Intervista a William Castillo, viceministro venezuelano delle Politiche anti-bloqueo

Geraldina Colotti

William Castillo, giornalista con una grande esperienza nelle istituzioni bolivariane, dal 2020 è viceministro delle Politiche Anti-bloqueo e dirige l’Osservatorio Anti-bloqueo, un importante strumento di analisi e monitoraggio sugli effetti delle misure coercitive unilaterali illegali imposte dagli Stati Uniti e dai loro alleati, e sulle contromisure messe in atto dal “laboratorio bolivariano” per spezzare l’assedio. (www.observatorio.gob.ve)

Qual è la funzione del vice-ministero che dirige e qual è il suo compito?

Il vice-ministero fu creato nel 2020 mediante una riforma della struttura del ministero di Economia, finanza e commercio estero, diretto da Delcy Rodriguez, vicepresidenta della Repubblica. Si è voluto così impostare un’area di studio e di ricerca sul tema dell’aggressione multiforme, il bloqueo, le “sanzioni”. Prima di quella data, non esisteva una struttura istituzionale che registrasse e analizzasse cause ed effetti delle misure coercitive unilaterali sul piano statistico, giuridico, economico, sociale. In quel contesto, l’Assemblea Nazionale Costituente, allora in attività, ha approvato la Legge anti-bloqueo nel cui ambito venne creato anche l’Osservatorio. Oggi ho il compito di dirigere due istanze, una all’insegna della politica (il vice-ministero), l’altra dedicata alla ricerca e alla formazione (l’Osservatorio). Entrambe fanno parte della politica complessiva dello Stato per affrontare l’aggressione simbolica, diplomatica, politica, ma soprattutto economica, determinata dalle “sanzioni”.

Lei è stato uno degli artefici della Legge anti-bloqueo, che ha suscitato molte discussioni e che, ancora oggi, non è stata capita appieno. Si è arrivati a dire che avrebbe distrutto i capisaldi della rivoluzione bolivariana voluta da Chávez, spalancando la strada al mercato capitalista. La Legge anti-bloqueo è uno strumento neoliberista o in questi due anni è riuscita a convincere del contrario?

Questi argomenti, assolutamente inconsistenti, sono parte della narrativa mediatica internazionale, alimentata soprattutto dalla destra per squalificare le politiche anti-bloqueo, e cavalcata da alcune componenti che si credono più chaviste di Chávez. Bisogna ricordare il contesto nel quale, a ottobre del 2020, il presidente Maduro presenta la Ley anti-bloqueo all’Assemblea Nazionale Costituente. L’imposizione delle misure coercitive unilaterali stava affondando l’economia, impedendoci di vendere il nostro petrolio, di rinegoziare il debito, di importare alimenti e medicine. Per via della persecuzione diplomatica, ci veniva vietato l’accesso agli organismi internazionali… Intorno a quella proposte di legge, si è generato un dibattito nazionale nel quale sono emerse quelle posizioni secondo le quali la legge sarebbe stata uno strumento per denazionalizzare l’industria petrolifera e per consegnare le risorse dello stato alle multinazionali. In realtà, il presidente ha proposto la creazione di uno strumento giuridico per consentire allo Stato di affrontare con politiche flessibili quell’aggressione multiforme, sviluppando un concetto che riguarda l’applicazione della norma, che non prevede riforma alcuna in presenza di un periodo eccezionale come quello che ci trovavamo ad affrontare. L’approvazione della Ley anti-bloqueo permette, dunque, per un periodo transitorio, alleanze economiche e progetti che consentano di avere risorse, evitare il blocco, aggirare le “sanzioni”, ma senza intaccare la struttura giuridica dello Stato. Si è cercato di combinare la legge con il Programma di recupero, crescita e prosperità economica proposto dal presidente nel 2018 per affrontare i problemi fondamentali della nostra economica come quello dell’attacco alla moneta. Si è perciò proceduto, per esempio, a rimuovere alcuni controlli cambiari per consentire un po’ di respiro al commercio estero. È quindi assolutamente falso che questa legge metta in questione il controllo dell’industria petrolifera o degli idrocarburi o di tutti gli altri beni che sono proprietà dello Stato, patrimonio pubblico stabilito dalla costituzione. È vero invece che ha cercato di dinamizzare i processi produttivi permettendo la protezione degli investitori altrimenti perseguiti dalle “sanzioni”. A questo fine, la legge si è dimostrata uno strumento valido per il recupero dell’economia, attraverso progetti di investimento pubblico-privato in vari settori produttivi, che, dopo la drastica caduta degli introiti provocata dal bloqueo, hanno portato e portano divise e lavoro, senza che questo abbia modificato la struttura giuridica della nostra costituzione. In questi due anni, la realtà si è incaricata di rispondere alla campagna denigratoria contro la Ley anti-bloqueo, che ha costituito una risposta strategica all’aggressione multiforme contro il nostro paese.

Lei dirige una cattedra contro il bloqueo e un Osservatorio che fornisce dati sugli effetti delle misure coercitive unilaterali. Cosa si propone l’Osservatorio e quali sono i principali elementi di studio per gli studenti che partecipano ai suoi corsi?

L’Osservatorio è uno strumento contemplato dall’articolo 16 della Ley anti-bloqueo, creato per produrre, analizzare e diffondere statistiche inerenti le misure coercitive unilaterali in prospettiva accademica e con metodo scientifico. Dati che consentano alle istituzioni dello Stato e ai poteri pubblici di avere una visione integrale, storica e basata su una comparazione internazionale. In questa ottica, abbiamo costruito relazioni accademiche con altri istituti dell’educazione universitaria, come l’Università bolivariana del Venezuela o il Centro Internazionale Miranda. Da un mese ha preso avvio un piano di studi che prevede una formazione rapida su questo tema, rivolta a studenti, ricercatori, accademici, funzionari pubblici, imprenditori e organizzazioni del potere popolare, affinché comprendano la portata dello scontro fra la dottrina bolivariana e quella imperialista nel nostro continente, rappresentata dalla Dottrina Monroe. La formazione include anche l’analisi delle forme di resistenza popolare messe in atto contro il bloqueo.

Le “sanzioni”, imposte unilateralmente, in spregio agli organismi internazionali, sono forse l’esempio più evidente di un’illegalità diffusa diventata norma, a discrezione dei potenti. Quali stravolgimenti si sono creati in conseguenza, quali considerazioni si devono tratte e quali contromisure si possono mettere in campo?

Le “sanzioni” rimandano a una politica dello stato nordamericano che nasce all’inizio del secolo scorso, mediante la cosiddetta legge del commercio con il nemico, però che si sviluppano particolarmente durante la guerra fredda e che a partire dagli anni 80 si convertono in uno strumento della politica estera Usa. Uno strumento di coercizione, di ricatto, per complementare le aggressioni militari o per sostituirle, secondo una strategia considerata “blanda” dai teorici del controllo egemonico del mondo. Strategie diverse ma con lo stesso obiettivo, che si scontrano sulla politica estera del Pentagono, dividendosi fra chi vorrebbe invadere i paesi non graditi e chi vorrebbe invece metterli in ginocchio o destabilizzarli devastando l’economia, in violazione al diritto internazionale, alla Carta delle Nazioni Unite, che hanno condannato a più riprese le sanzioni per il loro carattere extraterritoriale, illegale, inumano. Misure condannate dal diritto internazionale perché colpiscono le popolazioni, soprattutto i settori più vulnerabili: bambini, anziani, infermi che non possono ricevere medicine per via del blocco al commercio estero, o il sostegno dei famigliari all’estero, come nel caso delle rimesse per Cuba. Questa arbitrarietà oggi è diventato un problema globale e una politica fallimentare, come si evidenzia con il conflitto in Ucraina. Perché, finché si sanzionano singole imprese di singoli stati, com’è accaduto nei confronti della Cina o della Russia, gli effetti sembrano non avvertirsi. Finché si sanzionano paesi in via di sviluppo come Cuba, Nicaragua, Venezuela, Zimbabwe, Sudan, Repubblica democratica del Congo, Siria, Iran, Iraq, per il resto del mondo sembra non succeda niente. Quando, però, si sanziona una potenza mondiale come la Russia che provvede a quote determinanti del commercio estero all’Europa e al sud globale in termini di grano, fertilizzanti, gas, ecco che le sanzioni si trasformano in un boomerang e diventano un problema globale. Oggi sono circa 30 i paesi colpiti da “sanzioni”, ossia il 28% della popolazione mondiale. Si tratta di un problema mondiale, politico, giuridico, economico, che deve essere affrontato dall’insieme delle Nazioni Unite. Occorre prendere atto della trasformazione in corso. Ci troviamo in una transizione verso un mondo multipolare che non può più tollerare l’aggressione unilaterale di uno Stato o di un gruppo di Stati suoi alleati, com’è accaduto al Venezuela, aggredito dagli Usa, dall’Europa, e anche da alcuni governi dell’America latina e dei Caraibi. Gli effetti di queste aggressioni sono devastanti, si tratta di crimini contro l’umanità, un attentato alla salute, all’alimentazione, allo sviluppo. Per questo, il Venezuela ha denunciato il governo Usa alla Corte Penale Internazionale.

Il Venezuela è un laboratorio, che condensa altre tattiche precedentemente sperimentate dall’imperialismo in diversi scenari di conflitto. La creazione di false istituzioni internazionali, e di personaggi come Guaidó, autoproclamati “presidenti a interim” per sottrarre risorse ai popoli, sono fenomeni che possono costituire uno schema ripetibile e attivabile in altri contesti dall’imperialismo?

È sicuramente una domanda da porsi. Il Venezuela è effettivamente un laboratorio di sperimentazione politica di ogni forma di aggressione imperialista e delle trasformazioni dei modelli che si sono prodotte, come abbiamo visto nel corso degli ultimi 20-22 anni. Ci hanno applicato tutte le tecniche: dal golpe militare classico, a quello mediatico, economico-finanziario, dal sabotaggio delle istituzioni alla destabilizzazione delle zone di frontiera, ai tentativi di invasione para-militare come quella scoperta nel 2004 contro Chávez, quando un gruppo di mercenari colombiani che aveva il compito di uccidere il presidente è stato catturato a Caracas. Contro il presidente Maduro, poi, hanno organizzato l’operazione Gedeon, il sabotaggio delle strutture elettriche, l’attentato con i droni, il sabotaggio delle installazioni petrolifere, l’attacco alle nostre petroliere, il sabotaggio interno mediante corruzione, ripetute violazioni dello spazio aereo nonché provocazioni con l’invio di carichi di droga che venivano fatti “scoprire” alla frontiera, solo che la droga proveniva dalla Colombia. I diversi piani orchestrati dal Comando Sur per attaccare il Venezuela, come l’operazione Puma nella quale risulta coinvolto l’esercito argentino ai tempi del governo Macri, sono stati discussi alla Casa Bianca, come hanno rivelato le confessioni di John Bolton o Mark Esper in alcuni libri. Per avanzare nei piani di aggressione e impadronirsi degli attivi all’estero del Venezuela, come l’impresa Citgo negli Stati Uniti o Monomeros in Colombia, o il blocco dell’oro nelle banche europee, c’è stato bisogno di erigere una falsa muraglia giuridica, una falsa struttura di governo che consentisse alla cosiddetta comunità internazionale di giustificare le aggressioni diplomatiche, provocare violenze, colpi di stato o scontri interni per giustificare l’intervento “umanitario”, e consentire a istituzioni internazionali create ad hoc, come il Gruppo di Lima di resuscitare il Tiar, il Trattato internazionale di assistenza reciproca e usarlo contro di noi. Per tutto questo, c’era bisogno di riconoscere un altro presidente, uno falso, che nessuno ha eletto. Un modello che, effettivamente, si è cercato di replicare in Bolivia prima con le false accuse di frode elettorale promosse dall’Osa di Almagro, poi con l’autoproclamazione della signora Janine Añez, che ha riportato indietro per un anno il processo di cambiamento in Bolivia. Sì, siamo un laboratorio di sperimentazione, ma anche di resistenza, perché a ogni attacco abbiamo reagito rafforzando le nostre istituzioni e approfondendo il nostro processo orientato al socialismo, e stiamo avanzando di fronte alla storia.

Nel contesto della globalizzazione capitalista, che ha come elemento portante la finanziarizzazione delle economie, è possibile che i popoli e i paesi aggrediti dalle “sanzioni” mettano in campo una strategia comune?

Occorre considerare le profonde trasformazioni geopolitiche e geo-economiche sullo scacchiere mondiale, il ruolo della Cina e della Russia, il declino dell’Unione Europea se resta nell’orbita politica degli Stati Uniti, il cui modello egemonico non può controllare il sorgere di un mondo multipolare. Un nuovo mondo che si va configurando, come un parto doloroso, nel pieno di una crisi e di una guerra, come avviene per le grandi trasformazioni storiche. I paesi dell’America Latina e dei Caraibi, pur nelle differenze, devono trovare una visione comune che già si prefigura in un organismo come la Celac, che nasce dalla nostra identità latinoamericana e caraibica, dal nostro spazio politico che non è quello del panamericanismo egemone che vuole controllare qualunque organizzazione continentale e deciderne gli obiettivi, perché ci considera il proprio cortile di casa. Abbiamo bisogno di riscattare la Unasur, il Mercosur, rafforzare l’Alba e Petrocaribe, i meccanismi dell’integrazione centro-americana, inclusa la comunità Andina: insomma, tutti i meccanismi che i paesi stanno ripensando in questo contesto di crisi mondiale, energetica, alimentare, che ci colpisce tutti. Dopo la fase messa in moto dai governi Chávez, Correa, Morales, Kirchner, Lula, Mujica, oggi sembrano esserci le condizioni per dare cittadinanza ai diversi progetti politici e alla sovranità di ogni Stato, affinché ognuno possa affrontare la propria realtà interna senza tutele, ma anche cominciando a vederci come regione, costruirci come polo, rafforzare la cooperazione energetica, alimentare, sanitaria in unità nella diversità. Sono processi complessi, però mi sembra vi sia oggi, a fronte della crisi mondiale del capitalismo, una maggior coscienza.

Qual è la sua opinione del conflitto in Ucraina e quale posizione assume il Venezuela nelle complesse dinamiche internazionali, considerando che alcuni paesi vostri alleati, come per esempio la Turchia, svolgono un doppio ruolo, sia all’interno della Nato che nella possibilità di un mondo multicentrico e multipolare?

Il conflitto in Ucraina può essere considerato una cartina di tornasole della profonda trasformazione geopolitica mondiale, della decadenza del modello egemonico nordamericano, che ha cercato di provocare un conflitto tra la Federazione russa, l’Unione Europea e la Nato, mediante la guerra per procura contro la Russia. Mosca ha risposto difendendo la propria sicurezza e quella delle popolazioni civili di frontiera. Il fatto è che, oggi, il modello occidentale di controllo delle risorse, è in declino. Sorgono nuovi attori, nuove realtà economiche e nuove alleanze, a partire dai Brics, dall’asse euroasiatico, all’asse Mosca-Pechino. Ovviamente, tutti vogliamo la pace, e il dialogo, e ci auguriamo che si possa tornare agli accordi di Minsk che si firmarono nel 2014 per porre fine al conflitto in Donbass. C’è da dire, però, che nessun accordo firmato con la Russia è stato rispettato. Ora, si sta utilizzando uno stato neo-nazista guidato da un irresponsabile che sta muovendo guerra a una parte della popolazione, che ha bombardato scuole e ospedali grazie a una banda di fanatici montati dagli Usa nel governo di Kiev, per fare la guerra e innescare un conflitto mondiale che si sta rivelando un boomerang per l’economia europea e per quella degli Stati Uniti. Una situazione assai complicata nella quale noi speriamo si arrivi alla pace, con accordi sicuri, che si possa fermare questa guerra per procura contro la Russia e bloccare le sanzioni degli Stati Uniti e dell’Unione europea imposte a un paese sovrano, che ha diritto a perseguire il proprio sviluppo

Dopo la recente visita della delegazione nordamericana in Venezuela, a che punto stanno le cose rispetto al bloqueo Usa?

Solo possiamo ripetere quel che hanno detto sia il presidente Nicolas Maduro che la vicepresidenta Delcy Rodriguez: il Venezuela è un paese di dialogo, non ha aggredito né imposto sanzioni, anzi ha dovuto difendersene. A fronte di una crisi mondiale che è anche di natura energetica, il Venezuela sa di dover giocare un ruolo di equilibrio, e in questo senso si inquadra il viaggio compiuto da Maduro in alcuni paesi-chiave a questo riguardo. Il Venezuela chiede di superare il bloqueo, di poter partecipare all’economia internazionale come ogni nazione sovrana, alla pari, chiede che si rispetti il proprio diritto allo sviluppo, che non si colpiscano i diritti umani del nostro popolo, che venga rispettata la libertà di costruire un nostro modello di società. Siamo sempre rimasti aperti al dialogo, non tocca a noi, quindi, ma a chi ci ha aggredito ed è stato respinto, pur avendo comunque provocato un gran danno al nostro popolo, tornare sulle proprie decisioni. Io direi che finora le misure prese sono più o meno di natura cosmetica, non vanno al fondo del problema e l’agenda da riprendere su questo tema, è nutrita, e sarà materia di decisione dello Stato venezuelano e del suo gruppo dirigente.

La scure delle misure coercitive unilaterali imposte al Venezuela è calata pesantemente sul diplomatico venezuelano, Alex Saab, sequestrato a Capo Verde e deportato negli Usa. Che previsioni si possono fare sul suo futuro nelle attuali condizioni?

Il Venezuela continua a difendere fermamente i diritti umani e l’integrità fisica di Alex Saab, diplomatico venezuelano sequestrato in modo canagliesco, e sottoposto a un low fare criminale per conto degli Stati Uniti con la complicità dell’ex governo di Capo Verde. Oggi Alex Saab è un prigioniero politico del governo Usa. In sua difesa, si è creato un movimento a livello mondiale, a cominciare dagli Stati Uniti. Si deve mantenere questa pressione internazionale affinché vengano riconosciuti i diritti del nostro diplomatico, che è parte della resistenza del popolo venezuelano al bloqueo e alla minaccia di invasione. Continueremo a batterci per questo e a stare vicino alla sua famiglia, come stanno facendo tante persone nel mondo.

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