricación sobre el “voto cubano”, la cual han digerido desde entonces a conveniencia.

La política hacia Cuba diseñada por Barack Obama para los últimos años de su período presidencial, considerando los más altos intereses de la política estadounidense, aunque no significó de inmediato un reto a las finanzas de los vendedores promotores del “voto cubano”, sí indicó una preferencia hacia el papel de otros actores dentro de la masa cubanoamericana, que no militaban en la casta de los primeros co-propietarios del engendro electoral.

Obama fue reelecto a un segundo mandato no solo sin el apoyo de aquellos, sino a pesar de una racista oposición protagonizada por aquellos. Para frustración de los estrategas de la Calle Ocho y sus padrinos, en los años de la recomposición política oficial entre Cuba y Estados Unidos, todas las encuestas (imprecisas o no) apuntaron a una modificación de la actitud cubanoamericana en cuanto a la relación con su país de origen, la llamada “agenda familiar” y a los viajes en número nunca vistos hacia la Isla, para participar de varios modos en la realidad cubana.

Durante estos mismos años, sin embargo, se produjeron al menos otros dos procesos paralelos que tendrían cierto impacto sobre el funcionamiento del “voto cubano”.

El enfrentamiento bipartidista brutal contra la Venezuela chavista provocó una desestabilización interna, que a su vez generó un flujo migratorio de personas y capitales en diversas direcciones, entre ellas de manera relevante la ciudad de Miami.

En Colombia las interpretaciones generadas por las fuerzas de derecha después de la firma de los Acuerdos de Paz y las políticas neoliberales que se reforzaron desde entonces, también impulsaron a un sinnúmero de nacionales a buscar la realización de sus expectativas personales en el exterior, preferentemente en la Florida, lugar que tenía el valor agregado de contar con una extensa lista de asociados comerciales en el negocio del tráfico de las sustancias prohibidas.

Ambos grupos humanos y sus recursos financieros asociados no han creado estructuras políticas propias en el nuevo escenario hasta el momento. Un alto por ciento de ellos se subordinó al cacicazgo cubanoamericano en la “gran cruzada” contra el socialismo en la región. Aquellos que patentaron la historia del “voto cubano” en la enciclopedia de la política estadounidense ofrecieron respaldo incondicional a las “causas” venezolana y colombiana. A los recién llegados solo se les ha pedido amplificar el mensaje reaccionario, anticomunista y a la altura del 2016 y el 2020 ser más trumpista que el propio Trump.

La estrategia demócrata para llevar a Joe Biden al poder centró esfuerzos y recursos en estados, ciudades y grupos étnicos que consideraron esenciales para la victoria. Sólo muy cerca de los comicios los operativos de dicho partido concluyeron que tendrían algunas opciones de éxito en la Florida e hicieron esfuerzos tardíos para atraer cierta audiencia.

Pero ante el “voto cubano” no presentaron una defensa coherente de su plataforma, no escogieron candidatos con opciones de éxito y no apoyaron con financiamiento a los que tenían posibilidades reales de vencer a sus oponentes demócratas. Estos errores dejaron un espacio vacío que fue llenado por el discurso radical trumpista, por los miedos a invasiones alienígenas y por el rechazo a conspiraciones de todo tipo.

De alguna manera el candidato republicano ganó en la Florida porque el demócrata ya había perdido con antelación.

Aún así, tomando como buenas las llamadas encuestas a boca de urna, el por ciento aproximado del “voto cubano” a favor de Trump en el 2020 no se separó de modo significativo de los patrones históricos y mucho menos “definió” la balanza final al nivel del estado. Otras acciones sí lo hicieron, como por ejemplo, la imposibilidad de más de un millón de ex convictos y otros procesados por la ley que no pudieron reconquistar su derecho al voto, a pesar de que la población del estado aprobó tal posibilidad (Tema 4) en las elecciones del 2016.

De todos modos, el resultado de los comicios sirvió para una nueva subasta del “voto cubano”, que muchos adquirieron a bajo costo y han consumido con placer.

Los resultados debían, sin embargo, invitar a algunos a hacer una lectura inversa de lo publicado hasta ahora sobre el tema. A pesar de las campañas de demonización contra la izquierda real o supuesta, la instauración de un discurso uniforme en todos los medios masivos y la demonización de cualquier disidente en las redes sociales, entre un 40 y 45 por ciento de los cubanos americanos residentes en el Sur de la Florida se mantuvo firme en el respaldo de la agenda demócrata; una parte de ellos aspirando a la continuidad de la política de acercamiento hacia la Isla.

Hay muchas razones para no consumir la historieta sobre el “voto cubano”. Aquellos que compran el supuesto asociado están huérfanos de argumentos, en el fondo tienen coincidencia ideológica con sus promotores, o no cuentan con la voluntad política para asumir riesgos en el agitado mar de las preferencias.

La política de Estados Unidos hacia Cuba debería estar construida a partir de los intereses nacionales de aquel país. No ya de una dominación imposible que se ha probado por más de 60 años, sino en la representación de la voluntad de una mayoría de granjeros, maestros, doctores, obreros, funcionarios públicos, empresarios y también de muchos cubanoamericanos (demócratas, republicanos y de otras varias filiaciones) que ven en la normalización de relaciones con la Isla la actitud más racional.

Sorry guys, aquí el “voto cubano” no vende.

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