Fidel, sempre un’aurora

Fidel per noi è il più fedele, alto e insonne discepolo del Maestro. Viene dal monte e dal torrente, da tutte parti e va in tutte le parti, dall’inizio dei suoi giorni, la sua sorte con i poveri delle terra, il suo andare definito per la giustizia, l’antimperialismo, l’anticapitalismo.

José Martí è il cuore della sua vita straordinaria. Come l’Apostolo, è senza dubbio un ribelle assieme ai dimenticati e con una luce naturale che l’impegno e lo sforzo instancabile hanno modellato erudita, con lo stesso fervore con il quale il sole illumina il nostro universo. Fidel vive in questa dimensione speciale dei solenni e valorosi, Chisciotte del tempo dove non esiste l’impossibile e ogni dettaglio si osserva e si concepisce come poesia, rivoluzione, filosofia e natura.

Nell’intangibile riconosce le cose grandi, negli eroi, i simboli, la storia, il ricordo, la giustizia, il sapere, gli ideali, ma anche nel comune di tutti i giorni « sulla tovaglia della tavola e il caffè di ieri» –come canta Silvio–, nel decoro del cappotto umile ma degno e illustrato, al quale aspirano tutti gli abitanti della Terra.

Con questa ansia si gemellò con chi sognava di ripartire il pane e i pesci, con i liberatori di tutte le regioni distanti, di Nuestra America e dell’arcipelago al quale apparteniamo, con gli illustri del pensiero e le lotte sociali come il Moro Marx, «il generale Engels», e Lenin.

Per noi Fidel è il fondatore di un sogno vecchio, di un sogno di cent’anni che non furono solitari, ma abitati da una folla, da un popolo intero in quest’Isola grande, circondata da più di 400 isole, cayos e isolotti nell’azzurro intenso del mare dei Carabi, confluenza di venti, correnti e traversate, del profondo fisico e culturale del mondo, e per questo stesso, un incrocio vitale, chiave di un futuro più nobile, più umano per tutti.

Fidel ebbe sempre fiducia che si poteva realizzare l’anelo di un paese giusto e sovrano e questa fu la fede accesa che lo circondò dei migliori uomini e donne del nostro popolo , forse e per tanta delusione accumulata, discreditò sino ad allora, sino a quell’aurora di fuoco sull’addormentata città di Santiago.

Di quel 26 di polvere e sogni, Fidel sempre evocava esaustivamente tutti gli istanti, anche il momento in cui parlò con Guido Fleitas, nel mezzo di un’intensa sparatoria che durava già da circa un’ora.

Con il trascorrere del tempo prese la decisione di ripiegare, mentre nella terrazza di un edificio della caserma un uomo con una mitragliatrice calibro 50, spazzava tutte le strade una e un’altra volta sino a che lui cominciò a neutralizzarlo.

Ricordava anche l’ordine di ritirata e la sua presenza sino al finale del combattimento, quando saliva sull’ultima macchina per scendere pochi istanti dopo e cedere il suo posto a Abelardo Crespo, che era ferito.

Restò là in solitudine tutta la sua imponente struttura fisica di fronte alla caserma, accompagnata solamente da un vecchio fucile e dal fischio inquietante e acuto dei proiettili, agendo all’unisono con uno stato d’animo difficile, distruttivo, tragico, di fronte all’idea del fallimento, della sconfitta tattica.

Restò solo, solo. Non c’era nessuno nella strada per cui cominciò a ritirarsi senza smettere di sparare al punto in alto, sino a che un’altra automobile che era già partita, girò e lo riscattò.

Poi seppe che era stato un ragazzo di Artemisa, Ricardo Santana, che si era accorto che lui era restato indietro e aveva deciso di tornare e toglierlo da quell’inferno.

Più tardi ci fu il raggruppamento a Siboney, l’ora difficile di superare le avversità e intraprendere la strada dei monti, circonvallando la città, raggiungere la montagna e riorganizzare la lotta nella Sierra Maestra.

Si pose in marcia con i compagni che avevano la migliore disposizione fisica e morale per la guerra.

Erano nove uomini disposti ad attraversare la baia a ovest, dalla penisola di Renté, e internarsi nei monti a est della cordigliera. Fidel andava ispirato dalla Rivoluzione messicana, dal piccolo esercito del generale degli uomini liberi, Augusto César Sandino, e dall’epoca mambì di Máximo Gómez e Antonio Maceo.

Come capo dell’azione sentiva dentro di sè il metallico, acuto, desolato rintocco delle campane del romanzo di Ernest Hemingway sulla resistenza repubblicana nella Guerra Civile Spagnola. Dalla lettura di quelle pagine aveva preso molto della psicologia degli uomini in una guerriglia, proprio nella retroguardia montagnosa.

Si era anche fatto un’idea della guerra irregolare, delle sue complessità e dell’efficacia, della sua dinamica di combattimento prevedibile, trincerati nella scabrosa inattesa, nella prolissa capacità d’imboscare e distruggere accessi, e di muoversi con una costanza tanto pertinace quanto agile. Senza dubbio Fidel non aveva ancora una sufficiente esperienza pratica.

Tra rami sulla terra alla pendici delle colline, il 1 agosto, il tenente Pedro Sarría, quel giovane che durante gli esami universitari alloggiava nell’edificio del Corpo degli Ingegneri davanti alla casa dove viveva Fidel nel Vedado – sorprese addormentati Pepe Suárez, Oscar Alcalde e lui, perché il gruppo iniziale si era ridotto per via della dura camminata, la mancanza del sonno riparatore delle angustie e delle burrasche, degli alimenti e dell’acqua, a quello che decise i cinque dei compagni ad accettare la proposta di Fidel d’affidarsi all’intermediazione della Chiesa auspicata da monsignor Enrique Pérez Serantes, che anticipava gestioni per risparmiare i sopravvissuti dalla morte.

Il tenente riconobbe Fidel e gli salvò la vita quando già alcuni membri della sua pattuglia militare si disponevano ad ultimare i detenuti.

Il tenente Sarría ripeteva come mormorando a sè stesso: non sparate, non sparate, le idee non si uccidono!

Fu un momento molto difficile, la pattuglia militare irruppe a calci nella fragile capanna in cui si erano rifugiati per dormire e per Fidel e i suoi compagni il sonno era denso, irrefrenabile, e commisero l’errore di ripararsi dalla luce e dal freddo lì dove fu facile ubicarli.

I soldati entrarono gridando decisi ad assassinarli con le vene del collo gonfie di tanto furore e odio. E il tenente conteneva i suoi subordinati e li invitava alla calma … e nel mezzo di tutto cominciò la discussione.

I soldati vociferavano che loro erano gli eredi dell’Esercito di Liberazione e Fidel corresse:« I continuatori dell’Esercito Liberatore siamo noi. Voi site dei tiranni e degli assassini ».

E poi, quando i soldati perquisirono il luogo e scopersero cinque armi dei Moncadisti, allora si esaltarono di più e fu un istante critico:

Ma alla fine prevalse l’autorità del tenente Sarría che diceva loro : Quieti, calma, non sparate, le idee non si uccidono! Fidel lo vide equanime, senza alzare molto la voce ma fermo nella sua determinazione di tranquillizzare i soldati, perché non sparassero, fatto a cui erano abituati quando facevano dei prigionieri.

Quando giunse il momento di trasferirli, d’incamminarsi verso la strada, si udirono degli spari in distanza. Immeditamente Fidel pensò a uno stratagemma per provocare una sparatoria e finirli.

La sua memoria registrò quell’istante, quando i soldati infuriati, li volevano far fuori, disposti a tutto.

Continuarono a camminare, attraversarono dei campi e gli spari continuavano.

Il tenente ordinò che si tirassero al suolo, ma Fidel credendo sempre che era tutto era un pretesto per l’assassinio si rifiutò di farlo, e disse: «Io non mi getto al suolo. Se vuole uccidermi, mi uccida!»

Aspettando quello che sarebbe successo restò impassibile e diritto. Il tenente gli si avvicinò e gli sussurrò:« Voi siete coraggiosi ragazzi», apprezzamento che Fidel ricambiò con un gesto.

«Guardi, io voglio dirle qualcosa. Io sono Fidel Castro», e allora il tenente gli suggerì: «Non lo dica a nessuno», e poi nel cammino, incrociandosi con il Comandante Chaumont,  capo di quelli che avevano massacrato i giovani in tutti quei giorni nella Moncada e rifiutò categoricamente di consegnargli i prigionieri e riuscì a portarli al Vivac, un carcere civile nel centro della città, fatto che salvò la vita a Fidel.

Per lui i sentieri scelti sono invariabilmente quelli del dovere e gli successe così quando sfidò i pericoli del processo e alzò la sua vece per denunciare il crimine commesso contro i suoi compagni di lotta e quando sopportò senza riposo il freddo del carcere e l’esilio sino alla sbarco tra le mangrovie, il fango e i bombardamenti, sino alle battaglie nel fitto della Sierra Maestra.

E quando il trionfo divenne una verità assoluta e passò il fugace sconcerto alla fine della guerra, apprese le difficoltà con sempre più forza, per cambiare tutto, per essere pieni e migliori.

Fidel fu uno al principio, ma dopo vennero a lui tutti i suoi compagni:  Abel, Renato, Boris Luis, Tassende,  e tanti, tanti altri giovani onesti e buoni che diedero la vita per una Patria, indipendente, sovrana e socialista come quella di oggi, ed ha sempre onorato coloro con il sacrificio di ogni istante della sua vita.

Fidel ricordava spesso i versi di José Martí dedicati agli otto studenti di Medicina fucilati per l’ignominia della politica spagnola in Cuba:

Cadever amados, los que un día/ Ensueños fuisteis de la patria mía,/ ¡Arrojad, arrojad sobre mi frente/ polvo de vuestros huesos carcomidos!/ ¡Tocad mi corazón con vuestras manos!/ ¡Gemid a mis oídos!/ Cada uno ha de ser de mis gemidos/ Lágrimas de uno más de los tiranos!/ ¡Andad a mi redor; vagad en tanto/ Que mi ser vuestro espíritu recibe,/ Y dadme de las tumbas el espanto,/ Que es poco ya para llorar el llanto/ Cuando en infame esclavitud se vive!

Loro, i suoi fratelli morti nella Moncada e lungo l’arduo camino, lo popolarono per essere in sé una moltitudine alla quale poi si sommarono i martiri e quelli che ogni giorno esaltano il sogno.

Per questo Fidel è una grande bosco, una manigua. Fidel è popolo, è la terra del mambí.

A un sogno realizzato, ne sogna sempre uno nuovo.

Fidel è radice, tronco e foglie della nazione cubana e dell’ umanità e come i vecchi coltivatori della Galizia da dove veniva suo padre è riserva per il duro inverno, per la guerra e la dimenticanza, e fonte per l’aurora di 26 nel tempo, soprattutto oggi in un altro anniversario di quell’alba dell’assalto alla Moncada, al futuro.


Essere Fidel ed esserlo adesso

Rompendo la solennità del momento, come un’onda che guadagna forza, il clamore è cresciuto poco a poco in Piazza della Rivoluzione si è trasformata in un coro gigante con una sola frase:« Io sono Fidel!».

Era martedì 29 novembre e il popolo de L’Avana rappresentando tutta Cuba si era dato appuntamento lì per rendere omaggio al Comandante invitto che partiva per immortalità.

Mentre ci univamo uno dopo l’altro all’acclamazione collettiva, cresceva l’emozione e era urgente chiarire che quell’uomo che tante volte aveva parlatoi da questo stesso posto non se ne andava e che il suo legato non si sarebbe perso per sempre.

Fu sicuro e opportuno dire lì e ripetere poi da una punta all’altra dell’Isola che saremo come lui, che staremo al suo posto, ma abbiamo capito davvero quello che questo significa?

Non si può essere Fidel e far finta di niente di fronte al mal fatto o accordarsi con il dissidio.

Non si può essere Fidel e allontanarsi dalle urgenze del popolo senza ascoltarlo attentamente, unendosi a lui nel suo quotidiano sforzo per andare avanti ; non si può essere Fidel se nell’ora del dovere, noi andiamo nel lato in cui si vive meglio e da questo confort individuale guardiamo di lontano le urgenze collettive.

Non potremmo essere Fidel se rompiamo l’unità che è e sarà il nostro principale antidoto contro il tentativo permanente di schiacciarci.

Per essere Fidel, nel termine che significa la vigorosa consegna, è necessario comprendere che qui e adesso manca davvero questo ingegno e la strategia che lo portarono al trionfo sulle avversità e i limiti di ogni tipo.

Oggi è la Covid 19, come poi può essere un ciclone, la plaga della siccità ed anche nuove e più crudeli misure di blocco con intenzioni aggressive di ogni tipo, ma in tutti i casi se manteniamo la convinzione d’agire come lui, la sconfitta sarà impossibile.

Abbiamo molti esempi che è possibile essere fedeli a quesao giuramento simbolico che comprende aver detto e continuare a dire che «Siamo Fidel!».

Basta guardare la dedizione senza limiti della direzione del paese con il Presidente di fronte ad ogni problema, l’insonnia degli scienziati che non riposano, la tenacia e l’umanesimo dei medici che non si arrendono, i successi dello sport che ci riempiono d’orgoglio, quelli che producono e seminano e le migliaia di giovani che stanno dove sono più necessari.

Dobbiamo dire una e un’altra volta la consegna e dovremo assumerla come il miglior omaggio a chi ci ha dimostrato che l’unica opzione che non dovremo mai considerare è la resa

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