Nicolás Guillén, giovane, mulatto e provinciale

Alessandra Riccio – https://nostramerica.wordpress.com

La morte di Nicolás Guillén (Camagüey 1902, La Habana, 1989) ha lasciato vuoto lo scanno di “poeta nazionale” che aveva occupato dalla rivoluzione in avanti e che nessuno aveva mai messo in discussione poiché la sua voce, più di qualunque altra, aveva saputo riassumere con coerenza la rabbia dell’emarginato, la prepotenza del padrone, l’allegria della vita, la commozione e il gusto del trionfo.

Militante del vecchio Partito Comunista cubano fin dal 1937, Guillén ha denunciato lo sfruttamento e il razzismo, l’imperialismo ed il terrore della repressione ma anche il trionfo di una nuova storia. Quando, nel 1975, fu celebrato il Primo Congresso del Partito Comunista Cubano, toccò a Guillén concludere quell’assise solenne leggendo con voce emozionata e calda il poema “Tengo” che in breve si convertiva in una specie di dichiarazione dei diritti dei cittadini della società cubana in rivoluzione.

La sua militanza gli era costata cara: la persecuzione, l’esilio, la lotta. E se nella drammatica “Elegía a Jesús Menéndez” il poeta elevava una vibrante protesta contro l’assassinio di quel leggendario dirigente sindacale, una gran parte della sua poesia appartiene alla straordinaria corrente avanguardista della poesia del primo novecento. Negli anni venti e trenta, quando a Cuba politica ed arte andavano di pari passo e l’una non sembrava trovare spazio senza l’altra, Nicolás Guillén ebbe l’ardire e il coraggio di portare il nuovo e genuino tema del “negrismo” nella poesia contemporanea e seppe comunicarne i miti, i ritmi, la vitalità. Con “Sóngoro cosongo” o “West Indies Ltd.” arricchì la poesia cubana di una sensualità più corposa e viva di quella dei grandi poeti del modernismo o dei rappresentanti più accaniti delle avanguardie. Il suo contributo fu di freschezza e vita, di impegno e di eleganza, di una semplicità sapiente né primaria né primitiva. Poeta del Caribe e dell’incrocio di razze, poeta del sesso e della tradizione africana ha saputo rappresentare nei suoi versi tutti gli aspetti di quel coacervo di tradizioni e di contrasti che convivono nella gente mulatta. Del miscuglio di razze ha saputo dare un’immagine poetica affermativa: un contributo “al profilo definitivo dell’uomo”. Un verso dal ritmo prepotente, sempre vitale, allegro e sensuale, quello di Guillén, capace di suscitare anche l’impegno e la coscienza, e la sua prosa, coltivata in generi e cammini secondari, presenta la stessa piacevolezza, soprattutto nei testi autobiografci  come “Prosas de prisa” o “El diario que a diario”. Con humor e simpatia Guillén ha consegnato a quelle pagine il racconto di una vita densa, vissuta con impegno e radicalità, una vita vissuta con vorace curiosità.

Nel terzo millennio, scomparsa un’epoca di violente passioni politiche e di radicale rivendicazionismo, resta per i più giovani, la voce segreta dell’ancestro africano, il ritmo sotterraneo dell’ossessivo tamburo, il richiamo prorompente alla vita e all’amore.

E’ stato poco conosciuto in Italia, eppure qui Guillén ha vinto il Premio Viareggio nel 1972, ed ha pubblicato “Canti Cubani” per gli Editori Riuniti, “Elegia e Canti Cubani”, per Accademia-Sansoni e “In qualche punto della primavera” per Feltrinelli, tutti nella traduzione di Dario Puccini, e per qualche anno, a Piacenza, nella rassegna “Carovane”, a Nicolás Guillén è stato intitolato un premio attribuito, fra gli altri, a Gino Strada e a Roberto Fernández Retamar.

LA VOZ ESPERANZADA

….

Yo que amo la libertad con sencillez,

como se ama a un niño, al sol, o al árbol plantado

frente a nuestra casa;

que tengo la voz coronada de ásperas selvas milenarias,

y el corazón trepidante de tambores,

y los ojos perdidos en el horizonte,

y los dientes blancos, fuertes y sencillos para tronchar raíces

y morder frutos elementales;

y los labios carnosos y ardorosos

para beber el agua de los ríos que me vieron nacer,

y húmedo el torso por el sudor salado  y fuerte

de los jadeantes cargadores en los muelles,

los picapedreros en las carreteras,

los plantadores de café y los presos que trabajan

desoladamente,

inutilmente en los presidios sólo porque han querido

dejar de ser fantasmas;

yo os grito con voz de hombre libre que os acompañaré,

camaradas;

que iré marcando el paso con vosotros,

simple y alegre,

puro, tranquilo y fuerte,

con mi cabeza crespa y mi cuerpo moreno,

para cambiar unidos las cintas trepidantes de vuestras

ametralladoras,

y para arrastrarme, con el aliento suspendido,

allí, junto a vosotros, allí donde ahora estáis, donde estaremos,

fabricando bajo un cielo ardoroso agujereado por

la metralla,

otra vida sencilla y ancha,

limpia, sencilla y ancha,

alta, limpia, sencilla y ancha,

sonora de nuestra voz inevitable.

(da España, poema en cuatro angustias y una esperanza – 1936)

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