Il crepuscolo di Fidel

 

 

 

| 1 dicembre 2006 | G.Beretta|

 

 


Fidel Castro da sempre ha celebrato le sconfitte prima che i successi. Non è un caso che la festa politica più importante a Cuba sia il 26 luglio, anniversario del fallimentare assalto alla caserma Moncada del 1953, dove coloro che non morirono finirono nella prigione dell'Isola dei Pini; da dove il giovane avvocato uscì dopo aver pronunciato la famosa autodifesa «la storia mi assolverà». Anche la missione del Granma, esattamente 50 anni fa, finì con l'uccisione della gran parte dei componenti la spedizione, attesi allo sbarco dai soldati del dittatore Batista. Ma stavolta l'ottantenne leader cubano ha fatto sapere che le sue condizioni fisiche non gli permetteranno di assistere ai festeggiamenti delle gesta di quei superstiti, fra essi il Che, che portarono poco più tardi, il primo gennaio del '59, al trionfo rivoluzionario. Può essere che il crepuscolo fisico di Castro coinciderà con il tramonto della Cuba che conosciamo. Una Cuba (e a poco serva da attenuante il quarantennale embargo) che sta mostrando in modo drammatico come, in un'epoca globale di ansia di consumi, in un paese del sud del mondo non sia possibile conciliare livelli importanti e prolungati di istruzione, salute ed equità, con le libertà individuali di tutti. E' che Cuba è soggetta, da quando c'è Fidel, a una particolare lente di ingrandimento; tanto da parlarne ossessivamente (male) ogni momento, a tutte le latitudini. Sarà una visione latinoamericana; ma viene da chiedersi: senza mezzo secolo di rivoluzione e di resistenza cubana l'America latina, che ha sempre guardato l'Avana con ben più rispetto di quanto non si sappia, sarebbe oggi quella che è? Piena di fermenti, radicali o moderati che siano; e in clamorosa rivolta verso il gigante Usa che l'ha tenuta sottomessa per 150 anni? Quella stessa America latina che ora ha ripreso Cuba appieno nel suo seno. Come alle origini della rivoluzione (che non dimentichiamolo, si ispirava a Josè Martì) non si tratta più tanto di una questione solo ideologica; ma della lotta per la sopravvivenza di un subcontinente che vuole recuperare la propria dignità e che sta rialzando la testa. Come l'ha tenuta alta per mezzo secolo, a caro prezzo, la Cuba di Fidel ad appena 90 miglia dalle coste del mostro imperiale. Il Che, l'unica figura che abbia avuto un rapporto alla pari con Castro, si separò da Cuba con una lettera dove non volle procurare danni al nuovo corso. Quella dello statista non era la sua vocazione. E andò a morire su un altro fronte di lotta. Lasciò a Fidel tutto il compito di navigare fra gli squali del pianeta; il lider maximo a sua volta ha mostrato tutti i denti; occupandosi anche di quella quota di faccende sporche che toccano a ogni governante. Certo, appare insensato che una persona resti alla guida di un paese e di un popolo per mezzo secolo. Ma tant'è. Sta di fatto che è una sonora sconfitta per tutti coloro che dovranno attendere la sua scomparsa fisica per liberarsene. Alla fine si dirà che il Che, assurto da tempo a mito intramontabile, perdurerà a motivare quegli uomini e donne di buona volontà mossi dall'utopia di voler cambiare in meglio le cose per tutti e di dare un altro senso alla propria vita. Mentre Fidel, nel bene e nel male, sarà consacrato (anche dai suoi peggiori detrattori) come uno fra i più abili e carismatici capi di stato della storia universale; seppur alla guida di una piccola isola.