Washington si spara ai piedi

Ernest Cazal, Mision Verdad 7 marzo 2022

In pochi giorni si sono succeduti una serie di eventi con protagonista il Venezuela che, visti da un punto di vista politico, hanno gli elementi del melodramma con puntata da commedia. Tutto iniziava quando un aereo lasciava Washington passando da Miami per arrivare all’aeroporto internazionale Maiquetía (La Guaira), dove una delegazione di funzionari statunitensi sarebbe stata ricevuta dal governo venezuelano.

La visita, senza precedenti nel quadro di ostilità e disconnessione diplomatica, era uno “sforzo” per rompere il rapporto russo-venezuelano poiché, secondo il NewYork Times, il governo di Nicolás Maduro “potrebbe iniziare a vedere Putin come alleato sempre più debole”.

Al di là delle risate che tale obiettivo manicheo e sconclusionato possa suscitare, va messa in primo piano la motivazione dell’incontro tra alti funzionari dell’amministrazione Biden e l’esecutivo venezuelano: il commercio del petrolio.

Nel 2019, quando il governo di Donald Trump inasprì il blocco finanziario contro il Venezuela sotto forma di embargo energetico, derubando Citgo e Stato venezuelano per conto di teppisti (chiamatelo “tirocinio guaidosiano” o Federal Reserve), i prodotti della PDVSA non avevano più posto nel mercato statunitense; le compagnie russe presero lo spazio negato alla Repubblica Bolivariana. Ora che il governo di Joe Biden ha deciso di scatenare la guerra economico-finanziaria contro la Federazione Russa, già promossa dal 2014, gli interessi energetici degli Stati Uniti sono in pericolo coll’elevata inflazione interna in un momento politico chiave (le elezioni legislative saranno a novembre), quindi i loro capi hanno deciso di bussare alla porta di Caracas.

Piuttosto sembrava che volessero prenderla a calci: i rapporti Reuters, da prendere sempre con le pinze (insieme agli altri media dell’anglosfera), indicano che “Washington ha cercato garanzie di libere elezioni presidenziali, ampie riforme dell’industria petrolifera venezuelana per facilitare la produzione e l’esportazione di compagnie straniere e la pubblica condanna dal regime dell’invasione dell’Ucraina”. Anche se ci si poteva aspettare che il governo bolivariano acconsentisse alle compagnie nordamericane ed europee di investire nell’industria petrolifera nazionale, come più volte sottolineò il presidente e secondo il Wall Street Journal, l’idea del Venezuela che abbandona un alleato strategico del Sud del mondo come la Russia appare ridicola dopo le aggressioni commesse per anni dall’occidente contro i nostri Paesi.

In effetti, il governo di Vladimir Putin fu fondamentale nel contrastare la strategia della “massima pressione” della dirigenza nordamericana, orientando i canali dell’ossigeno all’economia e al commercio venezuelano nell’area di influenza eurasiatica per via del blocco totale di Washington, compreso il veto sull’uso del sistema SWIFT. Il Venezuela non è disposto a commettere un suicidio strategico e politico rinnegando la cooperazione con la Russia, avendo gli stessi aggressori dall’altra parte e condividendo interessi che non hanno nulla a che fare coll’ideologia ma solo coll’esistenza. L’offensiva multilaterale degli Stati Uniti contro i due Paesi rafforza i legami che già condividevamo, e la solidarietà e il sostegno reciproco sono una politica di Stato reciproca in tutti gli scenari della costruzione multipolare e delle crisi.

Quanto alle “garanzie elettorali”, anche l’Unione Europea (UE) colonizzata concorda sul fatto che i risultati delle ultime mega-elezioni in Venezuela erano legittimi, e sottolinea addirittura il fatto che la disposizione rappresentativa della dirigenza del Consiglio Nazionale Elettorale ( CNE) si adegua alle esigenze istituzionali di qualsiasi democrazia, anche sminuita come quella dei Paesi europei legati agli interessi della NATO.

Ma l’arroganza tragicomica dell’amministrazione Biden appare evidente se mettiamo la lente d’ingrandimento sugli attori (secondo il Washington Post ) che avrebbero visitato il Palazzo Miraflores.

– Roger Cartens, ex-tenente colonnello delle forze speciali dell’esercito nordamericano che partecipò all’invasione di Panama nel 1989 (da notare: dove ci furono più morti tra i civili che i militari) e che funge da negoziatore di ostaggi del dipartimento di Stato, fu di nuovo a Caracas coll’intento di rilasciare il cosiddetto “Citgo 6”.

– Juan González, direttore senior del Consiglio di sicurezza nazionale per l’emisfero occidentale, che aveva dichiarato che le “sanzioni” contro la Russia erano progettate per colpire anche Cuba, Nicaragua e Venezuela.

– James Story, “ambasciatore del ministero degli Esteri degli Stati Uniti per il Venezuela” a Bogotá, operatore politico che abitualmente si incontra nella residenza colombiana coi golpisti venezuelani per pianificare ulteriori azioni destabilizzanti contro la Repubblica.

Tale sfilza di funzionari a rappresentare una delegazione negoziale non ha senso se ne consideriamo i profili professionali, azioni e dichiarazioni e l’asprezza scatenata contro le autorità venezuelane. Non sorprende che i media di New York e Washington abbiano preparato il terreno per l’incontro, sapendo che le richieste rasentavano il massimalismo fiscale. È probabile che rimanga aperta una finestra di negoziato, col tavolo del dialogo in Messico come scenario per un futuro forse non così lontano, dato che i canali diretti tra governo statunitense e venezuelano sono affondati nell’oceano politico dando importanza a quella fantasia chiamata “Interim di Guaidó”.

Tuttavia, le prerogative di Washington sono irrealizzabili, rasentano l’assurdo e non hanno alcun fondamento nella realtà geopolitica, soprattutto se si tiene conto che il Venezuela rifiuta categoricamente l’aggiornamento della “notte dei cristalli” occidentale della russofobia estrema che, in un certo modo, noi venezuelani abbiamo già subito nelle aree di influenza statunitense.

E nonostante l’aggressione unilaterale, le previsioni economiche di istituzioni e personalità che neanche lontanamente possono essere classificate chaviste, come FMI ed ECLAC, annunciano la crescita del PIL, ovvero l’aumento della capacità produttiva del Paese. Non si può certo dire che siamo sulla strada giusta per l’indipendenza e la stabilità economica, ma le difficoltà vengono superate. Con o senza la revoca dell’embargo petrolifero o l’ammissione delle licenze dal dipartimento del Tesoro USA. Dopotutto, la delegazione gringa è venuta a Caracas, e non il contrario. La palla (politica) è nel campo nordamericano, anche se sembra non volerne approfittare.

Se Biden firma il decreto che vieti l’importazione di petrolio russo negli Stati Uniti, senza accedere ad altri mercati energetici legati ai suoi interessi strategici, chi pagherà (molto) caro sono i cittadini nordamericani, ed è molto probabile che lo sconti il Partito Democratico alle elezioni di medio termine. In tal senso, Washington si sparerà ai piedi, infliggendo una profonda ferita nella propria economia reale mentre la sua egemonia unilaterale va a rotoli, anche se la sua smania rimane intatta.

I funzionari statunitensi non hanno altra scelta che cadere in un continui eccessi, mantenendo una coerenza nel comportamento antipolitico pari all’immagine mitica di Nerone quando decise di bere vino e suonare la lira mentre, in lontananza, guardava le fiamme divorare Roma. La storia lo ricorda come un maniaco accecato dal proprio compiacimento, tipico degli artisti che non hanno talento.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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