La minaccia USA al Messico ed i limiti dell’integrazione

William Serafino

Il recente contrappunto tra Città del Messico e Washington, frutto dell’assassinio di due cittadini statunitensi rapiti nella cittadina di confine di Matamoros, ha comportato un’ impasse così grave che si è giunti a prospettare un intervento militare USA in territorio messicano.

Una foschia di confusione circonda il fatto. I cinque presunti implicati nel sequestro e nelle morti sono stati consegnati dal Cartello del Golfo con le mani legate e il volto coperto in un gesto volto a prendere le distanze dalle accuse. Inoltre, hanno lasciato una lettera di scuse nel veicolo dove sono state trovate le persone.

Neppure è del tutto chiaro cosa stessero facendo gli statunitensi a Matamoros, se avessero qualche legame con il traffico di droga – tre di loro avevano precedenti penali – o se il rapimento fosse stato causato più per confusione con organizzazioni rivali.

Ma, già a questo punto, per i settori politici USA, le speculazioni intorno all’evento sono accessorie. Per il discorso ufficiale, la realtà si conclude con il fatto che due statunitensi sono stati assassinati dai cartelli della droga messicani, senza mediare sfumature importanti, come il fatto che più di 200000 armi fabbricate negli USA attraversano ogni anno il confine per rafforzare la potenza di fuoco dai narcotrafficanti, come pubblicato dal giornalista Ioan Grillo nel suo libro Blood Gun Money: How America arms gangs and cartel.

Da parte repubblicana, il falco Lindsey Graham, esponente dell’ala dura interventista del partito, ha accaparrato l’attenzione con una conferenza stampa in cui ha affermato di lavorare a un disegno di legge che consentirebbe la designazione dei cartelli messicani come organizzazioni terroristiche straniere, oltre alla richiesta di un’autorizzazione all’ingresso dell’esercito USA in territorio messicano per combattere i cartelli.

Al disegno di legge di Graham si unisce il senatore repubblicano John Kennedy. Tuttavia, non è l’unico che si prospetta. I senatori Rick Scott e Roger Marshall, repubblicani, ne hanno introdotto uno di profilo simile. I due progetti mirano a designare i cartelli come organizzazioni terroristiche, sebbene differiscano nell’ambito delle entità da includere in detto elenco.

Il delirante discorso bellicista di Graham ha risuonato oltre confine e ha provocato una risposta immediata da parte del suo presidente Andrés Manuel López Obrador (AMLO). Il presidente messicano ha affermato: “Non permetteremo a nessun governo straniero di intervenire, tanto meno alle forze armate di un governo straniero di intervenire nel nostro territorio”.

Mettere sul tavolo un intervento militare USA in Messico non solo rimuove la lunga saga storica di guerra, esproprio territoriale e saccheggio economico portata avanti dagli USA dal XIX secolo, bensì costituisce anche una pericolosissima escalation retorica per la regione, visto che la questione del narcotraffico si pone come fenomeno transnazionale.

È vero che lo sciovinismo dei falchi repubblicani, il calcolo elettorale per indebolire le prospettive di rielezione di Biden e la logica del teatro politico profondamente radicata nella cultura mediatica USA hanno avuto molto a che fare con l’isteria discorsiva di Graham e degli altri falchi.

Tuttavia, l’ossessione per l’intervento militare nella regione non è un tema di esclusivo riferimento al Messico a seguito dell’evento di Matamoros. Fa parte di una strategia geopolitica USA che ha trovato in questo fatto un meccanismo di promozione e, anche, un modo per aggiornare i propri assi di incursione.

Un paio di esempi immediati e sintetizzabili aiutano a capire perché non si tratta solo del Messico.

Ad esempio, il narcotraffico legato al “terrorismo” è l’asse portante del quadro operativo del Comando Sud, nel quale viene interpretato come una delle principali “minacce” da contenere. Anche nel 2020, l’ammiraglio Craig Faller, all’epoca al comando di detta istituzione, ha affermato che dette “minacce” provenivano dal Venezuela, il che spianava la strada alle giustificazioni per un’azione militare.

Dal 2021 Cuba è stata inserita nella lista degli Stati “sponsor del terrorismo” degli USA, disposizione recentemente ribadita dal governo di Joe Biden, che continua a far deragliare la tesi che l’amministrazione democratica avrebbe un trattamento differente rispetto all’ approccio aggressivo di Trump verso l’isola.

L’isteria sul narcotraffico e sul terrorismo, divenuta discorso ufficiale non solo del Dipartimento di Stato ma anche del Comando Sud, ha come principio di realtà quello che l’attuale capo dell’istituzione, Laura Richardson, ha confessato all’inizio dell’anno: l’urgenza di controllare le risorse naturali strategiche come il litio, il petrolio, tra altre.

A titolo di dato nazionale risalta il fatto che poche settimane fa il governo AMLO ha nazionalizzato il litio.

Indipendentemente dagli intricati percorsi istituzionali che, d’ora in avanti, la proposta di Graham dovrà percorrere, la proposta di un intervento militare è già di per sé un segnale di gravità per la sicurezza del Messico, la pace regionale e, in senso generale, per la nozione di base di rispetto e di uguaglianza tra gli Stati.

L’escalation discorsiva dei falchi repubblicani esprime anche che si sentono sicuri di minacciare paesi terzi con l’uso della forza militare perché sanno che non soffriranno alcuna conseguenza né diplomatica o geopolitica.

In fondo, nella mentalità di un Graham vive l’idea che l’America Latina ed i Caraibi siano un continente debole, soggetto all’umiliazione e incapace di rispondere come blocco a tali espressioni di gravità.

La situazione di minaccia di intervento contro il Messico ha messo in luce anche i limiti del cosiddetto nuovo “ciclo progressista” e del rilancio dell’integrazione regionale.

È proprio in questi momenti di alta tensione che la regione deve mostrarsi unita, articolata e determinata nel rispondere come blocco geopolitico, da piattaforme comunitarie con peso e influenza  tipo CELAC, e anche da incontri bilaterali.

Occorreva un comunicato unitario della regione che evidenziasse che la promozione dell’integrazione è uno sforzo serio, credibile e di consenso comune, e non un quadro meramente istituzionale per ottemperare a riunioni periodiche soggette a lacune burocratiche e dichiarazioni finali con scarso sostegno.

La situazione di scontro e impasse tra Messico e USA permette immaginare come potrebbe approdare l’impegno per l’integrazione, approfittando dello spostamento ideologico continentale degli ultimi anni, in cui diverse tendenze di sinistra hanno ottenuto una maggioranza quantitativa sulla mappa emisferica.

Uno dei passi in questo senso potrebbe essere quello di accelerare le procedure per la convocazione di vertici straordinari o riunioni di emergenza della CELAC il cui obiettivo sarebbe, oltre ad affrontare il tema e la pubblicazione di pronunciamenti a difesa della pace e della sicurezza della regione, inniettare dinamismo nell’organismo e aumentare le proprie capacità di coordinamento ed interscambio di preoccupazioni tra Stati membri.

Questo principio sarebbe ugualmente valido per altri meccanismi di integrazione e forum politici e diplomatici di carattere regionale, seguendo la proiezione strategica di una posizione comune sulla pace e la sicurezza che consenta includere il maggior numero possibile di attori.

La ricomposizione dell’integrazione regionale che è stata venduta con sicurezza e fermezza, nel caso della minaccia contro il Messico, si è dimostrata molto al di sotto delle attese. Senza un blocco unificato che rifiuti le manifestazioni di umiliazione e imponga rispetto, i falchi come Graham continueranno a vedere opportunità di avanzamento.


LA AMENAZA DE EE.UU. A MÉXICO Y LOS LÍMITES DE LA INTEGRACIÓN

William Serafino

El reciente contrapunteo entre Ciudad de México y Washington, producto del asesinato de dos ciudadanos estadounidenses secuestrados en la localidad fronteriza de Matamoros, ha significado un impasse tan grave que se ha llegado a plantear una intervención militar por parte de Estados Unidos en territorio mexicano.

Una neblina de confusión rodea el hecho. Los cinco supuestos implicados en el secuestro y las muertes fueron entregados por el Cartel del Golfo maniatados y con los rostros cubiertos en un gesto dirigido a deslindarse de los señalamientos. Además, dejaron una carta de disculpa en el vehículo donde fueron encontradas las personas.

Tampoco está del todo claro qué hacían los estadounidenses en Matamoros, si tenían alguna relación con el tráfico de drogas —tres de ellos tenían antecedentes penales— o si el secuestro fue originado más bien por una confusión con organizaciones rivales.

Pero, ya en este punto, para sectores políticos estadounidenses las especulaciones en torno al acontecimiento son accesorias. Para el discurso oficial la realidad termina en que dos estadounidenses fueron asesinados por carteles de droga mexicanos, sin mediar en matices importantes, como el hecho de que más de 200 mil armas fabricadas en Estados Unidos cruzan la frontera año a año para robustecer el poder de fuego de los narcotraficantes, según lo publicado por el periodista Ioan Grillo en su libro Blood Gun Money: How America arms gangs and cartel.

Del lado republicano el halcón Lindsey Graham, integrante del ala dura intervencionista del partido, acaparó la atención con una rueda de prensa en la que afirmó estar trabajando en un proyecto de ley que permita designar a los carteles mexicanos como organizaciones terroristas extranjeras, además de buscar una autorización para que el ejército estadounidense ingrese a territorio mexicano con el objetivo de combatir a los carteles.

El proyecto legislativo de Graham está acompañado por el senador republicano John Kennedy. Sin embargo, no es el único que se plantea. Los senadores también republicanos Rick Scott y Roger Marshall introdujeron uno de perfil similar. Los dos proyectos buscan designar a los carteles como organizaciones terroristas, aunque difieren en el alcance de las entidades a incluir en dicha lista.

El delirante discurso belicista de Graham resonó al otro lado de la frontera y provocó una respuesta inmediata de su presidente Andrés Manuel López Obrador (AMLO). El mandatario mexicano aseveró: “Nosotros no vamos a permitir que intervenga ningún gobierno extranjero, y mucho menos que intervengan fuerzas armadas de un gobierno extranjero en nuestro territorio”.

Poner sobre la mesa una intervención militar estadounidense en México no sólo remueve la larga saga histórica de guerra, expropiación territorial y expoliación económica protagonizada por Estados Unidos desde el siglo XIX, sino que constituye una escalada retórica altamente peligrosa para la región, en vista de que la cuestión del narcotráfico se plantea como un fenómeno transnacional.

Es verdad que el patrioterismo propio de los halcones republicanos, el cálculo electoral para debilitar la perspectiva de reelección de Biden y la lógica de teatro político profundamente arraigada en la cultura de medios estadounidenses tuvieron mucho que ver en la histeria discursiva de Graham y otros halcones.

Sin embargo, la obsesión por la intervención militar en la región no es un tema de exclusiva referencia a México a raíz del evento en Matamoros. Forma parte de una estrategia geopolítica estadounidense que encontró en este hecho un mecanismo de promoción y, también, una forma de actualizar sus ejes de incursión.

Un par de ejemplos inmediatos y con capacidad de síntesis ayudan a comprender por qué no sólo se trata de México.

Por ejemplo, el narcotráfico relacionado con el “terrorismo” es el elemento vertebrador del marco operacional del Comando Sur, en el que se interpreta como una de las principales “amenazas” a contener. Incluso en el año 2020 el almirante Craig Faller, a mando de dicha institución para ese entonces, planteó que dichas “amenazas” provenían de Venezuela, lo que pavimentaba las justificaciones para una acción militar.

Desde el año 2021 Cuba fue incluida en la lista de Estados “patrocinadores de terrorismo” de Estados Unidos, una disposición reafirmada recientemente por el gobierno de Joe Biden, lo que sigue descarrilando la tesis de que la administración demócrata tendría un tratamiento diferente al enfoque agresivo de Trump hacia la isla.

La histeria por el narcotráfico y el terrorismo, convertida en discurso oficial no sólo del Departamento de Estado sino también del Comando Sur, tiene como principio de realidad aquello que la jefa actual de la institución, Laura Richardson, confesó a principios de año: La urgencia por controlar recursos naturales estratégicos como el litio, el petróleo, entre otros.

A modo de dato nacional, resalta el hecho de que hace cuestión de pocas semanas el gobierno de AMLO nacionalizó el litio.

Independientemente de los intrincados caminos institucionales que deberá recorrer la propuesta de Graham a partir de ahora, el planteamiento en sí de una intervención militar ya supone un signo de gravedad para la seguridad de México, la paz regional y, en un sentido general, para la noción básica de respeto e igualdad entre los Estados.

La escalada discursiva de los halcones republicanos también expresa que se sienten seguros de amenazar con el uso de la fuerza militar a terceros países porque saben que no sufrirán ninguna consecuencia ni diplomática ni geopolítica.

En el fondo, en la mentalidad de un Graham habita la idea de que América Latina y el Caribe es un continente débil, sujeto a humillaciones e incapaz de responder como bloque ante dichas expresiones de gravedad.

La situación de amenaza de intervención contra México también ha expuesto las limitaciones del denominado nuevo “ciclo progresista” y del reimpulso de la integración regional.

Es justamente en estos momentos de alta tensión cuando la región debe mostrarse unida, articulada y decidida para responder como bloque geopolítico, desde plataformas comunitarias con peso e influencia tipo CELAC, e incluso desde reuniones bilaterales.

Ha hecho falta un pronunciamiento unificado de la región que evidencie que el impulso a la integración es un esfuerzo serio, creíble y de consenso común, y no un marco simplemente institucional para cumplir con reuniones periódicas sujetas a lapsos burocráticos y declaraciones finales con poco asidero.

La situación de enfrentamiento e impasse entre México y Estados Unidos permite imaginar cómo se podría aterrizar la apuesta por la integración aprovechando el viraje ideológico continental de los últimos años, en el que distintas tendencias de izquierda han obtenido una mayoría cuantitativa en el mapa hemisférico.

Uno de los pasos en este sentido podría ser agilizar los procedimientos de convocatoria de cumbres extraordinarias o reuniones de emergencia de la CELAC cuyo objetivo sería, además del abordaje del tema y la publicación de pronunciamientos en defensa de la paz y la seguridad de la región, inyectarle dinamismo al organismo y elevar sus propias capacidades de coordinación e intercambio de preocupaciones entre Estados miembros.

Este principio sería igualmente válido para otros mecanismos de integración y foros políticos y diplomáticos de carácter regional, siguiendo la proyección estratégica de un posicionamiento común en torno a la paz y la seguridad que permita incluir a tantos actores como sea posible.

La recomposición de la integración regional que se ha vendido con seguridad y firmeza, en el caso de la amenaza contra México se ha mostrado muy por debajo de lo que se espera. Sin un bloque unificado que rechace las demostraciones de humillación e imponga respeto, halcones del estilo de Graham seguirán viendo oportunidades de avance.

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