Nicaragua, una trincea da difendere

Geraldina Colotti

Oggi il popolo nicaraguense decide se confermare la fiducia all’attuale binomio presidenziale, composto da due figure storiche della rivoluzione sandinista, Daniel Ortega e Rosario Murillo. Tutte le inchieste di questa nuova tornata presidenziale indicano un netto vantaggio del ticket che ha governato in questi anni.

Una proiezione che va di traverso all’imperialismo nordamericano e ai suoi vassalli, che hanno intensificato la campagna di sabotaggio e discredito del governo sandinista secondo modalità già viste in altri contesti latinoamericani dove, a partire da Cuba e Venezuela, i popoli hanno deciso di liberarsi dalle tutele coloniali.

È noto che, per Washington, sono da considerare valide solo quelle elezioni in cui i loro rappresentanti, a cui non importa il consenso ma il portafoglio, non hanno contendenti. È noto altresì che, quanto all’analisi dei paesi non graditi, vale un metro di giudizio tipicamente coloniale: per cui le inevitabili debolezze vengono presentate come catastrofi e i meriti sottaciuti, e dove quello che è buono nei paesi del nord e per i meccanismi della democrazia borghese, che perpetua se stessa indipendentemente dalla volontà dei dominati, diventa un’imperdonabile mostra di autoritarismo per chi si pone in un orizzonte diverso.

È noto, ma evidentemente non vi si è riflettuto abbastanza, che la tanto sbandierata “alternanza” s’intoppa quando tornano a governare i soliti gruppi dominanti, che lasciano ben poco spazio all’espressione del campo avverso, e complicano con ogni mezzo, legale e illegale, la possibilità di un ritorno delle forze del cambiamento, se non in forma annacquata o con alleanze traballanti e meno distanti possibili dal precedente conglomerato dominante. Basta guardare agli esempi del Brasile, dell’Ecuador e, per certi versi, anche dell’Argentina faticosamente tornata a sinistra dopo la parentesi di Mauricio Macri, che ha fatto nuovamente sprofondare il paese nel ricatto del debito estero.

E risultano così particolarmente fastidiose quelle critiche-critiche provenienti dai paesi capitalisti nei quali i programmi di certa sinistra hanno finito per coincidere con quelli del campo che si sarebbe dovuto combattere, giacché il loro principale affanno è stato quello di dimostrare che non esistono alternative al capitalismo. Altrettanto inconcludenti anche le critiche di quelle aeree incapaci di guardare alla propria inconcludenza, e di impegnarsi nella costruzione di un’alternativa credibile nei propri paesi, ma prontissime a ergersi a giudici inflessibili dei tentativi altrui.

Il futuro, anche elettorale, di quei paesi che, non a caso, l’imperialismo considera “asse del male” – Cuba, Venezuela, Nicaragua – riguarda il futuro dell’intera America Latina, e non solo. Intorno alla tenuta di questi tre paesi, diversi per storia e contesti, ma uniti nella prospettiva di una nuova integrazione latinoamericana decisamente meno asimmetrica da quella che vige in Europa o nelle istituzioni latinoamericane subalterne agli Usa, si gioca l’indicazione concreta di una nuova indipendenza, capace di dare il buon esempio a vasto spettro.

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