Riflessioni dal Perù

Sergio Rodríguez Gelfenstein, Mision Verdad 28 ottobre 2021

Durante il mio primo viaggio all’estero dall’inizio della pandemia e chiusura degli aeroporti nel marzo dello scorso anno, visitai il Perù per ricerche sul campo per un libro che ho in cantiere. Approfittai del soggiorno per presentare l’edizione peruviana del mio lavoro La Cina nel 21° secolo. Il risveglio di un colosso, sospeso nel 2020 quando i movimenti internazionali si interruppero.

Tornare agli aerei ed aeroporti fu un’avventura in uno scenario in cui l’umanità ha costruito ancora una volta una nuova “Torre di Babele” burocratica, perché alcuni vaccini funzionino e altri no e che ogni Paese stabilisca le proprie regole, misure, requisiti sanitari e documenti di viaggio che si aggiungono a quelli di immigrazione e dogana, in modo che sia più difficile per esseri umani di diverse civiltà, regioni e Paesi incontrarsi, condividere e convivere. In quella che fu definita la “nuova normalità”, c’è un nuovo inferno in cui fare il test PCR almeno 72 ore prima del viaggio, un’odissea che significa che fino all’ultimo minuto non si sa se si può salire sull’aereo o no. Mentre ciò accade, milioni di migranti privi di documenti attraversano i confini fuggendo da guerre, crisi economiche e povertà che il capitalismo crea senza pensare alla vita umana. Questi migranti clandestini, in condizioni molto difficili, si muovono senza essere vaccinati, sottoporsi a test PCR e senza dover compilare i documenti diabolici che fanno felici burocrati e corrotti, che in tempi di comunicazioni ultramoderne e tecnologie super avanzate potrebbero fare le cose più facili. Quando la CELAC sarà pienamente operativa, dovrò unificare documenti e requisiti di viaggio per i cittadini dei Paesi della regione almeno in materia di salute, poiché l’idiozia politica della destra latinoamericana e caraibica impedisce di accelerare l’operazione per i meccanismi di integrazione che ci danno un voce e presenza sulla scena internazionale.

Nella prima tappa del mio viaggio visitai Huamanga, capitale del dipartimento di Ayacucho e Pampa de la Quinua, sito specifico dove le forze patriottiche formate da peruviani, argentini, cileni, colombiani e venezuelani al comando del generale Antonio José de Sucre inflissero il colpo decisivo al potere spagnolo in America. Durante la visita al Santuario e al monumento che ricorda la battaglia, mi avvicinai a due guide, umili operai di evidente origine indigena che consultai per alcuni aspetti della battaglia, sapendo che la tradizione orale dei popoli tende a mantenere segreti che molte volte non sono noti a scrittori e studiosi dalle conoscenze enciclopediche. Ancora una volta questa ipotesi fu confermata e ebbi accesso a importanti informazioni che dovrò confermare e che spero di tradurre nel libro che scriverò allo scopo. Sentendo il tono della mia voce, Juan José e Gregorio mi chiesero della mia origine. Quando gli è stato detto che sono venezuelano, le domande immediate e sorprendenti furono: “Come sta il Presidente Maduro?” e “Com’è il Venezuela?” Dopo aver ringraziato per la preoccupazione per la salute del presidente, la mia risposta fu esplicativa della situazione nel Paese, senza tralasciare dettagli su sanzioni unilaterali e blocco a cui siamo sottoposti da Stati Uniti e Europa, oltre ad esprimere la convinzione che andrà avanti l’inveterata decisione del nostra popolo di superare le avversità e dare continuità al processo iniziato nel 1999 per propria scelta. Dissi che prima di venire lì, alcuni che parteciparono a quella battaglia, tra cui Antonio José de Sucre e Jacinto Lara e centinaia di venezuelani, ci diedero una patria e la libertà e che ad Ayacucho fu suggellata la fratellanza tra peruviani e venezuelani che alcuna oligarchia potrà spezzare.

La risposta fu semplice: “Lo sappiamo”, per poi affermare con piena convinzione: “Vogliono fare al nostro Presidente Pedro Castillo lo stesso che hanno fatto al Presidente Maduro”. Poi i miei nuovi amici mi diedero una spiegazione estesa e illustre della situazione politica in Perù dal loro punto di vista di umili figli di contadini esclusi, emarginati e umiliati per secoli. Esponenti di un’intelligenza naturale, mi illustrarono con parole semplici che chiariscono le contraddizioni di classe e razza che ancora corrodono la società peruviana, come se vivesse ancora nel XVIII secolo. Dopo aver ascoltato un discorso così brillante, chiesi alla collega di Ayacucho che mi accompagnava, con tono umoristico, se sapesse se mai Juan José e il Gregorio furono censiti o se gli fu chiesto il parere sul destino del Paese. Due giorni dopo, già nel vicereame di Lima travolta dalla propaganda distruttiva dei media contro il governo, potei comprendere l’insondabile abisso tra capitale e Perù profondo che elesse Castillo. Al culmine della disperazione e dell’isteria, un camioncino guidò lungo la José Pardo Avenue nel quartiere di Miraflores chiedendo apertamente che Castillo sia rovesciato perché comunista. La Lima del primo Ottocento non è cambiata molto. Lo spirito perfido della sua oligarchia è rimasto intatto dai tempi in cui San Martín e Bolívar capirono che la stabilità del potere spagnolo del Sud America era finita per la ricchezza, l’autorità e del sentimento realistico delle classi superiori di questa città.

Al tempo, la Torre Tagle e la Riva Agüero seminavano la linea che rese il tradimento il modo in cui le élite fanno politica nel Paese degli Incas. Duecento anni dopo e dal 1990 ad oggi, cinque presidenti eletti e due nominati tradirono i cittadini dal Palazzo del Governo di Pizarro (si noti che ancora oggi porta il nome del conquistatore e assassino che decimò i popoli indigeni) compiendo azioni e prendendo decisioni diverse da quelle promesse nelle loro campagne. Oggi, la complessità della situazione deriva dall’impatto che per la prima volta un rappresentante di quel profondo Perù occupa nella scena politica. Un maestro di campagna di famiglia contadina, uno dei milioni mai ascoltati, uno di quelli che non esistono per l’alta borghesia della molle Lima che respira aria coloniale e vicereale, la stessa che avrebbe voluto che San Martín e Bolívar non guidasse le truppe che scacciarono gli spagnoli dall’America, affronta in tutta brutalità quel classismo e razzismo che ancora esistono. Avrebbero preferito rilanciare la dittatura di Fujimori, col suo fardello di violazioni dei diritti umani, attaccamento al terrorismo di Stato per affrontare il terrorismo di Sendero Luminoso e l’ampia corruzione che vede la sua leader in procinto di tornare in prigione con suo padre. Quella classe politica a cui non importa che il Perù sia governato da un criminale prima di dare l’opportunità a Castillo, di fronte alla sconfitta, concentrò tutto il fuoco della sua stupidità e volontà di violare le leggi se non usate a suo favore, per impedire al presidente di esercitare le sue funzioni nelle condizioni minime di governo. Scommettono su questo: caos, anarchia, ingovernabilità affinché le forze armate intervengano in loro favore per arrivare al potere con le violenze quando non hanno potuto farlo con le leggi.

Altri fattori sfortunati contribuiscono a creare tale situazione di incertezza e di angoscia che si respira in ogni angolo del Paese: la disunione della sinistra e settori democratici e progressisti, l’immobilismo delle forze sociali che sostengono Castillo, l’inesperienza dei funzionari di governo per svolgere un’attività che non hanno mai fatto prima e la corruzione che aleggia sempre come un fantasma tra i dipendenti pubblici in carriera che pensano più al profitto personale che al servizio del popolo. C’è da augurarsi che le forze politiche che sostengono il Presidente Castillo riescano nel necessario avvicinamento per mantenerlo al potere e che le popolazioni indigene e contadine delle aree marginali delle grandi città, i lavoratori e gli studenti alzino l’organizzazione e la formazione dell’unità in modo che nel caso in cui la destra di Fujimori e scagnozzi intentino battaglia in un altro scenario, sapendo difendere il Presidente Castillo con la stessa unità, forza e coscienza che gli permise di portarlo al governo.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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