La diaspora contro la diaspora

Franco Vielma

Cosa dire delle diaspore venezuelane negli USA? Tanto per cominciare, non si può parlare solo di una, bensì di varie, molte. Non si può parlare di queste come se fossero identiche a quelle che sono andate in altri paesi, poiché in questo caso il viaggio non è il viaggio in sé stesso, è la meta. Questo tema implica un punto a capo.

Il Darién ha cessato di fare notizia. Ora sarà il luogo che è sempre stato, di migranti che provengono da vari paesi dell’America Latina, dove alcuni o molti possono morire, ma non ce ne accorgeremo.

Le registrazioni di video di TikTok dal Darién non ci sono più, poiché coloro che hanno sempre attraversato e continueranno ad attraversare, che non siano venezuelani, non si preoccupa di registrarsi e farcelo sapere. Neppure ce ne accorgeremo.

Le ultime misure migratorie del governo di Joe Biden dirette alla migrazione venezuelana, hanno messo fine a una tetra comparsa che quello stesso governo ha provocato una volta che il Temporary Protected Status (TPS) favorevole ai venezuelani, ha spinto un’ondata verso quel paese sotto una falsa promessa di accoglienza. Ma inoltre la migra si è occupata di accogliere e incarcerare i migranti, fino a quando i governatori repubblicani del sud li hanno portati “con piacere” negli stati governati dai democratici.

Non si parla più del Darién, ma sì abbiamo le molteplici opinioni a favore e contro quella misura e la diaspora che si è conclusa o a Times Square o nel Rio Grande.

Primo apprezzamento: tutto ciò che resta nell’aria come oggetto di quel “dibattito” suggerisce che ci sono venezuelani che si odiano, che la stragrande maggioranza di loro, antichavisti, si odiano tra loro.

“VENECOS” COMPLESSATI

 

Avete visto il video di alcuni operai venezuelani “poveri ma negli USA” che mangiano un hamburger  i McDonald’s da $ 1 in un parco durante la loro pausa, vantandosi del loro status? C’è un TikTok di un giovane fattorino che ipoteticamente fa consegne su un Mercedes Benz. C’è un altro caso di un venezuelano in Gringolandia che ha celebrato che non lasceranno entrare “la spazzatura” in quel Paese.

Vi ricordate il video della signora (probabilmente abitava in una casa INAVI a Cabudare) che stava infangata in mezzo al Darién che diceva che Biden non li avrebbe più fatti entrare perché hanno trovato sputi di chimò (derivato del tabacco ndt) a Times Square e “che peccato con quella gente, mio ​​Dio”? Che dire del video della ragazza che piangeva perché non potevano entrare “nel paese degli hamburger”?

Ebbene, quasi tutti sono riusciti a vedere il video di Yoaibimar “la tierrúa en niu yol”, la stessa uscita con il figlio disabile, diventato virale, più che per la messa in scena stessa, per le reazioni che ha generato. Mai un video ha ricevuto così tanti commenti dai parte de l@s chic@s Visa venezuelani. Mai più.

Un’immagine fresca è quella di un gruppo di venezuelani che tenta di attraversare il Rio Bravo con una bandiera tricolore, venendo accolti con pallottole, per poi correre di nuovo in acqua e dalla parte messicana.

Solo due volte nella storia recente si sono viste bandiere venezuelane attraversare (o per meglio dire tentare di attraversare) una frontiera per finire umiliate in una scena di sconfitta televisiva e ampiamente trasmessa. Il giorno in cui i venezuelani hanno cercato di entrare nei ponti tra Colombia e Venezuela con “aiuto immaginario”, e questo giorni fa, tra Messico e USA.

La triste epica è la stessa. Venezuelani cercando di prendere qualcosa con la forza guidati da un impeto politico e/o personale, ma umiliando una bandiera che era solita attraversare frontiere solo per sconfiggere la Spagna e fondare nazioni.

Riflettiamo a cosa hanno voluto convertirci. Questo è iniziato dal furto di Capriles del berretto tricolore a 8 stelle di Chavez e si è evoluto fino a diventare il berretto dell’opposizione. Ma è passato ad essere simbolo dell’identità migrante. S’includa in questo pacchetto anche le borse tricolore che dovrebbero stare sulle spalle di un giovane che studia in Venezuela.

Si noti che coloro che hanno emigrato con il berretto hanno cominciato ad odiare quelli delle borse tricolori, perché questi ultimi sono sicuramente più poveri (o sembrano esserlo) dei primi. L’odio ha cominciato a prendere forma politica quando si è cominciato a dire che quei venezuelani poveri (con borsa tricolore) che all’estero vomitano veleno contro il paese o contro Maduro, presumibilmente “sono chavisti”. Ma non cadiamo nelle menzogne, non sono chavisti per un c….

Poco ha generato tanta indignazione tra la diaspora come quando hanno fatto una foto al famoso zainetto scolastico davanti alla Torre Eiffel a Parigi.

Le reti sono diventate un campo di fuoco incrociato indiscriminato. L@s chic@s Visa, contro quelli che hanno attraversato il Darién, venezuelani bianchi di Miami, contro venezuelani neri in un rifugio per indigenti a New York, ma oltre a loro, venezuelani in Colombia, Perù o Cile, contro venezuelani negli USA.

Non dimenticare che molti di coloro che sono andati nel cuore dell’impero attraverso Darién già stavano fuori dal Venezuela. Quindi non fuggivano dalla “crisi umanitaria” chavista, bensì se ne andavano dalle “prospere” economie vicine, e che qualsiasi tentativo di attraversare una selva piena di sadici, narcotrafficanti, paramilitari, coccodrilli e simili, è meglio che (tornare a casa) con “tavole in testa” back to home.

Non dimenticare che se un venezuelano “nero” con “look reggaeton” (eufemismo della polizia per “teppista”) viene visto da qualche parte nel “paese degli hamburger”, potrebbe essere “un imbarazzo, mio ​​Dio”, poiché cosa penserà quella gente civilizzata della prima potenza mondiale.

Guardiamo in profondità, che il nodo centrale e sentimentale di ogni follia nella complessata e  ridicola  quali sono le diaspore venezuelane, tra loro l’unica in tutta la storia che ha trasmesso il suo passaggio attraverso il Darién. Ma anche quella che vive a “los yunaited”, quella che non è riuscita ad entrare, tutte, compresa quella che ritorna in Venezuela con un volo dal Messico per il Plan Vuelta a la Patria, ma che non ha più internet ed è per questo che non lo pubblica.

Più insoliti quelli che già abitavano a Gringolandia. Per fare solo un esempio, sto parlando del complesso di credere che alcuni “neri di Petare” faranno cose “brutte” a New York.

Amici/che che continuate a leggere, a New York c’è gente che caga dentro il treno della metropolitana. Le città USA pullulano di tende sulle strade pubbliche e di rifugi sovraffollati per senzatetto e  indigenti.

Negli USA ci sono le “vie della droga”, o dove ci sono centinaia di “zombi” in bella vista in uno spettacolo degradante e tollerato. Gli USA sono il Paese dello stile rap e il centro di riferimento per l’immagine “urbana” che ha standardizzato un segmento della malavita su scala globale. E per dirla più precisamente, gli USA sono la capitale mondiale della volgarità, del cattivo gusto, di gente ridicola, che convivono in tese relazioni sociali a causa della loro diversità razziale. I Kardashian vivono lì. Rendersi conto.

Quindi, a dire il vero, un “ragazzino nero di Petare” non si noterà tra milioni e milioni di statunitensi e immigrati colorati e uniformati con l’usanza urbana gringa imposta dalla globalizzazione.

Ma per porla in una prospettiva profonda, non è il “piccolo nero”, è il classismo, il razzismo, il complesso, l’assurdità.

“BUONI CONTRO CATTIVI”

 

L’immaginario antichavista trasformato in diaspora USA, o aspirante ad essa, ostenta ancora una volta quella logica binaria che hanno imposto in Venezuela dai tempi “migliori” dell’opposizione politica. A quei tempi, era “la classe colta e pensante del paese” contro “il chavismo criminale e di cattivo gusto”.

La logica oggi tra queste diaspore è “buoni contro cattivi”, “brava gente” contro “cattiva gente”. Coloro che erano già dentro contro coloro che arrivavano o volevano entrare. Coloro che “si comportano bene” contro “coloro che si comportano male”.

Ma questa è una disputa debole, senza l’intenzione di generalizzare, poiché collocano quei «lumpen» (sotto proletari ndt)migranti come le gente “cattiva” che vogliono entrare, anche se illegale, mentre ci sono altri venezuelani che “hanno fatto le cose bene”, trattandosi di pratiche burocratiche.

È come se si parlasse di “gente onesta” per riferirsi a tanti venezuelani che sono entrati negli USA negli anni precedenti, nella condizione di “perseguitati politici” e “rifugiati”, quando sappiamo che il 99% di loro ha utilizzato la categoria di “persecuzione politica” per aggirare il sistema migratorio USA, conquistare preferenze e avere una Green Card, senza essere oggetto ad alcuna pressione, ingiunzione legale o oggetto di alcuna minaccia alla sua vita in Venezuela. Sono impostori.

I venezuelani con anni nel “paese degli hamburger” sono irritati dal fatto che un venezuelano povero e decimato grazie a un blocco economico che loro hanno applaudito entri senza aver fatto le pratiche. Loro portano la “meritocrazia” dal 2002 ovunque vadano e continua ad essere il vetro con cui continuano a guardare tutto.

In fin dei conti, parlando di “brava gente”, bisogna guardare come è composta buona parte della comunità venezuelana in Florida: banchieri fuggiaschi, uomini d’affari in fuga con valute straniere (truffatori del cadivismo), narcotrafficanti, corrotti delle ultime due repubbliche, “modelle” (o meglio prostitute di alta classe) e per finire, la Tavola dell’Unità Democratica e il seguito più vicino di Guaidó. Possono esserci peggiori riferimenti criminali tra questa “brava gente”? Accanto a loro, qualsiasi “teppista” uscito dal Darien è un lattante.

La logica ‘dell’uno contro l’altro’, del ‘buoni contro i cattivi’, sul suolo venezuelano si basava su un Paese che non esisteva, ma che alcuni si sentivano strappato via. “Oppositori decenti” contro “chavisti marginali”. Ma al di fuori del Venezuela è una disputa sfrenata, dove in termini reali si conclude tra un popolo che ha in comune un disprezzo per il chavismo che a volte è esteso al paese.

Ma il centro di quella disputa non è più il Venezuela, ora è il “sogno americano”, quel Paese e il suo “diritto a stare”, il “diritto” di alcuni a possedere una briciola del sogno, il merito, la realizzazione. È il discorso di “coloro che si possono adattare” e “coloro che non potranno”. Ancora una volta il ripetuto discorso dei “formati” contro “coloro che hanno il ranch in testa”. Ed è qui che finisce tale narrazione.

Quando l@s chic@s Visa hanno incolpato i cenciosi del Darién per i cambi nelle misure migratori, non si sono preoccupati di affermare che Trump, facendo  campagna politica per le elezioni di medio termine, ha affermato che Maduro stava “liberando prigionieri dalle carceri per portare stupratori e assassini” a quel paese.

Hanno anche ignorato che Marco Rubio ha segnalato che la migrazione negli USA “era creata da Maduro per danneggiare” il suo Paese.

Ai venezuelani col visto poco o nulla interessa che i politici gringo stigmatizzino il loro popolo e loro stessi, perché l’importante è il folle commento anti-chavista nella volgare campagna USA.

Tra le diaspore c’è poca o nessuna sincera riflessione sul fatto se il bloccare l’economia venezuelana abbia o meno un legame con la migrazione fuori dal paese, sebbene ci sia una matematica convincente. Il Venezuela dipendeva per oltre il 90% delle entrate in valuta estera dal petrolio e il blocco delle esportazioni di greggio ha ridotto enormemente la base delle finanze pubbliche, da dove tutto dipendeva, dai servizi pubblici sino alle buste paga dello Stato.

Lo scopo del blocco del Venezuela era proprio quello di fabbricare “gente fottuta”. Certo, c’era la speranza di rovesciare il chavismo, ma in fin dei conti la “gente fottuta” dentro e fuori il Venezuela è una collateralizzazione di quella mal definita “diatriba politica”, portata a livelli aberranti. Nell’opposizione, oggi, nessuno è responsabile. Nessuno dice “sono andato a chiedere sanzioni”. Ma tutti continuano a sfruttare politicamente le gente che hanno fottuto.

Pochi sono stati più utilizzati dei migranti. Sono stati sfruttati per tutto, per sostenere la narrazione del “governo provvisorio”, per chiedere soldi per loro conto, per alimentare mafie e frodi, coyote, comparse, spettacoli politici, smettiamo di raccontare.

Altri che guardano il paese dall’esterno, e persino i loro coetanei dall’esterno, tendono a farlo con disprezzo. Non importa loro la gente, gli importa l'”argomento” e fondare una presunta “ragione” politica, un “buon senso”. Gli interessa la diatriba, lo stigma, additare, diffamare. Chi? A tutti gli altri”. A chi vive in Venezuela, a quelli che emigrano se sono “sporchi”, se sono “teppisti”, se è “gente cattiva”, se sputano chimó a New York. Mettono migliaia di eccetera.

Un segmento del paese è stato addestrato ad odiare automaticamente. Tutti i derivati ​​del trattamento di una diaspora contro un’altra è d’odio con diversi tipi e livelli di sfumature.

Le stigma, la strumentalizzazione e/o lo sfruttamento della gente fottuta, il ridicolo e la presunta superiorità morale di alcuni su altri, sono espressioni di odio. Classismo e razzismo sono odio nella sua denominazione più pura. Sfruttare la migrazione è un’altra forma di odio. Il presunto “buon senso” del mal definito “dibattito” dei venezuelani all’estero è virale e viscerale perché permette di sfogare l’odio. Tutto coincide nell’odio.

La radice dell’odio è nello stesso antichavismo e nella costruzione della sua soggettività politica. L’opposizione è diventata opposizione grazie al veicolo dell’odio al chavismo, ma poi è andata contro se stessa, dividendosi, scontrandosi, arrivando al punto di chiedere il blocco di un intero paese sebbene pure i propri compagni oppositori, gente comune, lo avrebbe sofferto. Questo spiega come alcuni “che sono arrivati prima” odino “gli altri”.

L’odio è una forza che sa cambiare forma e che gode di un’enorme adattabilità, in modo tale che la sua deriva assume la forma di un anello, è inesauribile e può andare in qualsiasi direzione, in qualsiasi momento.


LA DIÁSPORA CONTRA LA DIÁSPORA

Franco Vielma

¿Qué decir de las diásporas venezolanas en Estados Unidos? Para empezar, que no se puede hablar solo de una, sino de varias, muchas. No se puede hablar de estas como si fueran idénticas a las que han ido a dar a otros países, pues en este caso el viaje no es el viaje en sí mismo, es el destino. Este tema implica un punto y aparte.

El Darién dejó de ser noticia. Ahora será el lugar que siempre ha sido, de migrantes que van desde varios países latinoamericanos, donde algunos o muchos pueden morir, pero no nos enteraremos.

Las grabaciones de videos de TikTok desde el Darién ya dejaron de ser, pues quienes siempre cruzaron y seguirán cruzando, que no son venezolanos, no se molestan en grabarse y hacérnoslo saber. Ni nos enteraremos.

Las últimas medidas migratorias del gobierno de Joe Biden dirigidas a la migración venezolana, dieron al traste con una tétrica comparsa que ese mismo gobierno propició una vez que el Status de Protección Temporal (TPS, por sus siglas en inglés) favorable a venezolanos, aupara una oleada rumbo a ese país bajo una falsa promesa de acogida. Pero además la migra se encargó de recibir y encarcelar migrantes, hasta que los gobernadores republicanos del sur “gustosamente” los llevaran a estados gobernados por demócratas.

Del Darién ya no hablamos, pero sí nos quedan las múltiples opiniones a favor y en contra de esa medida y la diáspora que terminó o en Times Square o en el Río Bravo.

Primera apreciación: todo lo que queda en el aire como objeto de ese “debate” da a pensar que hay venezolanos que se odian entre sí, que la inmensa mayoría de ellos, antichavistas, se odian entre sí.

“VENECOS” ACOMPLEJADOS

¿Han visto el video de unos venezolanos obreros “pobres pero en Estados Unidos”, que se comen una hamburguesa de McDonald’s de 1 dólar en un parque en su rato de descanso alardeando de su status? Hay un TikTok de un carajito delivery que supuestamente va a repartir en un Mercedes Benz. Hay otro caso de un venezolano en Gringolandia que celebró que no dejaran entrar “la basura” a ese país.

¿Recuerdan el video de la señora (probablemente vivía en una casa de INAVI en Cabudare) que estaba enlodada en medio del Darién que dijo que Biden ya no los iba a dejar entrar porque encontraron escupitajos de chimó en Times Square y “qué pena con esa gente, Dios mío”? ¿Qué decir del video de la muchacha llorando porque no pudieron entrar “al país de las hamburguesas”?

Bueno, casi todo el mundo sí logró ver el video de Yoaibimar “la tierrúa en niu yol”, la misma que salió con su hijo discapacitado, que se hizo viral, más que por la misma puesta en escena, por las reacciones que generó. Nunca un video recibió tantos comentarios de parte de l@s chic@s Visa venezolanos. Nunca jamás.

Una imagen fresca es la de un grupo de venezolanos tratando de cruzar el Río Bravo con una bandera tricolor, siendo recibidos a perdigones, para luego correr de vuelta al agua y al lado mexicano.

Solo dos veces en la historia reciente se han visto banderas venezolanas cruzar (o más bien intentando cruzar) una frontera para terminar humilladas en una escena de derrota televisada y ampliamente difundida. El día en que venezolanos intentaron entrar con “ayuda imaginaria” en los puentes entre Colombia y Venezuela, y este hace días, entre México y Estados Unidos.

La triste épica es la misma. Venezolanos tratando de tomar algo a la fuerza guiados por un ímpetu político y/o personal, pero humillando una bandera que solía cruzar fronteras solo para derrotar a España y fundar naciones.

Fijémonos en lo que nos han querido convertir. Esto empezó desde el robo de Capriles a la gorra tricolor de 8 estrellas de Chávez y evolucionó a ser la gorra opositora. Pero pasó a ser símbolo de la identidad migrante. Inclúyanse también en este pack los bolsos tricolor que deberían estar en hombros de un carajito estudiando en Venezuela.

Nótese que los que migraron con la gorra comenzaron a odiar a los de los bolsos tricolor, porque los segundos seguramente son más pobres (o aparentan serlo) que los primeros. El odio comenzó a tomar forma política cuando se comenzó a decir que esos venezolanos pobres (con bolsito tricolor) que afuera vomitan la serpiente contra el país o contra Maduro, supuestamente “son chavistas”. Pero no nos caigamos a mentiras, no son chavistas un carajo.

Poco generó tanta indignación entre la diáspora como cuando le tomaron una foto al famoso bolso escolar frente a la Torre Eiffel en París.

Las redes se volvieron un campo de fuego cruzado indiscriminado. L@s chic@s Visa, versus los que cruzaron el Darién, venezolanos blancos mayameros, versus venezolanos negros en un refugio para indigentes en Nueva York, pero más allá de ellos, venezolanos en Colombia, Perú o Chile, versus venezolanos en Estados Unidos.

No olvidar que muchos que se fueron rumbo al corazón del imperio vía Darién ya estaban fuera de Venezuela. Así que no huían de la “crisis humanitaria” chavista, sino que se iban de las “prósperas” economías vecinas, y que cualquier intento en cruzar una selva llena de sádicos, narcos, paracos, cocodrilos y afines, es mejor que el “tablas en la cabeza” back to home.

No olvidar que si un venezolano “negrito” con “pinta de reguetonero” (eufemismo policial para “malandro”) es visto en algún lugar del “país de las hamburguesas”, podría ser “un bochorno, Dios mío”, pues qué irá a pensar esa gente civilizada de la primera potencia mundial.

Miremos a fondo, que el nudo central y sentimental de toda locura está en lo acomplejada y ridícula que son las diásporas venezolanas, entre ellas la única en toda la historia que transmitió su paso por el Darién. Pero también la que vive en “los yunaited”, la que no logró entrar, todas, incluida la que regresa a Venezuela en un vuelo desde México por el Plan Vuelta a la Patria, pero que ya no tiene internet y por eso no lo publica.

Los que ya vivían en Gringolandia son más insólitos. Para poner solo un ejemplo, hablo del complejo de creer que unos “negritos de Petare” van a “afear” la cosa en Nueva York.

Amigos y amigas que siguen leyendo, en Nueva York hay gente que se caga dentro del tren del Metro. Las ciudades de Estados Unidos están abarrotadas de carpas en plena vía pública y refugios abarrotados de personas sin hogar e indigentes.

En Estados Unidos hay “calles de drogas”, o donde hay cientos de “zombies” a simple vista en un espectáculo degradante y tolerado. Estados Unidos es el país sede del estilo rapero y centro de referencia de la imagen “urbana” que ha uniformado a un segmento del hampa a escala global. Y para ponerlo más preciso, Estados Unidos es la capital mundial de lo chabacano, del mal gusto, de gente ridícula, que conviven en tensas relaciones sociales por su diversidad racial. Allá viven las Kardashians. Dense cuenta.

Entonces, para ser honestos, un “negrito de Petare” ni se va a notar entre millones y millones de estadounidenses e inmigrantes coloreados y uniformados con la usanza urbana gringa que impuso la globalización.

Pero para ponerlo en perspectiva profunda, no es el “negrito”, es el clasismo, el racismo, el complejo, la atorrancia.

“BUENOS CONTRA MALOS”

El imaginario antichavista hecho diáspora estadounidense, o aspirante a ello, hace nuevamente alarde de esa lógica binaria que impusieron en Venezuela desde los “mejores” tiempos del oposicionismo político. En aquellos tiempos, era “la clase educada y pensante del país” versus el “chavismo criminal y chabacano”.

La lógica hoy entre esas diásporas es de “buenos contra malos”, “gente bien”, contra “gente mala”. Los que ya estaban adentro versus los que llegan o quieren entrar. Los que “se portan bien” versus “los que se portan mal”.

Pero esa es una disputa endeble, sin ánimos de generalizar, pues colocan a ese “lumpen” migrante como la gente “mala” que quiere ingresar, así sea ilegal, mientras que hay otros venezolanos que “han hecho las cosas bien”, tratándose de papeleo.

Es como si hablaran de “gente honesta” para referirse a tantos venezolanos que han ingresado a Estados Unidos en años anteriores, bajo la condición de “perseguidos políticos” y “refugiados”, cuando sabemos que 99% de ellos emplearon la categoría de la “persecución política” para bypassear el sistema migratorio estadounidense, ganar preferencias y tener una Green Card, sin ser objeto de presión alguna, requerimiento de la justicia u objeto de alguna amenaza a su vida en Venezuela. Son unos farsantes.

A los venezolanos con años en “el país de las hamburguesas” les irrita que un venezolano pobre y diezmado gracias a un bloqueo económico que ellos aplaudieron ingrese allá sin haber hecho el papeleo. Ellos llevan la “meritocracia” desde 2002 adonde van y sigue siendo el cristal con que siguen mirando todo.

A fin de cuentas, hablando de “gente buena”, hay que mirar cómo se compone buena parte de la comunidad de venezolanos en Florida: banqueros prófugos, empresarios fuga divisas (estafadores del cadivismo), narcos, corruptos de las dos últimas repúblicas, “modelos” (o más bien prostitutas high class) y para colmo media Mesa de Unidad Democrática y los séquitos más allegados de Guaidó. ¿Pueden haber peores referentes hamponiles entre esa “gente de bien”? Al lado de ellos, cualquier “malandro” salido del Darién es un niño de pecho.

La lógica de “unos contra otros”, “buenos contra malos”, en suelo venezolano se fundaba sobre un país que no existía, pero que algunos sentían arrebatado. “Opositores decentes” versus “chavistas marginales”. Pero fuera de Venezuela es una disputa desbocada, donde en términos reales concluye entre un gentilicio que tiene en común un desprecio por el chavismo que a veces es extensivo al país.

Pero el centro de esa disputa ya no es Venezuela, ahora es el “sueño americano”, ese país y su “derecho a estar”, el “derecho” de algunos a poseer una miga del sueño, el mérito, el logro. Es el discurso de “los que se pueden adaptar” y “los que no podrán”. Otra vez el repetido discurso de “los formados” versus “los que tienen el rancho en la cabeza”. Y por ahí se decanta esa narrativa.

Cuando l@s chic@s Visa culparon a los harapientos en el Darién de los cambios en las medidas migratorias, no se molestaron en afirmar que Trump, haciendo campaña política por las elecciones de medio término, afirmó que Maduro estaba “liberando presos de las cárceles para llevar violadores y asesinos” a ese país.

También obviaron que Marco Rubio señaló que la migración a Estados Unidos “era creada por Maduro para perjudicar” a su país.

A los venezolanos con visa poco o nada les interesa que los políticos gringos estigmaticen a su gentilicio y a ellos mismos, porque lo importante es el comentario descabellado antichavista en la ramplona campaña estadounidense.

Entre las diásporas hay escaso o nula reflexión sincera sobre si bloquear la economía venezolana tiene o no un vínculo con la migración fuera del país, aunque haya una matemática contundente. Venezuela dependía en más de un 90% del ingreso de divisas por vía del petróleo y el bloqueo a las exportaciones de crudo menguó enormemente la base de las finanzas públicas, donde dependía de todo, desde los servicios públicos hasta la nómina del Estado.

El propósito de bloquear a Venezuela era precisamente fabricar “gente jodida”. Claro, había la esperanza de derrocar al chavismo, pero a fin de cuentas la “gente jodida” dentro y fuera de Venezuela es una colateralización de esa mal llamada “diatriba política” llevada a niveles aberrantes. En la oposición al día de hoy, nadie se hace responsable. Nadie dice “yo fui a pedir sanciones”. Pero todos siguen explotando políticamente a la gente que jodieron.

Pocos han sido más usados que los migrantes. Los han explotado para todo, para sostener la narrativa del “gobierno interino”, para pedir dinero a nombre de ellos, para alimentar mafias y fraudes, coyotes, comparsas, shows políticos, paremos de contar.

Otros que miran desde afuera al país, e incluso a sus iguales que están afuera, suelen hacerlo con desdén. No les importa la gente, les importa el “argumento” y fundar una supuesta “razón” política, un “sentido común”. Les interesa la diatriba, el estigma, señalar, vilipendiar. ¿A quiénes? A todos “los demás”. A quienes viven en Venezuela, a quienes migran si son “tierrúos”, si son “malandros”, si son “gente mala”, si escupen chimó en Nueva York. Pongan miles de etcéteras.

Un segmento del país fue amaestrado para odiar automáticamente. Todas las derivas del trato de una diáspora contra otra es de odio con distintos tipos y niveles de matices.

Los estigmas, la instrumentalización y/o explotación de la gente jodida, la burla y la supuesta superioridad moral de unos frente a los otros, son expresiones de odio. El clasismo y el racismo son odio en su más pura denominación. Explotar la migración es otra forma de odio. El supuesto “sentido común” del mal llamado “debate” de los venezolanos afuera es viral y visceral porque permite desahogar el odio. Todo coincide en el odio.

La raíz del odio está en el propio antichavismo y la construcción de su subjetividad política. La oposición se hizo oposición gracias al vehículo del odio al chavismo, pero luego fueron contra sí mismos, dividiéndose, confrontándose entre sí, llegando al punto de pedir el bloqueo a un país entero aunque sus propios compañeros opositores, gente común, lo sufriría igualmente. Eso explica cómo unos “que llegaron primero” odian a “los otros”.

El odio es una fuerza que sabe cambiar de forma y que goza de capacidades de adaptación tremenda, de manera tal que su deriva toma forma de bucle, es inagotable y puede ir en cualquier dirección, en cualquier momento.

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