Gabriel Boric che non ti raccontano

Guglielmo Serafino, Mision Verdad 5 febbraio 2022

Nome del santo e cognome di origine croata. 36 anni. Il più giovane presidente del paese. Un gabinetto di governo senza precedenti, a maggioranza femminile. Governa in minoranza al Congresso cileno, e parallelamente riunisce una Convenzione Costituente, sullo sfondo di una grave crisi di legittimità dei partiti tradizionali. Gabriel Boric, nuovo presidente del Cile, assume il governo con una veste che gli regala automaticamente ovazioni.

Le sue dichiarazioni in politica estera, dopo la vittoria, puntano contro il Venezuela per vari motivi, strumentali e ideologici, inquadrati in un movimento generale che rimette in scena il fenomeno della sinistra identitaria. In bianco e nero, per un Paese vittima di una sanguinosa dittatura, il cui passaggio alla democrazia fu supervisionato da un’élite che cavalcò gli effetti psicologici e culturali del terrorismo di Stato per istituzionalizzare la riproduzione del potere e consolidare l’agenda neoliberista promossa da Pinochet col Mattone (http://www.memoriachilena.gob.cl/602/w3-article-719.html),

Boric è senza dubbio una buona notizia. Il migliore dei peggiori?

I problemi iniziano quando ci si concentra e si pone l’accento sulle sfumature che ogni fenomeno sociale porta con sé. Nessuno dubita che lo scisma della destra cilena abbia portato una nuova tappa nel Paese, ma sarebbe rischioso affermare, in via definitiva, che il nuovo presidente ne sia il naturale risultato. Ricapitolando, lo scoppio sociale dell’ottobre 2019, il cui simbolo principale era Plaza de la Dignidad, catapultava Boric al Palacio de La Moneda, tra uno passaggio verso gli “indipendenti” ed elevata astensione, definita da alcuni “strutturale”, segnando l’elezione dell’Assemblea Costituente e la disputa presidenziale contro José Antonio Kast. La menzione del focus non è gratuita perché, indiscutibilmente, la proiezione di Boric, iniziata nel 2011 come leader studentesco e poi deputato, maturò nella protesta severamente repressa, dove zia Pikachu e Sensual Spiderman, due attiviste vestite come i personaggi, rappresentavano il quadro culturale del movimento. Ma la coincidenza con lo strato simbolico delle proteste non fu solo intuitiva o generazionale. Boric, quando si lanciò nella politica istituzionale, ebbe nel suo sistema di riferimenti l’esperienza di Podemos in Spagna, e in particolare Íñigo Errejón, responsabile della divisione della sinistra spagnola con acuti ego e narcisismo , passo precedente per fondare una partito, in linea con la corrente ambientale europea.

Che la bussola ideologica e le fonti intellettuali del nuovo presidente siano in Europa permette a Eugenio Tironi, professore all’Università Cattolica, di equiparare Boric a Daniel Cohn-Bendit, iconico capo del Maggio francese. “Boric sarebbe una versione corretta di Daniel Cohn-Bendit, che fa il Maggio 68 nel 2011 e invece di finire in una comunità hippie, crea un partito”, diceva Tironi. Nell’agosto 2019, poche settimane prima dell’incendio a Santiago del Cile, Boric twittò quanto segue: “Greta Thunberg è la cosa migliore che è capitata al dibattito pubblico da tanto tempo. L’umanità avrà molto di ringraziarla. Prendiamocene cura ascoltandola, rispettandola, ma soprattutto agendo di fronte all’emergenza climatica. Non c’è tempo da perdere. – Gabriel Boric Font 30 agosto 2019”

Il logico risultato dal bere nei dibattiti, fonti intellettuali e riferimenti politici che vanno di moda in Europa, è che Boric comprende la politica e la sinistra da coordinate falsamente universali. Per questo la sua retorica contro il Venezuela è limitata da temi come democrazia e diritti umani, presentati artificialmente in una prospettiva dai valori fissi, inamovibili, immutabili e soprattutto non soggetti a manipolazioni. Col record prodigioso di interventi punitivi e guerre neocoloniali in nome, appunto, di democrazia e diritti umani, si dovrebbe partire da un luogo di minimo sospetto quando si affrontano tali termini. Ma, per Boric, rappresentano valori astratti di affiliazione automatica “universale”, con cui inietta ossigeno nella macchina da guerra occidentale che trova nella sinistra “moderna” e “aggiornata” spazio per nuove giustificazioni per continuare ad aggredire il Venezuela, approfittando del “consenso ambidestro”, da destra e da sinistra. Il dipartimento di Stato degli Stati Uniti si frega le mani ascoltando e leggendo Boric.

Il caso di Errejón non è accessorio. Paragonato fino alla nausea a Milhouse dei Simpson, il fondatore di Podemos si immerse nel dibattito peronista quando era in Argentina e, con una frode intellettuale, reintrodusse certi suoi codici in Spagna. La mancanza di onestà lo portò a credere che fosse possibile importare concetti e tattiche politiche senza tener conto che le tesi peronistiche, come Maradona, sono fenomeni esclusivamente argentini, quindi irriproducibili in un contesto diverso. Tale pasticcio intellettuale portò la sinistra a imboccare la strada del conflitto di interessi e del riconoscimento attraverso le identità, abbandonando la lotta di classe e la disputa sulla base materiale delle società, sempre più assorbita dalle dinamiche disgreganti del capitalismo. Ritenere Errejón responsabile di ciò significherebbe dargli troppo credito, anche se fa parte dell’edificio intellettuale del presidente in un Paese di 20 milioni di persone.

Mark Lilla, noto specialista nordamericano delle politiche identitarie, sostiene che il percorso iniziò a essere irrimediabilmente storto negli anni ’60, quando la sinistra progressista smise di raggruppare la classe operaia e le comunità agricole, per concentrarsi solo sulle università. Errejón e, per elevazione, Boric, fanno parte di tale deriva. “Gli attivisti e i capi di oggi vengono educati quasi esclusivamente in college e università […] soprattutto a livello di élite, sono distanti socialmente e geograficamente dal resto del Paese”, afferma Lilla, situando la sua analisi nella sua area di competenza: gli Stati Uniti. Un’altra informazione interessante fornita da Lilla è la carica ideologica trasmessa dalla generazione degli anni ’60 che sarebbe subentrata, incoraggiando “i giovani a rivolgersi a se stessi, invece che verso il mondo che condividono cogli altri”. A poco a poco, racconta Lilla, le cause comuni persero vigore e fascino, e “si è radicata la convinzione che i movimenti più significativi per se stessi sono […] su se stessi”, perché “l’attività politica deve avere per sé un significato autentico in sé”, al fine di realizzare “l’obiettivo limitato di comprendere e affermare ciò che già si è”.

In tale fuga verso l’io, secondo Hannah Arendt, che tracciò l’attuale deriva della sinistra, il maggio francese fu di importanza cardinale. Diego Sequera la chiama giustamente prima rivoluzione colorata, per il carattere movimentista incentrato sull’espressività culturale e il carattere disgregante sotto il freddo ombrello della falsa dissolutezza. A partire dagli anni ’60, come afferma Gregory Leffel interpretando Lilla e il filosofo William Desmond, ci fu una “rivoluzione della coscienza” che provocò un nuovo sguardo su politica e cultura: la totalità incentrata sul conflitto materiale, i grandi raggruppamenti di classe e nazione, le grandi esigenze della trasformazione sociale, giustizia e l’equità, terreno perso di fronte alla preoccupazione artificiale sul sé, dove le soggettività e il riconoscimento delle minoranze diventavano le carte da giocare. Tale processo non avrebbe avuto l’impatto che ebbe sulla formazione del nostro immediato presente se non fosse stato per la corrente intellettuale guidata da Michel Foucault, Gilles Deleuze, Jacques Derrida, la Scuola di Francoforte, tra gli altri, per cui l’attenzione all’individualità, alle oppressioni periferiche e le loro “linee di fuga” furono una via di resistenza al totalizzante capitalista. Non vedevano, tuttavia, che la riformulazione postfordista del capitalismo neoliberista li avrebbe presi in parola e si avrebbe ristrutturato sulla base del consumismo individualizzato più dannoso, dove le riaffermazioni personali, in un mercato controllato delle identità, rafforzano il controllo del sistema. Non era gratuito, per inciso, che la CIA promuovesse il pensiero di Foucault per creare un’opinione negativa contro il comunismo.

Da questo momento possiamo comprendere l’origine del vocabolario politico che contraddistingue la situazione attuale. Intersezionalità, fluidità, performatività, tra gli altri, sono i segni di un’epoca in cui la sinistra ha perso il contatto con la realtà, dato che il dibattito accademico astratto e l’uso ossessivo dei Big Data simulano una mediazione coerente con la società. Nel suo saggio magistrale The Left and the Politics of Identity, lo storico britannico Eric Hobsbawm mise in guardia dai rischi che l’assunzione della politica dell’identità come programma strategico e figura intellettuale comporterebbero per la sinistra. Uno dei problemi rilevati da Hobsbawm è che “la maggior parte delle identità collettive sono simili a una maglietta che alla pelle, cioè sono, almeno in teoria, opzionali e non inevitabili. E presumeva anche, che ovviamente devi sbarazzati degli altri perché incompatibili con il tuo vero io.

Il risultato pratico della politica dell’identità, alla luce di questa analisi, è la competizione permanente per quote di rappresentanza istituzionale o culturale, dove l’accumularsi di status, prestigio e riconoscimento è mediato dalle stesse mediazioni della sfera culturale del capitalismo. Divisione e frammentazione sono incoraggiate, poiché i legami di solidarietà tra i programmi di lotta sarebbero sopportabili, circostanziali, poiché ciò che è veramente importante è soddisfare le esigenze di ciascun gruppo. Una volta esaurita, l’identità si ritira nella sfera privata divenendo oggetto di consumo. Ma i problemi che ne derivano sono anche tattici. Come sottolinea lo storico: “Dagli anni ’70 c’è la tendenza, crescente, a vedere la sinistra essenzialmente come coalizione di gruppi e interessi minoritari: di razza, genere, preferenza sessuale o altre preferenze e stili di vita culturali, e persino di minoranze. [ …] Una tendenza comprensibile, ma pericolosa, e ancor di più se pensa che conquistare maggioranze non equivalga ad aggiungere minoranze”. Apparentemente siamo in presenza del culmine su ciò che Hobsbawm avvertì con preoccupazione quando pubblicò il suo saggio nel 1996, in cui la politica dell’identità era parallela alla dinamica globalizzante del capitalismo. La guerra per le risorse, il predominio delle corporazioni, ma anche il vocabolario, le forme e i metodi della sinistra occidentale che ha tradito l’umanità sono stati globalizzati.

Non si tratta di cadere nella riduzione all’assurdo di presumere che, nel contesto cileno o altro, la lotta di genere, indigena, ambientale e altro, porti per sua natura un attributo negativo. È piuttosto il contrario: la politica identitaria attuata dalla sinistra attuale rafforza l’isolamento di tali cause, le trasforma in fini a se stesse, riduce il potenziale politico a manovre di riconoscimento e crea tensioni per quote di protagonismo in ambito istituzionale e mediatico paesaggio. In tale contesto, il discorso di Boric sulla vittoria su Kast è un’interessante mappa delle coordinate. Il professore Grínor Rojo cerca di coglierne il fine essenziale e sottolinea gli attributi che l’allontanano dal discorso di Allende, come l’enfasi sulla differenza e la diversità del Cile. Al di là del mare di contraddizioni nel testo e della cascata di riferimenti teorici utilizzati, Rojo interpreta una linea magistrale che prefigura il percorso che Boric intraprenderà: “Insomma: è chiaro e corretto il compito che lo sfondo concettuale del discorso di Boric annuncia e che cercherà di attuare: unire la comunità nazionale, ma senza metterla in una camicia di forza. Nemmeno in una maglia di forza di estrema sinistra (quella che mette al centro la classe operaia o il popolo e afferma che qualsiasi identità diversa da quella è inammissibile) tanto meno quella di ultradestra, per cui non esistono nemmeno differenze”.

Forse senza saperlo, Rojo confessa che Boric è decisamente lontano da quella visione apparentemente antiquata che vede il Cile come popolo intero, quindi si concentrerà sulle linee che lo dividono. Per un Boric plasmato dalla sinistra identitaria, l’immagine del diverso, con la sua enfasi sulla differenza, è più interessante, fresca e attraente dell’ordinario. La sostituzione dell’asse materiale e di classe alla spettacolarità e all’artificio simbolico può essere la scommessa vincente nella normalizzazione dell’ossessione identitaria. Senza nemmeno aver realizzato una vera trasformazione nelle condizioni di così estrema disuguaglianza che attraversa il Paese, Boric ha già ricevuto applausi per la parità di genere nel suo gabinetto, il suo tono ponderato e l’apertura a molteplici settori. Non c’è dubbio che si tratta di progressi significativi. Ma ciò che desta preoccupazione è che le decisioni in tale direzione cercano di essere imposte come l’unico metodo per convalidare un governante in quell’ampio campo che è la sinistra e il progressismo.

Il Venezuela, con una guerra ibrida da una potenza nucleare al seguito, che sopporta da anni una pressione senza precedenti e crescente, ora viene infangato da un Boric che non ha visto la morte per mano di un drone dell’artiglieria, né un mandato di cattura per 15 milioni di dollari per catturarti e ucciderti o lo scioglimento del tesoro della Repubblica che gestisci a causa del blocco economico. Boric scommette sulla politica dell’identità perché lì può ottenere trionfi mediatici e guadagnare pubblico, sostegno e prestigio, secondo le attuali mediocri linee guida, senza combattere sul terreno della vera guerra, come successo a Maduro, che ha perso la buona occasione di rappresentare una “sinistra moderna e democratica” per mantenere un intero Paese a galla.

Tornando a quanto sopra, Pamela Figueroa in un articolo sulla rivista Nueva Sociedad ritiene che la “diversità” della società cilena può essere vista solo dal filtro dell’identità: “Questa pluralità [quella del gabinetto] è nota di fronte alla presenza predominante di avvocati o ingegneri dei governi precedenti. È presente anche la diversità sessuale, con due rappresentanti della comunità LGTBI. È un gabinetto che è più simile alla diversità della società cilena”. Con un criterio di superficialità, la tesi di Figueroa sarebbe corretta. Tuttavia, secondo i dati dell’Istituto nazionale di statistica, il 70% del reddito familiare cileno proviene da salari e stipendi, l’ 89,1% dei lavoratori e lavoratrici lavora 40 ore o più a settimana e più del 70% della forza lavoro ha stipendi tra 288000 e 1 milione di pesos, ben al di sotto della spesa media familiare. Altri dati mostrano che nel 34% delle aziende in cui sono costituiti sindacati vi sono molestie per appartenervi, oltre a molestie sul posto di lavoro e ostacoli all’aderirvi. Il paesaggio materiale confuta la tesi di Figueroa. I dati mostrano un Paese compatto tra sofferenza e precarietà. Le linee di separazione che vengono tracciate sono puramente ideologiche e il prodotto di preoccupazioni accademiche.

Nella sua prima intervista a un media straniero dopo aver vinto le elezioni (la BBC), Boric svelò le riflessioni di quanto detto sull’identitarismo. Alla domanda su capacità e competenze che un presidente dovrebbe avere, Boric dichiarò: “Mi sono formato la convinzione che un buon presidente non è quello più impegnato, che ha più carte intorno a sé. Un buon presidente è chi ha la capacità di ascoltare, di essere aperto a nuove idee, anche se non provengono dalla tua cerchia più intima”. È difficile sapere se Boric abbia accettato la sfida di guidare un Paese prima di sentirsi bene con se stesso. Nella stessa intervista, dichiarò che non avrebbe indossato la cravatta per il cambio di comando perché tradirebbe la sua essenza. Indicò che è difficile per lui capire che dirige un’istituzione presidenziale (parte del fatto che è idealizzata), aspirando a lasciare l’incarico con meno potere con cui è arrivato e riaffermando la sua buona armonia con Justin Trudeau ed Emmanuel Macron sul cambiamento climatico. Affermava che “prima si fanno i cambiamenti culturali prima di avere l’opportunità di dirigerli”, incorrendo nell’errore che su quel piano può esserci una trasformazione senza conquistare la solida maggioranza sociale e raggiungere risultati verificabili nella distribuzione della ricchezza. È il turno dell’élite economica cilena a fregarsi le mani, sapendo di avere un ampio margine di concessioni e stabilizzazioni senza vedere turbati i suoi reali privilegi di potere. Come disse Boric, “Non mi aspetto che siano d’accordo con me, ma mi aspetto che smettano di aver paura di noi”.

Per finire, è ovvio che Boric gioca la carta dell’attacco al Venezuela per discutere con la sinistra del suo governo, il cui sostegno al processo rimaneva. In tal modo crea indirettamente polemiche, cerca di limitare il margine d’azione dei più impegnati nell’agenda del cambiamento, ma evita la fatica di farlo su questioni programmatiche. Tuttavia, la struttura intellettuale e la comprensione del mondo di Boric sono inseparabili dalla sua posizione contro il Venezuela nelle prime dichiarazioni da presidente. In breve, la sua vicinanza all’Europa è causa della lontananza dal processo venezuelano, e il suo delirio per forme e identità si scontra con un Paese che lotta per il futuro e la sopravvivenza immediata dai concetti di classe, nazione e patria, la cui eredità continua essere una fonte di conservazione e adattamento. L’impegno per la tradizione continua a salvarci dalla confusione della novità, che corrisponde al mondo della merce e del consumo. Ed è normale che questo accumulo di valori faccia rumore a qualcuno che, per ora, e ben a differenza di noi, ha ben poco da dimostrare.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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