Fidel: cultura ed emancipazione

Quel 17 novembre 2005 Fidel ha detto di sognare la Cuba del futuro, non come “una società dei consumi”, ma come “una società della conoscenza, della cultura, del più straordinario sviluppo umano che possa concepirsi”. Una società con un’eccezionale “pienezza di libertà”

Abel Prieto www.granma.cu

Una rivoluzione, per Fidel, non può limitarsi a modificare le condizioni materiali di vita della popolazione. Sebbene migliori, apparentemente, la situazione della maggioranza non sarebbe mai completa né duratura se non fosse anche una rivoluzione culturale. Deve cambiare l’ambiente degli esseri umani e cambiare anche gli esseri umani stessi. Per questo, quando ha visitato, con Chavez, l’Università Centrale del Venezuela ha detto che “una rivoluzione può essere solo figlia della cultura e delle idee”.

Dobbiamo fermarci sul significato culturale che ha avuto la proclamazione del carattere socialista della Rivoluzione, il 16 aprile 1961, alla vigilia dell’invasione di Girón. Erano passati solo due anni, tre mesi e 15 giorni dal trionfo. Insieme a trasformazioni radicali di ogni tipo a beneficio del popolo, si era prodotto un’accelerata rinnovazione su vasta scala nel campo della cultura e della coscienza, che è stata chiave per ottenere che i principi e le idee associate all’orgoglio patriottico, all’anti-imperialismo, alla giustizia sociale e all’autentica democrazia divenissero egemoni.

Dopo mezzo secolo nel soffrire la costante influenza yankee emanata dal modello neocoloniale, Fidel ha potuto dichiarare che avevamo fatto una rivoluzione socialista “degli umili, dagli umili e per gli umili” nelle narici all’imperialismo. È evidente che il giovane processo rivoluzionario aveva già compiuto, così presto, sorprendenti passi in avanti nella conquista di una egemonia culturale.

Nonostante Girón e molte altre aggressioni (atti terroristici, assassinii di insegnanti e contadini, azioni di bande controrivoluzionarie), il 1961 si è convertito in un anno chiave per l’istruzione e la cultura. Si è realizzata l’epopea dell’Alfabetizzazione, una vera impresa; è stata creata la Scuola Nazionale di Maestri d’Arte; Fidel si è riunito, per tre lunghi giorni, con rappresentanti dell’intellighenzia ed ha pronunciato il suo memorabile discorso fondativo della politica culturale rivoluzionaria; si è celebrato il Primo Congresso di Artisti e Scrittori; è nata l’UNEAC.

Il Comandante, nel 1988, al IV Congresso dell’UNEAC, ha innalzato la bandiera della cultura e della spiritualità come fattore fondamentale nello sforzo di offrire una vita superiore alla popolazione. “Il livello di vita”, ha detto lì, “non è solo tonnellate di cose materiali; sono necessarie molte tonnellate di cose spirituali.

Per lui la cultura non è mai qualcosa di ornamentale. È, al contrario, una forza emancipatrice di enorme importanza, capace di dare un contributo decisivo al “miglioramento umano” in cui Martí tanto credeva.

Il 20 novembre 1993, nella fase più grave del periodo speciale, Fidel è intervenuto al V Congresso dell’UNEAC. Diversi delegati avevano fatto riferimento, con angoscia, all’emergere, tra noi, di nuove forme di colonialismo culturale, di tendenze che disdegnavano le nostre radici per fare occhiolini ambigui al turista e al giovane cubano desideroso di false esperienze “moderne”. Nel mezzo di questo dibattito, il capo della Rivoluzione ha pronunciato quella frase che ha sorpreso tutti noi: “la cultura è la prima cosa da salvare”.

In un’epoca di tante privazioni, in cui ci mancavano tante cose essenziali per sopravvivere, Fidel metteva al primo posto la cultura. Naturalmente, non stava parlando esclusivamente di arte e letteratura. Si riferiva ad una nozione più ampia e profonda che ha a che fare con ciò che ci definisce come nazione, con ciò che pensava Fernando Ortiz quando diceva che “la cultura è la patria”.

C’è stata una fase in cui ha promosso con forza la “cultura generale integrale”: un concetto che racchiude conoscenze storiche, politiche, ideologiche, economiche e scientifiche e – allo stesso tempo – la capacità di comprendere ed apprezzare le più complesse espressioni artistiche e letterarie.

Quell’essere umano colto e libero che è al centro dell’utopia martiana e fidelista deve essere preparato a comprendere appieno la realtà nazionale ed internazionale e a decifrare ed eludere le trappole della macchina di dominazione informativa e culturale dell’impero e della reazione. Non potrà essere ipnotizzato né ingannato.

“Senza cultura”, ripete più volte il Comandante, “non c’è libertà possibile”. I rivoluzionari di oggi sono obbligati a studiare, leggere, informarsi, a nutrire, giorno dopo giorno, il proprio pensiero critico. Questa formazione culturale, insieme agli imprescindibili valori etici, consentirà loro di emanciparsi definitivamente in un mondo in cui predomina il controllo delle menti e delle coscienze. Nel concetto di Rivoluzione compare l’appello ad «emanciparci da soli e con i nostri stessi sforzi” e la cultura è lo strumento principale di tale processo di auto-apprendimento e auto-emancipazione.

Nel suo impressionante discorso del 17 novembre 2005, Fidel si chiede, ad esempio, come una persona ignorante, analfabeta, «può sapere che il Fondo Monetario Internazionale sia buono o cattivo, (…) e che il mondo è sottomesso. e depredato incessantemente da (…) quel sistema». Semplicemente “non lo sa”.

Allo stesso modo, analizza il modo sottile in cui la pubblicità commerciale crea “riflessi condizionati” nell’essere umano e “toglie la capacità di pensare”. Di fronte a queste seduzioni ed ai loro effetti tossici, l’antidoto più efficace è la cultura.

Quando dicono “il socialismo è cattivo” (spiega il Comandante), “tutti gli ignoranti e tutti i poveri e tutti gli sfruttati” ripetono, di riflesso, “il socialismo è cattivo, il comunismo è cattivo”. L’impero dice “Cuba è cattiva” e “vengono tutti gli sfruttati di questo mondo, tutti gli analfabeti e tutti coloro che non ricevono cure mediche, istruzione, o non hanno un impiego garantito, non gli è garantito nulla”, e ripetono che “La Rivoluzione Cubana è cattiva”.

Questa somma di ignoranza e manipolazione genera una creatura patetica: il povero di destra, l’infelice che vota per i suoi sfruttatori e, per di più, li ammira.

Quando il Comandante ha discusso, nell’UNEAC, il tema della “globalizzazione e della cultura”, ha detto che era “il più potente strumento di dominazione dell’imperialismo”. In quel confronto, ha segnalato, «è in gioco tutto, l’identità nazionale, patria, giustizia sociale, Rivoluzione».

Quel 17 novembre 2005 Fidel ha detto di sognare la Cuba del futuro, non come “una società dei consumi”, ma come “una società della conoscenza, della cultura, del più straordinario sviluppo umano che possa concepirsi”. Una società con un’eccezionale “pienezza di libertà”.


Fidel: cultura y emancipación 

Aquel 17 de noviembre de 2005, Fidel dijo que soñaba la Cuba del futuro, no como «una sociedad de consumo», sino como «una sociedad de conocimientos, de cultura, del más extraordinario desarrollo humano que pueda concebirse». Una sociedad con una excepcional «plenitud de libertad»

Autor: Abel Prieto

Una revolución, para Fidel, no puede limitarse a modificar las condiciones materiales de vida de la población. Aunque mejore ostensiblemente la situación de las mayorías, no estaría nunca completa ni sería duradera si no es también una revolución cultural. Tiene que cambiar el entorno de los seres humanos y cambiar igualmente a los propios seres humanos. Por eso, cuando visitó con Chávez la Universidad Central de Venezuela, dijo que «una revolución solo puede ser hija de la cultura y de las ideas».

Hay que detenerse en el significado cultural que tuvo la proclamación del carácter socialista de la Revolución, el 16 de abril de 1961, en vísperas de la invasión de Girón. Habían pasado solo dos años, tres meses y 15 días del triunfo. Junto a  transformaciones radicales de todo tipo en beneficio del pueblo, se había producido una acelerada renovación a escala masiva en el campo de la cultura y de la conciencia, que fue clave para lograr que los principios e ideas asociados al orgullo patriótico, al antimperialismo, a la justicia social y a la auténtica democracia se hicieran hegemónicos.

Después de medio siglo de sufrir la constante influencia yanqui emanada del modelo neocolonial, Fidel pudo declarar que habíamos hecho una Revolución socialista «de los humildes, por los humildes y para los humildes» en las narices del imperialismo. Es evidente que el joven proceso revolucionario había dado ya, en fecha tan temprana, sorprendentes pasos de avance en la conquista de una hegemonía cultural.

A pesar de Girón y de otras muchas agresiones (actos terroristas, asesinatos de maestros y campesinos, acciones de bandas contrarrevolucionarias), 1961 se convirtió en un año clave para la educación y la cultura. Se llevó a cabo la epopeya de la Alfabetización, una verdadera hazaña; se creó la Escuela Nacional de Instructores de Arte; Fidel se reunió durante tres largas jornadas con representantes de la intelectualidad y pronunció su memorable discurso fundador de la política cultural revolucionaria; se celebró el Primer Congreso de Artistas y Escritores; nació la Uneac.

El Comandante, en 1988, en el iv Congreso de la Uneac, levantó la bandera de la cultura y de la espiritualidad como un factor básico en el empeño por ofrecer una vida superior a la población. «Nivel de vida», dijo allí, «no es solamente toneladas de cosas materiales; hacen falta muchas toneladas de cosas espirituales».

Para él, la cultura no es jamás algo ornamental. Se trata, por el contrario, de una fuerza emancipadora de enorme trascendencia, capaz de contribuir decisivamente al «mejoramiento humano» en que tanto creía Martí.

El 20 de noviembre de 1993, en la fase más severa del periodo especial, Fidel intervino en el v Congreso de la Uneac. Varios delegados se habían estado refiriendo con angustia a la aparición, entre nosotros, de formas nuevas de colonialismo cultural, de tendencias que desdeñaban nuestras raíces para hacer guiños equivocados al turista y al joven cubano ansioso por vivir falsas experiencias «modernas». En medio de ese debate, el líder de la Revolución pronunció aquella frase que nos sorprendió a todos: «la cultura es lo primero que hay que salvar».

En un momento de tantas privaciones, cuando nos faltaban tantas cosas esenciales para la supervivencia, Fidel ponía en primer lugar a la cultura. Por supuesto, no hablaba exclusivamente de las artes y la literatura. Se refería a una noción más amplia, más honda, que tiene que ver con lo que nos define como nación, con aquello en que pensaba Fernando Ortiz  cuando decía que «la cultura es la patria».

Hubo una etapa en que promovió con mucho énfasis «la cultura general integral»: un concepto que abarca conocimientos históricos, políticos, ideológicos, económicos y científicos y –al propio tiempo– la capacidad para comprender y apreciar las expresiones artísticas y literarias más complejas.

Ese ser humano culto y libre que está en el centro de la utopía martiana y fidelista debe estar preparado para entender cabalmente la realidad nacional e internacional, y para descifrar y sortear las trampas de la maquinaria de dominación informativa y cultural del imperio y de la reacción. No podrá ser hipnotizado ni engañado.

«Sin cultura», repite el Comandante una y otra vez, «no hay libertad posible». Los revolucionarios de hoy están obligados a estudiar, a leer, a informarse, a nutrir día a día su pensamiento crítico. Esa formación cultural, junto a los imprescindibles valores éticos, le permitirán emanciparse, definitivamente, en un mundo donde predomina el control de las mentes y de las conciencias. En el concepto de Revolución aparece el llamado a «emanciparnos por nosotros mismos y con nuestros propios esfuerzos» y la cultura es el instrumento principal de ese proceso de autoaprendizaje y de autoemancipación.

En su estremecedor discurso del 17 de noviembre de 2005, Fidel se pregunta, por ejemplo, cómo una persona ignorante, analfabeta, «puede saber que el Fondo Monetario Internacional es bueno o malo, (…) y que el mundo está siendo sometido y saqueado incesantemente por (…) ese sistema». Sencillamente, «no lo sabe».

Analiza del mismo modo la forma sutil en que la publicidad comercial crea «reflejos condicionados» en el ser humano y «le quita la capacidad de pensar». Ante estas seducciones y sus efectos tóxicos, el antídoto más eficaz es la cultura.

Cuando dicen «el socialismo es malo» (explica el Comandante), «todos los ignorantes y todos los pobres y todos los explotados» repiten, por reflejo, «el socialismo es malo, el comunismo es malo».  El imperio dice «Cuba es mala» y «vienen todos los explotados de este mundo, todos los analfabetos y todos los que no reciben atención médica, ni educación, ni tienen garantizado empleo, no tienen garantizado nada», y repiten que «La Revolución Cubana es mala».

Esa suma de la ignorancia y la manipulación engendra una criatura patética: el pobre de derechas, el infeliz que vota por sus explotadores y, para colmo, los admira.

Cuando el Comandante trató en la Uneac el tema de «la globalización y la cultura», dijo que era «el más poderoso instrumento de dominación del imperialismo». En esa confrontación, señaló, «todo se juega, identidad nacional, patria, justicia social, Revolución».

Aquel 17 de noviembre de 2005, Fidel dijo que soñaba la Cuba del futuro, no como «una sociedad de consumo», sino como «una sociedad de conocimientos, de cultura, del más extraordinario desarrollo humano que pueda concebirse». Una sociedad con una excepcional «plenitud de libertad».

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