Riflesso in un rapporto del Crisis Group
Recentemente, il 16 agosto scorso, è uscito un rapporto pubblicato dall’organizzazione International Crisis Group (ICG) dal titolo “Navigating Venezuela’s Political Deadlock: The Road to Elections” (Navigando nello stallo politico del Venezuela: la strada verso le elezioni ndt), che affronta la “stagnazione” del processo di dialogo e negoziazione portato avanti da una coalizione di partiti di opposizione e rappresentanti del governo del presidente Nicolás Maduro Moros.
Il documento è una storia costruita a partire da interviste con “alti funzionari chavisti”, oppositori e diplomatici accreditati in Venezuela e in altri paesi, dà un’idea di ciò che questo centro studi intende intorno al dialogo venezuelano e menziona dati interessanti che ci permettono intravedere risistemazioni in un processo negoziale in cui il calcolo politico degli USA e dell’Unione Europea (UE) modifica le mosse che vengono fatte.
GLI INTERESSI DELL’ ICG
Al di là di quanto appare sul suo sito web, che la presenta come un’organizzazione che lavora per prevenire le guerre e progettare politiche che contribuiscano alla materializzazione di un mondo più pacifico attraverso impegni per il “buon governo” e una politica inclusiva, secondo quanto emerge dal suo quadro strategico 2019 -2024 è un centro studi specializzato nello studio del “conflitto” in diverse aree del Sud del mondo dove la presenza di risorse naturali si mostra come una costante.
Nella lista dei donatori figurano fondazioni come Open Society, aziende del settore energetico come BP, Eni, Total, Equinor e Chevron e paesi dell’UE e altri come la Norvegia, mentre nella sua giunta direttiva si trovano personalità come il mega speculatore George Soros e l’ex rappresentante degli Esteri europeo Federica Mogherini, sino all’ex presidente Juan Manuel Santos e Susana Malcorra, che sono stati cancellieri del governo argentino di Mauricio Macri (2015-2019).
La variopinta integrazione dei suoi contributori ci consente farci un’idea, partendo da una posizione critica, dei possibili pregiudizi a favore dei paesi nordamericani ed europei nell’analisi e nelle raccomandazioni fornite dal ICG -promuovendo la difesa degli interessi e le prospettive ideologiche: democrazia liberale, libero mercato, ecc-. Queste visioni suggeriscono che l’organizzazione potrebbe concentrarsi sui conflitti relativi a regioni strategiche –risorse naturali– per i paesi occidentali o dare priorità ad alcune questioni a scapito di altre.
Questo rapporto non è il primo sul Paese firmato dall’organizzazione: secondo il suo sito, essa segue il processo politico venezuelano dal 2004 —anno del referendum abrogativo— con la pubblicazione di un articolo intitolato “Venezuela: verso una guerra civile?“, in cui si osserva la stessa narrazione che continuano ad utilizzare quasi 20 anni dopo, non più con Hugo Chávez sul banco degli imputati, bensì ora con Nicolás Maduro.
IL CONSENSO DELLA NEGOZIAZIONE
Con l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca, nel 2021, e dopo il fallimento della politica di “massima pressione” contro il governo venezuelano, è sembrato generarsi, in diversi spazi internazionali, un consenso sulla necessità di trovare una soluzione al conflitto politico del Paese attraverso la creazione di iniziative per la negoziazione e la gestazione di accordi tra il governo del presidente Nicolás Maduro e una parte dell’opposizione raggruppata nella Piattaforma Unitaria Democratica (PUD).
Questa idea si è consolidata non solo tra i protagonisti venezuelani, bensì anche tra gli attori internazionali che venivano giocando un ruolo fondamentale nell’escalation del conflitto, principalmente USA e UE, artefici del regime di sanzioni che pesa sullo Stato venezuelano formalmente dal 2014.
Alcuni centri studi e organizzazioni come l’ICG hanno appoggiato questa strada e, da quando il tavolo dei negoziati è stato istituito a Città del Messico, nell’agosto 2021, hanno analizzato e fornito linee guida su ciò che dovrebbe essere fatto dal lato dell’opposizione e, cosa più importante, come dovrebbe essere fatto, soprattutto per il pubblico a cui scrive, che non sono esattamente i milioni di venezuelani che si aspettano la revoca delle sanzioni come risultato di questi negoziati, ma le corporazioni energetiche –donatori dell’organizzazioni come Chevron (con operazioni in Venezuela attraverso licenze USA)– che vogliono continuare a operare liberamente nel Paese come facevano prima delle sanzioni.
Il rapporto del ICG continua con questa narrazione a favore del processo negoziale di Città del Messico e, anche se ciò non dovrebbe attirare l’attenzione, ci sono alcuni dati che vanno oltre l’aneddotico -la principale fonte di informazione sono le interviste condotte su fattori importanti- ci dà un’idea di come si è evoluto il processo, soprattutto dal lato da cui vengono promosse le sanzioni.
Per quanto riguarda l’opposizione venezuelana, ICG commenta l’elevata frammentazione e divisione che mantengono e che rendono difficile, per loro, presentarsi come un blocco contro un chavismo coeso nella figura del presidente Maduro. Questa situazione riduce considerevolmente le possibilità elettorali del settore dell’opposizione, che presenterà, chiaramente, più candidati. Al di là delle cosiddette “garanzie elettorali”, il problema è presentarsi come un insieme unificato: una questione politica.
Nel rapporto si fa menzione del ruolo che deve assumere l’America Latina -soprattutto Brasile e Colombia- in questa nuova “configurazione progressista”, per “motivare” l’amministrazione di Nicolás Maduro a riprendere e rispettare il meccanismo di Città del Messico, il che evidenzia, ancora una volta, il fallimento della politica di isolamento diplomatico promossa dal defunto Gruppo di Lima, mentre si trasla la responsabilità principale delle derive del dialogo al Governo bolivariano, anche se a non rispettare gli impegni sottoscritti sono gli USA e il PUD .
Ma c’è un tema che viene menzionato in modo molto tangenziale, che vale la pena analizzare e approfondire: come l’amministrazione di Joe Biden non sia stata in grado di consolidare una politica sul Venezuela che abbia un sostegno bipartisan e che le permetta di smantellare la politica di “massima pressione” verso il Paese, incidendo persino sulla coesione dei suoi alleati internazionali, come l’UE.
ALLEATI NON ALLINEATI SUL VENEZUELA
Se durante l’agenda della “massima pressione” c’era un allineamento nella politica degli USA, UE e dei paesi che la compongono nei confronti del Venezuela, oggi tale convergenza non sembra esistere, soprattutto con specifiche nazioni europee; nel decorso del 2023, paesi come Spagna, Portogallo e Francia hanno già nominato ambasciatori a Caracas, e molti altri intendono farlo presto.
Sebbene il rapporto faccia appello ai legami storici di paesi come Spagna e Portogallo per spiegare tale normalizzazione delle relazioni, l’attuale realtà geopolitica, soprattutto dall’altra parte dell’Atlantico, dopo l’inizio dell’Operazione Militare Speciale russa in Ucraina, potrebbe illuminare gli interessi dietro la normalizzazione. L’Europa, assetata di risorse energetiche, starebbe cercando nuove fonti per continuare a sostituire il gas russo durante l’inverno 2023-2024.
L’annuncio relativo alle licenze di Repsol ed ENI -rispettivamente spagnola e italiana- negoziate davanti all’Office of Foreign Assets Control (OFAC) del Dipartimento del Tesoro USA per operare in Venezuela, nonché quello fatto dalla vicepresidentessa Delcy Rodríguez, sull’inclusione del Venezuela nell’iniziativa Global Gateway dei progetti di gas nella parte orientale del paese, confermerebbe l’intenzione di alcuni paesi europei di normalizzare non solo le relazioni diplomatiche ma anche quelle economiche e commerciali, cosa che, a quanto pare, starebbe generando disaccordi nella parte USA.
Si ha l’impressione che gli europei non possano aspettare che gli USA si accordino su una politica bipartisan che garantisca un approccio coerente e razionale alla crisi venezuelana volto ad allentare le sanzioni e a reinserire il Venezuela nei mercati mondiali degli idrocarburi, con il suo rispettivo impatto all’interno del paese —politicamente, economicamente e socialmente— come nei flussi internazionali di idrocarburi.
Il costo politico-elettorale che un eventuale allentamento delle sanzioni comporterebbe, sia al Congresso che in vista dell’avvio della campagna elettorale USA del 2024, potrebbe essere la causa che spiegherebbe la politica esitante dell’amministrazione di Joe Biden nei confronti del Venezuela, e questo non è il terreno sul quale l’Europa vorrebbe essere trascinata.
Nel maggio 2023, i congressisti USA degli stati al confine meridionale del paese, guidati dalla rappresentante Verónica Escobar, hanno chiesto al presidente Joe Biden di revocare le sanzioni dell’era Trump contro il Venezuela poiché si erano convertite in un incentivo alla migrazione a causa dell’impatto negativo che hanno sull’economia venezuelana.
Benché la missiva abbia trovato un ostacolo nel senatore democratico Robert “Bob” Menendez, presidente della Commissione per le Relazioni Estere del Senato, che ha severamente criticato la proposta di allentamento, essa è un esempio degli approcci opposti che la classe politica USA mantiene rispetto alla strategia di sanzioni contro il Paese e che si è trasferita all’UE, che punterebbe su un graduale allentamento.
GARANZIE ELETTORALI E FLESSIBILIZZAZIONE
Il rapporto segnala che l’impegno della comunità internazionale è, rispetto alle prossime elezioni presidenziali in Venezuela, garantire “condizioni minime” a tutti i partiti e, sebbene non sia esplicitamente affermato nel testo, l’allentamento delle sanzioni sono condizioni minime che si devono assicurare.
Il terreno pianeggiante richiesto da ogni elezione democratica passa, nel caso venezuelano, dal consentire allo Stato, e di conseguenza al suo Governo, di avere risorse da gestire.
Tuttavia, indipendentemente dal fatto che si raggiungano o meno i tanti anelati accordi che consentano la ripresa di una convivenza politica tra i diversi attori venezuelani, la realtà è che alla fine gli USA determinano il corso dei negoziati con la volontà, che dimostra, di ammorbidire le sanzioni, in vista delle elezioni, in un primo momento, e della progressiva e definitiva rimozione di tutte loro.
Il dettaglio è che non sembra che di fronte ad un possibile cambio di amministrazione USA, sia essa democratica o repubblicana, una simile operazione venga realizzata. La politica delle sanzioni si è rivelata inamovibile –per il Venezuela e il resto dei paesi sanzionati– nel quadro strategico della Casa Bianca, indipendentemente da chi la abita.
REFLEJADA EN UN INFORME DE CRISIS GROUP
WASHINGTON Y BRUSELAS EN CONTRADICCIÓN POR SANCIONES CONTRA VENEZUELA
Recientemente, el 16 de agosto pasado, salió un informe publicado por la organización International Crisis Group titulado “Navigating Venezuela’s Political Deadlock: The Road to Elections”, que aborda el “estancamiento” del proceso de diálogo y negociación que mantenían una coalición de partidos de oposición y representantes del gobierno del presidente Nicolás Maduro Moros.
El documento es un relato construido a partir de entrevistas realizadas a “altos funcionarios chavistas”, opositores y diplomáticos acreditados en Venezuela y en otros países, da una idea de lo que este think tank comprende en torno al diálogo venezolano y se mencionan datos interesantes que permiten vislumbrar reacomodos en un proceso de negociación en el que el cálculo político de Estados Unidos y la Unión Europea (UE) modifica las jugadas que se vienen realizando.
LOS INTERESES DEL INTERNATIONAL CRISIS GROUP
Más allá de lo que aparece en su página web, que la presenta como una organización que trabaja para prevenir guerras y diseñar políticas que contribuyan a la materialización de un mundo más pacífico mediante apuestas a la “buena gobernanza” y la política inclusiva, según se desprende de su marco estratégico 2019-2024 es una think tank especializado en el estudio del “conflicto” en distintas zonas del Sur Global en donde la presencia de recursos naturales se muestra como una constante.
En la lista de donantes figuran fundaciones como Open Society, empresas del sector energético como BP, Eni, Total, Equinor y Chevron y países de la UE y otros como Noruega, mientras que en su junta directiva se encuentran personalidades como el megaespeculador George Soros y la exrepresentante de Exteriores europea Federica Mogherini, hasta el exmandatario Juan Manuel Santos y Susana Malcorra, quien fue canciller del gobierno argentino de Mauricio Macri (2015-2019).
La integración variopinta de sus contribuyentes permite hacernos una idea, partiendo desde una postura crítica, de posibles sesgos en favor de países norteamericanos y europeos en el análisis y las recomendaciones que aporta Crisis Group —promoviendo la defensa de intereses y perspectivas ideológicas: democracia liberal, libre mercado, etcétera—. Estas visiones sugieren que la organización podría centrarse en conflictos de regiones estratégicas —recursos naturales— para los países occidentales o priorizar ciertos temas en detrimento de otros.
Este informe no es el primero sobre el país que firma la organización: según consta en su página web, le ha hecho seguimiento al proceso político venezolano desde el 2004 —año del referéndum revocatorio— con la publicación de un artículo titulado “Venezuela: ¿hacia una guerra civil?”, en el que se observa la misma narrativa que siguen empleando casi 20 años después, ya no con Hugo Chávez en el banquillo de los acusados, sino ahora con Nicolás Maduro.
EL CONSENSO DE LA NEGOCIACIÓN
Con la llegada de Joe Biden a la Casa Blanca en 2021 y tras el fracaso de la política de “máxima presión” contra el gobierno venezolano, pareció generarse un consenso en diversos espacios internacionales sobre la necesidad de buscar una solución al conflicto político del país, a través de la creación de iniciativas para la negociación y gestación de acuerdos entre el gobierno del presidente Nicolás Maduro y una parte de la oposición nucleada en la Plataforma Unitaria Democrática (PUD).
Esta idea no solo se consolidó entre los protagonistas en Venezuela, sino también entre los actores internacionales que venían jugando un papel estelar en la agudización del conflicto, fundamentalmente Estados Unidos y la UE, artífices del régimen de sanciones que pesa sobre el Estado venezolano formalmente desde 2014.
Algunos think tanks y organizaciones como Crisis Group avalaron esta ruta, y desde la misma instalación de la mesa de negociación en Ciudad de México en agosto de 2021 han estado analizando y dando lineamientos acerca de lo que debe hacerse desde el lado opositor y, más importante, el cómo debe hacerse, sobre todo por el público al que le escribe, que no son precisamente los millones de venezolanos que esperan un levantamiento de las sanciones producto de esas negociaciones sino las corporaciones energéticas —donantes de la organización como Chevron (con operaciones en Venezuela a través de la licencias estadounidenses)— que quieren seguir operando libremente en el país como lo venían haciendo previo a las sanciones.
En el informe de Crisis Group se continúa con esta narrativa a favor del proceso de negociación de Ciudad de México, y si bien esto no debería llamar la atención, hay ciertos datos que más allá de lo anecdótico —la principal fuente de información son las entrevistas que se le realizan a factores de importancia— nos da luces de cómo ha ido evolucionando el proceso, sobre todo del lado desde donde se promocionan las sanciones.
Sobre la oposición venezolana, Crisis Group comenta la alta fragmentación y división que mantienen y que le hacen difícil presentarse como bloque frente a un chavismo cohesionado en la figura del presidente Maduro. Esta situación reduce considerablemente las opciones electorales del sector opositor, que a todas luces presentará varios candidatos. Más allá de las llamadas “garantías electorales”, el problema es presentarse como conjunto unificado: un asunto político.
El informe hace mención al papel que debe asumir América Latina —sobre todo Brasil y Colombia— en esta nueva “configuración progresista”, para “motivar” a la administración de Nicolás Maduro a retomar y cumplir el mecanismo de Ciudad de México, lo que evidencia de nueva cuenta el fracaso de la política de aislamiento diplomático que se promovió desde el fenecido Grupo de Lima, mientras se traslada la responsabilidad principal de las derivas del diálogo al Gobierno Bolivariano, aun cuando quienes no han cumplido con los compromisos firmados son Estados Unidos y la PUD.
Pero hay un tema que se menciona muy tangencialmente, que vale la pena analizar y profundizar: cómo la administración de Joe Biden no ha podido consolidar una política sobre Venezuela que tenga apoyo bipartidista y que le permita el desmontaje de la política de “máxima presión” hacia el país, hasta afectar incluso la cohesión de sus aliados internacionales, como la UE.
ALIADOS NO ALINEADOS SOBRE VENEZUELA
Si durante la agenda de “máxima presión” hubo una alineación en la política de Estados Unidos, la UE y los países que la componen con relación a Venezuela, hoy tal convergencia parece no existir, sobre todo con naciones europeas específicas; en lo que va de 2023, países como España, Portugal y Francia ya han nombrado embajadores en Caracas, y otros tantos plantean hacerlo próximamente.
Aunque el informe apela a los vínculos históricos de países como España y Portugal para explicar tal normalización de relaciones, la realidad geopolítica actual, especialmente en el otro lado del Atlántico, tras el inicio de la Operación Militar Especial rusa en Ucrania, podría dar luces de los intereses detrás de la normalización. Europa, sedienta de recursos energéticos, estaría buscando nuevas fuentes para seguir reemplazando el gas ruso durante el invierno 2023-2024.
El anuncio sobre las licencias de Repsol y Eni —española e italiana, respectivamente— negociadas ante la Oficina de Control de Bienes Extranjeros (OFAC, por sus siglas en inglés) del Departamento del Tesoro estadounidense para operar en Venezuela, así como el realizado por la vicepresidenta Delcy Rodríguez sobre la incorporación venezolana a la iniciativa Global Gateway de proyectos gasíferos en el oriente del país, confirmarían la intensión de algunos países europeos de normalizar, ya no solo relaciones diplomáticas sino económicas y comerciales, cosa que al parecer estaría generando disconformidad en la parte estadounidense.
Da la impresión de que los europeos no pueden esperar a que en Estados Unidos se pongan de acuerdo sobre una política bipartidista que garantice un abordaje coherente y racional de la crisis venezolana tendiente a la flexibilización de las sanciones y que reinserte a Venezuela en los mercados de hidrocarburos mundiales, con su respectivo impacto a lo interno del país —política, económica y socialmente— como en los flujos internacionales de hidrocarburo.
El costo político-electoral que supondría una posible flexibilización de las sanciones, tanto en el Congreso como de cara al inicio de la campaña electoral estadounidense de 2024, podría ser la causa que explicaría la política dubitativa de la administración de Joe Biden hacia Venezuela, y no es ese terreno hacia donde Europa quisiera ser arrastrada.
En mayo de 2023, congresistas estadounidenses de los estados fronterizos del sur del país, liderados por la representante Verónica Escobar, solicitaban al presidente Joe Biden levantar las sanciones de la era Trump contra Venezuela ya que se habían convertido en un incentivo a la migración por el impacto negativo que tienen en la economía venezolana.
Aunque la misiva encontró un escollo en el senador demócrata Robert “Bob” Menendez, presidente del Comité de Relaciones Exteriores del Senado, quien criticó severamente la propuesta de flexibilización, la misma es una muestra de los enfoques opuestos que la clase política estadounidense mantiene en relación a la estrategia de sanciones contra el país y que se ha trasladado a la UE, la cual apostaría a una flexibilización paulatina.
GARANTÍAS ELECTORALES Y FLEXIBILIZACIÓN
El informe señala que la apuesta de la comunidad internacional es de cara a las próximas elecciones presidenciales en Venezuela, con miras a garantizar “condiciones mínimas” para todas las partes, y si bien no se dice explícitamente en el texto, la flexibilización de las sanciones son condiciones mínimas que se deben asegurar.
El piso parejo que toda elección democrática reclama pasa, en el caso venezolano, por permitirle al Estado, y en consecuencia a su gobierno, disponer de recursos para hacer gestión.
No obstante, más allá de que se alcancen o no los tan anhelados acuerdos que permitan retomar una convivencia política entre los diversos actores venezolanos, la realidad es que Estados Unidos en última instancia determina el curso de las negociaciones con la voluntad que muestra de flexibilizar sanciones con vista a las elecciones, en un primer momento, y del levantamiento progresivo y definitivo de la totalidad de estas.
El detalle es que no pareciera que ante un eventual cambio de administración estadounidense, sea este demócrata o republicana, se logre tal acometido. La política de sanciones se ha mostrado inamovible —para Venezuela y el resto de países sancionados— en el marco estratégico de la Casa Blanca, sin importar quién la habite.