Milioni Usa per

«liberare» Cuba

 

Bush, che a ogni pié sospinto accusa Chavez di «interferenza», presenta un piano da 80 milioni di dollari nei prossimi due anni per favorire «la transizione alla democrazia»

 

| 12 luglio 2006 | M.Matteuzzi |

 

 
 

Sembra che dopo aver provato per più di 4 decenni ad ammazzarlo o farlo cadere con tutti i mezzi, adesso che si appresta - in agosto - a compiere gli 80 anni di età e si avvicina ai 50 di potere, si siano rassegnati ad aspettare che il tempo faccia il suo corso e concentrarsi al «dopo-Fidel». Ma senza stare con le mani in mano (quando mai?). Il presidente Bush ha dato l'altro ieri sera il suo visto al piano messo della Comision para la asistencia a una Cuba libre. Si tratta di un programma di clamorosa interferenza negli affari interni di un altro paese: basterebbe pensare a quali sarebbero le reazioni se una intromissione così sfacciata fosse il venezuelano Hugo Chavez a osarla. Ma in nome della «democrazia» tutto è permesso.
Il piano, oltre allo scontato «rafforzamento delle sanzioni» in atto, prevede 80 milioni di dollari nei prossimi due anni e poi 20 milioni l'anno a seguire. L'obiettivo è di aiutare «il popolo cubano» nella sua «transizione dal controllo repressivo del regime di Castro alla libertà e a una democrazia genuina». Ma dopo la morte di Fidel e per impedire la successione annunciata del fratello Raul.
80 milioni di dollari che dovrebbero servire a garantire l'appoggio «ai cubani che vogliono il cambio» e l' «assistenza prioritaria a un governo che organizzi elezioni multipartitiche libere e imparziali». Garanzie a pioggia: irrobustire la società civile e i «movimenti democratici», rompere il blocco informativo, impedire l'uso della repressione, rafforzare «un'informazione non censurata», contare «sull'amicizia e l'aiuto concreto del governo degli Stati uniti», fino ad «acqua, cibo, combustibile, equipaggiamento medico, recupero economico, miglioramento della rete elettrica» e via aiutando. Il tutto condito dall'appoggio Usa alla partecipazione di altri «paesi amici», che ora devono fare i conti con la legge Helmes-Burton che prevede sanzioni a chi vuole fare affari con Cuba. Il finale è da antologia: l'elaborazione di «liste di sbirri» con i nomi dei «violatori dei diritti umani». Per George Bush e Caleb McCarry, il responsabile per Cuba al dipartimento di Stato, questo programma è anche la prova che l'amministrazione di Washington, rispetto a Cuba, «è attivamente impegnata nel cambio e non sta solo aspettando il cambio».
La Rice, presentando il rapporto, ha detto che gli impegni contenuti nel programma sono diretti ad aiutare «i coraggiosi leader dell'opposizione a Cuba». In realtà ancora una volta sembra che gli americani siano più interessati ai propri interessi che ai destini dell'isola e dei cubani. Una interferenza così grossolana può andare forse bene ai settori più fanaticamente filo-Usa dell'opposizione, come Marta Beatriz Roque. Ma gli altri, più raziocinanti, capiscono e temono che il nuovo show cubano di Washington serva da «pretesto» (pretesto?) per un giro di vite contro il dissenso. «Credo che questo piano sia controproducente e che noi cubani dobbiamo risolvere i nostri problemi da soli e senza interferenze», ha detto Oscar Espinosa Chepe, oppositore di tendenza socialdemocratica. Idem Oswaldo Payà, democristiano. Una intromissione così grossolanamente neo-colonialista rischia di riattizzare il tradizionale (e motivato) nazionalismo anti-yankee cubano anche fra chi magari non ama Fidel.
Gli americani hanno motivo di essere ansiosi. Il blocco economico che dura da più di 40 anni, oltre che osceno, è anche stupido e si scontra sempre più con gli interessi del business Usa che si sente tagliato fuori rispetto alla concorrenza del resto del mondo (ad esempio il petrolio, che è pressoché certo stia per essere trovato nel golfo del Messico).
L'aspetto più preoccupante è l'appello «agli alleati e amici a unirsi nell'appoggio alla libertà per il popolo cubano». Circolano voci di riunioni fatte o da fare a Washington o Praga soprattutto con i paesi dell'est europeo, divenuti i più fervorosi alleati della «democrazia d'esportazione» all'americana. Paesi come la Repubblica ceca, l'Ungheria, la Polonia, la Slovenia, la Lituania sono sulle barricate a fianco (e per conto) degli Usa e dei loro piani su Cuba. Si è parlato anche di una propensione del nuovo governo italiano in questo senso. Ma il sottosegretario agli esteri per l'America latina, Donato di Santo, smentisce ogni partecipazione agli incontri di Washington e Praga, «noi non siamo vicini alla linea ceca-polacca ma a quella franco-spagnola», più ragionevole e meno ottusa, dice.