30 ottobre '07 - Tratto da "Pagina" 12 J.Gelman www.granma.cubaweb.cu

 

 

GUANTANAMO

coraggio morale


 

 

Jameel Jaffer ed Amrit Singh, avvocati dell'Unione Statunitense delle Libertà Civili (ACLU), hanno analizzato, per anni, più di 100000 pagine di documenti declassificati del governo Bush sul trattamento propinato ai presunti terroristici prigionieri in Abu Ghraib, Guantánamo ed altri centri di detenzione statunitensi.

Hanno scritto nell'introduzione del loro libro "Administration of torture" (Columbia University Press, 2007) che questa documentazione "mostra senza ambiguità alcuna che l'amministrazione ha adottato alcuni dei metodi dei regimi più tirannici" e che alti funzionari civili e militari approvarono il maltrattamento, la tortura e anche l'assassinio di civili carcerati "a volte tollerandoli, a volte incoraggiandoli, ed a volte autorizzandoli espressamente".

"Non approviamo la tortura. Non ordinai mai di torturare. Non ordinerò mai di torturare" ha detto W.Bush. Si vede.

Il capitano di corvetta Mathew Díaz non ha dovuto esaminare quei documenti per conoscere il tema. Avvocato della Marina degli USA con una brillante carriera, Díaz era convinto che i detenuti in Guantánamo erano pericolosissimi quando fu inviato, per sei mesi, in quella base  primo passo della sua ascesa a capitano di fregata "per la sua indiscutibile integrità", a detta del suo capo.

E percepì quello che non si aspettava: carcerati da tempo indeterminato sottoposti a torture, senza nome conosciuto e senza avvocato di difesa. Come avvocato, giudicò che il Pentagono violava la sentenza della Corte Suprema che concede a questi detenuti il diritto a presentare un hábeas corpus e che questo era intollerabilmente illegale.

Nel gennaio 2005, Díaz riunì sul suo computer tutte le informazioni che fu possibile raccogliere sui prigionieri, incominciando dal loro nome — ignorarlo ostacolava il lavoro dei loro possibili difensori — ed elaborò un documento di 39 pagine che portò con sé quando finì la sua missione — dissimulato in una cartelletta regalo —.

Il suo proposito era chiaro: denunciare lo stato delle cose a Guantánamo. Inviò anonimamente la cartelletta all'ACLU ed i suoi dirigenti si ruppero la testa varie settimane — era sicura l'informazione o no? — prima di inviarla al tribunale corrispondente. Díaz era sempre cosciente che metteva in gioco la sua carriera. Scoperto, fu condannato a sei mesi di prigione, non per slealtà o per mettere in pericolo la sicurezza nazionale, ma per essersi attenuto alle regole. Detto altrimenti: per pensare che non si giustificavano i maltrattamenti né il confino a tempo indefinito dei presunti terroristi ed agire di conseguenza. Necessita coraggio morale per farlo, specialmente in un ufficiale soggetto alla disciplina militare e nel clima che si vive negli USA, Díaz l'ha avuto.

Il suo caso evoca quello di un altro avvocato militare, Helmuth von Moltke, discendente di nobili prussiani come il maresciallo Graf von Moltke, morto nel 1891, e suo nipote Ludwig, capo dello Stato maggiore dell'esercito tedesco dal 1906 a 1914. A Helmuth toccò il nazismo e presto conobbe la barbarie del regime. "Mentre sono qui seduto — scrisse a sua moglie Freya nell'ottobre 1941 — si portano a termine numerose esecuzioni in Francia. Più di 1000 persone sono assassinate ogni giorno e migliaia di tedeschi si abituano a ciò. E tuttavia, tutto questo è un gioco da bambini comparato con quello che accade in Polonia e Russia. È per me possibile sapere questo e rimanere seduto in casa, nel mio caldo appartamento, prendendo il tè? Non mi converto in colpevole per non fare niente? E che cosa dirò quando mi domandino che cosa feci in questi tempi difficili?" (Letters to Freya: 1939-1945, Knopf, 1990).

E sì fece qualcosa. Non solo salvò la vita di ebrei: con un circolo di amici preparava documenti per processare i suoi colleghi per crimini di guerra e contro l'umanità quando la sconfitta tedesca lo avesse permesso. Helmut sapeva perfettamente che correva il rischio di essere fucilato. Trovò questo destino nei mesi finali della guerra. Nell'ultima lettera a sua moglie, datata 11 gennaio 1945, scrive che affrontò il giudice militare "non come protestante, non come gran proprietario terriero, non come nobile, non come prussiano, non come tedesco, bensì semplicemente come un cristiano". Ma egli non parlava con Dio, come W.Bush.

Non mancano in Europa strade e piazze che portano il nome di Helmut von Moltke e forse un giorno la stessa cosa succederà con quello di Mathew Díaz. È strano che niente di questo succeda coi nomi degli avvocati che difesero prigionieri politici e presentarono hábeas corpus per i desaparecidos sotto le dittature militari del Cono Meridionale e dell'America Centrale. Solamente in Argentina decine di essi sono "desaparecidos". La ragione? Avevano coraggio morale.