50° ANNIVERSARIO DELL’INSURREZIONE ARMATA DEL 13 MARZO 1957


Una battaglia combattuta

 all’Avana per la Rivoluzione

 

 

 

14 marzo 2007 - F.Chomon - Comandante dell'Esercito Ribelle - www.granma.cu

 

Quel 13 marzo 1957 erano passati quattro anni da quando gli studenti

Alarcón: Cuba non

 

verrà mai soggiogata

 

 

 

PL – Cuba non verrà mai più soggiogata e la Rivoluzione si manterrà vittoriosa, ha affermato il presidente del Parlamento cubano Ricardo Alarcón nel suo intervento, pronunciato nell’ambito della cerimonia commemorativa presieduta dal primo vicepresidente Raúl Castro.

Alarcón è stato l’oratore principale dell’atto in omaggio ai caduti del 13 marzo 1957, data in cui un gruppo di giovani attaccò l’allora Palazzo Presidenziale e prese la stazione radiofonica Radio Reloj, fatto considerato un evento storico nel movimento rivoluzionario cubano.

Il leader parlamentare ha affermato che le nuove generazioni dell’Isola sapranno essere all’altezza di coloro che parteciparono a quest’azione capeggiata da José Antonio Echeverría, assassinato quel giorno dai sicari della dittatura di Fulgencio Batista.

Alarcón ha ricordato che il nemico troverà i cubani uniti in ogni trincea, angolo, scuola, università, così come lo sono oggi cinque giovani combattenti contro il terrorismo rinchiusi crudelmente e ingiustamente nelle prigioni degli Stati Uniti.

Diciamo agli eroi e ai martiri della Patria che rimarremo uniti, fino alla vittoria sempre, ha sostenuto Alarcón poco dopo che Raúl Castro ha consegnato ai combattenti del 13 marzo 1957 un francobollo per la loro partecipazione a quelle gesta.

Nel suo discorso, pronunciato da una tribuna all’ingresso dell’allora Palazzo Presidenziale, adesso Museo della Rivoluzione, il Presidente del Parlamento ha messo in risalto il ruolo di Echeverría nel dare impulso a uno dei movimenti di protesta più importanti contro Batista.

Ha riflettuto su come l’azione armata guidata dal Direttorio Rivoluzionario sotto la direzione di Echeverría fece barcollare la dittatura di turno nell’Isola e contribuì all’unità di tutte le forze rivoluzionarie.

Alarcón ha elogiato la figura dell’estinto presidente degli universitari nella lotta per un destino di dignità e di giustizia per la sua Patria, sottolineando come questi divenne leader combattendo dalla base insieme al meglio del mondo studentesco rivoluzionario.

"Pochi fecero così tanto per la Patria, per il popolo, per la giustizia e la libertà in così poco tempo come il nostro caro ed eterno presidente della FEU", ha assicurato.

Ha illustrato come Echeverría combatté ed eliminò diversi mali che sferzavano l’Università a quell’epoca, restituendo all’organizzazione degli studenti il posto d’onore per il quale venne creata, conformemente alla tradizione rivoluzionaria.

Echeverría, ha aggiunto Alarcón, rianimò il ruolo dell’Università nella vita culturale della nazione, promosse il rinnovamento dell’insegnamento, creò il Direttorio Rivoluzionario, strumento per l’azione insurrezionale degli studenti e lottò per l’unità.

Fu un giovane allegro, che amava la vita come qualsiasi altro, ma fedele alla più bella tradizione degli studenti e dei giovani cubani dai giorni dell’inizio delle gesta per l’indipendenza.

Alarcón ha affermato che con la sua morte il martire universitario diede un apporto generoso alla lotta per abbattere la tirannia di Batista e raggiungere la vera democrazia e il governo del popolo.

Ha ricordato che quando trionfò la Rivoluzione cubana, Fidel Castro disse di José Antonio e dei compagni della sua generazione che questi ripresero i valori dei loro antecessori del XIX secolo e si riempirono di coraggio per salvare la Patria.

Oggi, mezzo secolo dopo, possiamo mostrare a José Antonio Echeverría e ai suoi compagni di eroismo una Patria che è in tutti i sensi il migliore omaggio e tributo a coloro che immolarono le loro vite e si sacrificarono per conquistarla, ha enfatizzato.

 

rivoluzionari dell’Università dell’Avana (emarginando coloro che, pur avendo le armi, non si fidavano sufficientemente dei giovani per consegnargliele ma non erano nemmeno capaci di utilizzarle) si erano uniti per combattere la tirannia in quella che chiamarono Assemblea Rivoluzionaria, nel cui nome era stato redatto un manifesto rivolto al popolo. L’organizzazione era composta da sostenitori del professor Garcia Bárcenas, come il compagno Faustino Pérez, che avevano tentato di invadere l’accampamento militare di Columbia; Pedro Miret Prieto, che presiedeva la Commissione Militare, Léster Rodriguez, che presiedeva la Commissione Programmatica e altri compagni che avrebbero poi sostenuto Fidel nell’attacco alla caserma Moncada oltre che da noi, i futuri sostenitori di José Antonio Echeverría.

 

Erano trascorsi due anni da quando il fenomeno del gangsterismo che aveva tormentato il nostro paese, promosso da Batista sin dalla sua prima tirannia, fomentando il cosiddetto "bonchismo", (politica di banda, di mafia) si era accanito contro José Antonio per impedire la sua elezione a Presidente della Federazione degli Studenti Universitari (FEU), corrompere e controllare l’Università dell’Avana.

Il "bonchismo" proliferò durante i governi "autentici" nei differenti corpi della polizia, nei ministeri e addirittura nel Parlamento, dove si ottenevano mazzette in cambio della classica "protezione" gangsteristica. Lo stesso "bonchismo" volle accanirsi poi contro José Antonio durante l’elezione del Presidente della Federazione degli Studenti Universitari (FEU) nell’aprile del 1955, quando si cercò di imporre un bonchista come Presidente, promosso con l’inganno, la menzogna e la calunnia. Mobilitarono i loro seguaci affidandosi dapprima e inutilmente allo sporco metodo dei sequestri e delle minacce e si dettero appuntamento a Piazza Cardenas con i più tristemente noti personaggi per intimorire ancora una volta. Il Direttorio che aveva organizzato un piano per neutralizzare quelle manovre, senza l’utilizzo di armi, ma ben studiato, che si appoggiava sulle masse. Questo piano li fece fallire e ritirare per sempre dall’Università, impedendo d’imporre nuovamente il gangsterismo nell’Università. José Antonio Echeverría venne eletto con il decisivo e settimo voto di uno dei membri della sezione d’Azione del Direttorio e Presidente della Facoltà di Farmacia, l’incorruttibile Ñico Guevara.

 

Il 13 marzo del 1957 erano passati 6 mesi (agosto 1956) dalla riunione di José Antonio Echeverría con Fidel per esprimere insieme e pubblicamente le loro comuni posizioni rivoluzionarie in un documento di orientamento per il popolo cubano - e trasformarlo così in una poderosa arma per combattere la tirannia - conosciuto storicamente con il nome di "Lettera dal Messico", firmata da tutti e due: Fidel e José Antonio. Erano anche passati quattro mesi da quando avevo partecipato assieme a José Antonio e Fructuoso Rodríguez, ad una riunione in Messico con il compagno Fidel per ultimare i piani militari successivi alla "Lettera", per intraprendere una lotta armata che desse inizio alla guerra necessaria per fare la Rivoluzione. Ed erano passati tre mesi dallo sbarco della spedizione del Granma capeggiata da Fidel, quando ebbe luogo quella sollevazione in armi nella nostra capitale, effettuata da José Antonio e dal Direttorio Rivoluzionario della FEU che erano un sostegno dello sbarco.

 

L’attivismo instancabile, la perseveranza inesauribile e lo spirito indomabile caratterizzavano quei giovani, sull’esempio di Fidel e José Antonio, che si accingevano ad abbattere l’ingiustizia per stabilire una nuova società nella quale il diritto prevalesse sul privilegio e l’egoismo.

 

 

Jose Antonio: "Dobbiamo agire. Non possiamo lasciare solo Fidel"

 

 

E pensare che un periodo così breve dall’arrivo di Fidel sembrava troppo lungo a Jose Antonio! In quei giorni che trascorrevano ci incitava ad essere pronti, e lui faceva altrettanto ponendo tutta la sua energia perchè: "Dobbiamo agire, diceva. Non possiamo lasciare solo Fidel. È necessario che Fidel viva. La tirannia mente quando dice che Fidel è morto. Se fosse vero, l’avrebbero dimostrato. È necessario che il popolo lo sappia". Perciò il primo quotidiano clandestino del Direttorio dopo lo sbarco diceva a grandi lettere: "Fidel vive!" Per far sì che il sangue ribollente di patriottismo dei rivoluzionari circolasse nei nostri cervelli, per farci sentire quello che non sapevamo.

 

Questa storia era cominciata il 26 luglio 1953. Era stata attaccata la Caserma Moncada a Santiago di Cuba da un gruppo di giovani, identificato poi come la Generazione del Centenario dal suo capo Fidel Castro che era passato rapidamente il 25 dal il Salone dei Martiri della FEU dicendo: "Non possiamo lasciare che l’Apostolo muoia nel suo centenario", lasciando perplessi gli studenti presenti.

 

Uno di quegli studenti decise di affrontare la nascente tirannia con i mezzi che aveva alla sua portata. Era Jose Antonio Echevarria. Cominciò affrontando gli studenti che accettavano benefici dal regime dittatoriale. Questo provocò in un’assemblea una denuncia contro di lui nella Scuola d’Architettura e la sua prima ferita alla testa.

 

Jose Antonio seguì questa linea radicale che caratterizzò la sua vita, affrontando dapprima gli elementi che avevano dubbi e che si erano impossessati della direzione della FEU, fino a diventare il leader della massa di studenti universitari, che guidò nella grande dimostrazione del 15 gennaio 1953 come protesta per l’oltraggio al busto di Julio Antonio Mella, inaugurato soli 5 giorni prima nella piazza davanti alla gradinata dell’Università dell’Avana. Quel giorno si lottò duramente contro i corpi repressivi dell’Esercito, la Polizia e la Marina di Guerra a San Lazaro e Prado.

 

Jose Antonio aveva condotto l’avanguardia che a cazzotti affrontava i proiettili. Il risultato fu di un buon numero di compagni picchiati selvaggiamente e feriti, uno molto gravemente: Ruben Batista Rubio, che morì il 13 febbraio. Nei suoi giorni di agonia e alla sua morte furono presenti Fidel e Jose Antonio.

 

Cinque mesi dopo avvenne lo storico attacco alla Caserma Moncada, con il quale Fidel ei suoi eroici compagni iniziarono la marcia verso il trionfo della Rivoluzione.

 

 

La FEU insorgente

 

 

José Antonio Echeverría conquistò la Direzione della FEU e con Fructuoso Rodríguez la riscattò da quelle mani inaffidabili per farla divenire da quel momento la portabandiera dell’azione eroica del Moncada, situandola nella linea della lotta armata. La FEU di José Antonio e di Fructuoso, prese il primo posto nella campagna di liberazione di Fidel, dei moncadisti e di tutti i rivoluzionari che erano reclusi e quando la tirannia parlò di liberare solo gli altri prigionieri politici, la FEU di José Antonio reclamò al liberazione di Fidel e dei moncadisti. La stampa inevitabilmente rifletteva le decisioni della FEU e questo aiutava ad accrescere la pressione sulla tirannia. Il regime battistiano si vide obbligato a liberare Fidel e i suoi compagni. Era già stato fondato il Direttorio Rivoluzionario della FEU e si stava radicando la lotta di massa con manifestazioni e scioperi del braccio operaio rivoluzionario, che avrebbero condotto alla lotta armata. Fu un processo continuato ed ascendente delle masse radicalizzate dall’avanguardia rivoluzionaria, che aveva iniziato la guerra necessaria con lo sbarco di Fidel al fronte del distaccamento del Granma, il 2 dicembre del 1956 e che si sarebbe estesa sino alla capitale dell’Isola con il sollevamento armato del 13 marzo del 1957. José Antonio seguito dal Direttorio, dovette affrontare molte difficoltà per giungere con onore a quel giorno in cui avrebbe realizzato lealmente i suoi ideali e i suoi sentimenti, quei suoi impegni con Fidel, con la Patria e la popolazione di Cuba, un giuramento sacro ed eterno. Furono giorni molto difficili, nei quali non giungevano notizie dirette dai compagni e quelle che arrivavano erano cattive e propagandate dal nemico. Tutti i rivoluzionari, con le loro forze e la loro tensione erano ansiosi di fare qualcosa, ma una cosa grande che si ripercuotesse nella zona delle operazioni, ma non avevano le armi e quelle di cui pensavano di poter disporre, che erano del Partito Autentico, dei seguaci dell’ex presidente Carlos Prío, erano state negate loro quando Direttorio Rivoluzionario e il Movimento 26 di Luglio li avevano cercati chiedendo di agire uniti per assecondare lo sbarco nei giorni di novembre, quando José Antonio aveva ricevuto da Fidel la notizia che sarebbero partiti con la rotta su Cuba.

 

 

La linea dell’azione armata

 

 

José Antonio al ritorno dal Messico, in accordo con la decisione di Fidel che ogni organizzazione, il 26 e il Direttorio, ponessero in esecuzione i propri piani, facendoli solamente coincidere nel tempo, ordinò di eseguire la prima parte del nostro piano che consisteva nell’elevare il grado delle azioni armate, giustiziando il capo del Servizio Segreto Militare che aveva torturato e assassinato il leader operaio e nostro compagno Rubén Aldama Argüelles. Il piano di  fare esplodere la dinamite  nel Cimitero di Colón per eliminare il tiranno Batista e il suo governo, non si effettuò perchè non avevamo la dinamite. Comunque sia non sarebbe stato  realizzabile perchè la tirannia all’ultimo momento aveva - come scrisse la stampa - deciso di fare i funerali nel cimitero a La Lisa.Il Direttorio continuò il suo piano di agitazione armata con altre azioni durante la fine del 1956 e gli inizi del 1957. Inoltre la casualità  operava a nostro favore, dato che, nei movimenti necessari della clandestinità, José Antonio incontrò e conobbe due formidabili rivoluzionari, Eduardo García Lavandero e Evelio Prieto Guillama, che stavano custodendo l’ultimo arsenale che restava all’Avana all’ex presidente  Carlos Prío, dopo che tutti gli altri erano caduti nelle mani della polizia. Era pendente come continuazione del nostro piano l’operazione d’emergenza che consisteva nell’impadronirsi delle armerie dell’Avana Vecchia e organizzare precedentemente con tutte le armi possibili delle imboscate per contrastare le mobilitazioni della polizia che cercava di soffocare quelle azioni. La struttura del piano l’avevamo concepita partendo dalle riunioni di carattere militare sostenute in Messico. L’operazione era rimasta dipendente dal fatto di conquistare delle armi in più, che ci erano necessarie. Quel problema si sarebbe risolto con l’incorporazione nel Direttorio dei compagni  Eduardo García Lavandero e Evelio Prieto Guillama, che inoltre presero la decisone rivoluzionaria di consegnare a  José Antonio il prezioso arsenale che custodivano.  Per realizzare tutto quello, i due e  José Antonio dialogarono per diversi giorni mentre condividevano lo stesso rifugio: giornate nelle quali s’imposero gia argomenti in nome della Rivoluzione.

 

 

Obiettivo: la tana del tiranno

 

 

Questa  decisione derivò da un nuovo piano con obiettivi più alti, dato che già  si contava su un insieme di armi superiore in numero e potenza di fuoco. Esaminammo la possibilità d’attaccare e conquistare le diverse fortezze militari dell’Avana, ma  poi scartammo questo piano perchè non era fattibile. Inoltre poteva dare l’impressione di un’azione militare lontana dal popolo, per cui riprendemmo in considerazione il progetto dell’attacco e dell’occupazione del Palazzo Presidenziale che, sin dall’epoca di Julio Antonio Mella e Rubén Martínez Villena era parte dell’arsenale tattico della Rivoluzione. Lì c’era la sede della cupola della tirannia e da lì partivano tutti i fili della conduzione del potere dittatoriale. Inoltre era una fortezza militare per il numero dei soldati della guarnigione, che ci avrebbe fornito di una grande quantità di armi, sufficiente per continuare ad attaccare altri obiettivi che avrebbero provocato all’Avana un grande sollevamento popolare.

 

Gli obiettivi erano tre: L’Assalto al Palazzo Presidenziale, l’occupazione di un’ emittente che doveva essere Radio Reloj per diffondere la voce del movimento rivoluzionario e l’occupazione dell’Università dell’Avana, come sede del suo StaTo Maggiore. Quando chiamammo il compagno il compagno Carlos Gutiérrez Menoyo per spiegargli il nostro piano, lui lo incontrò magnifico e lo paragonò all’operazione del Riscatto dei reclusi del  Principe (la prigione  dell’Avana) considerandolo come "lo stampo" che, assicurava, era positivo per l’organizzazione, che era stato formato da due elementi: un comando che da  dentro si era impadronito dell’entrata e di un altro d’appoggio al di  fuori sino ad avere il controllo della prigione; nel Palazzo si poteva fare lo stesso con due comandi e operando da fuori, con il vantaggio di una  forza superiore e con un maggior volume di fuoco. Nel riscatto della Prigione del Príncipe liberammo tre compagni e uno di loro era il Comandante della Guerra Civile spagnola, Daniel Martín Labrandero che era entrato nel Direttorio Rivoluzionario nella stessa  prigione, deluso dal maneggio del quale era stato vittima da parte dei gruppi “autentici” e ammirato dall’entusiasmo, dall’organizzazione, la disciplina e il coraggio deciso del Direttorio.

 

Daniel, come gli era stato ordinato, non aveva comunicato ai suoi amici Carlos Gutiérrez e Ignacio González il suo ingresso nel Direttorio, nè il piano di fuga dalla prigione del Principe che stavamo preparando con tre armi corte e sei granate, che furono introdotte e custodite nella cappella della prigione sotto la tunica della Vergine della Carità del Cobre, dalla religiosa cubana  Suor Mercedes Álvarez, contattata da  una sorella di José Briñas, un combattente che mori durante l’attacco. Il piano si realizzò positivamente, ma poi avvenne la disgrazia che Daniel, gia fuori dalla prigione, cadde e  si ruppe le due caviglie  e anche la colonna per via dell’eccessiva velocità con cui scese la collina e quindi fu catturato e assassinato nel luogo stesso.

 

 

Un piano magnifico

 

 

Alcune ore dopo incontrammo  Carlos Gutiérrez Menoyo, stupito di non aver saputo nulla su quel piano di fuga e l’informammo che Daniel era un membro del Direttorio che compiva le nostre istruzioni, ma di non comunicarlo a nessuno e di non parlare nemmeno del piano di fuga.  Gli spiegammo, su sua richiesta com’era il piano e lui che era un esperto in azioni commando lo definì magnifico. Quella notte al termine della conversazione chiese di entrare nel Direttorio e disse che comunque potevamo contare su di lui per qualsiasi azione, che era ai nostri ordini. La sua adesione fu accettata e  lo includemmo nel piano per giustiziare lo sbirro  Esteban Ventura Novo, organizzato nell’Ospedale  Calixto García. Finalmente lo chiamammo per la sua partecipazione al piano d’assalto del Palazzo Presidenziale,dopo l’approvazione dello stesso in seno al Direttorio e quella di José Antonio. Su nostra proposta Carlos fu nominato capo militare, mentre io dovevo essere il secondo dell’azione. Dal giorno dell’incorporazione di Carlos Gutiérrez nel Direttorio questi dichiarò di sentirsi moralmente obbligato con il compagno  Menelao Mora, dicendoci che  lui era sicuro che Menalao sarebbe entrato nel Direttorio se lui glielo chiedeva e se noi eravamo d’accordo. Io riferii a José Antonio la richiesta. Lui l’analizzò in una riunione della direzione dell’organizzazione.

 

 

Menelao Mora: "Tu disponi dell’ Organizzazione che a me manca…"

 

 

Menelao era stato il solo dirigente di provenienza autentica che ci aveva consegnato delle armi, dimostrando fiducia in noi. In un’occasione ci aveva dato quattro carabine M-1 e in un’altra occasione quattro pistole mitragliatrici l marca "STAR" con tutti gli accessori. Quando iniziammo la risposta armata contro la polizia che reprimeva e sparava nelle nostre manifestazioni, ci aveva chiesto di partecipare come combattente in una di quelle azioni commando e gli era stato concesso, per cui era stato a disposizione come tutti noi per un’azione che poi non venne eseguita. Ma era lì presente.

 

Il compagno Menelao Mora in una conversazione con José Antonio Echeverría sollecitò l’ingresso nel Direttorio per lui e i suoi amici, come aveva definito un piccolo gruppo selezionato di combattenti che non voleva abbandonare alla loro sorte e anche per chiarire bene che non era una manovra del Partito Autentico dell’ex presidente Carlos Prío, dal quale si era distanziato molto deluso perchè si sentiva ingannato e tradito dallo stesso Prío e dalle sue congiure e cospirazioni.

 

Menelao disse a José Antonio: "Tu puoi fare quello che io non posso perchè tu hai l’organizzazione che a me manca". E aggiunse:"Un’altra cosa José Antonio, voglio che tu ti assuma tutti i miei impegni perchè io possa apparire bene"

 

"D’accordo, mi farò carico dei tuoi impegni a condizione che tu stia in prima linea di combattimento".

 

"D’accordo" rispose Menelao.Poi io chiamai il primo impegnato alla presenza di Menelao, il dottor Norberto Martínez, che era stato Direttore dell’orribile Ospedale dei Demente, il manicomio di Mazorra, al quale riferii i requisiti della nostra Organizzazione indicati da José Antonio, dissi che noi non ammettevamo dirigenti per telefono e che doveva stare al fronte degli uomini che avrebbe condotto. Il medico, fedele alla tradizione dei cambia casacca, teso, restò in silenzio mentre si riprendeva e finalmente esclamò: "Io non parteciperò a nessun piano". Menelao sorrise. Poi non si presentò più nessun candidato.

 

Era passato poco più un mese e José Antonio aveva già ricevuto notizie di Fidel, che era riuscito a raggiungere la Sierra Maestra e si burlava delle controffensive dell’esercito del tiranno Batista, ma noi non avevamo ancora le informazioni reali sul numero dei morti del distaccamento del Granma. Dopo lo sbarco del Granma e il sollevamento armato di Frank País a Santiago di Cuba, la tirannia credeva che tutto era terminato, quando in realtà tutto stava cominciando. Eravamo noi dell’Avana che avevamo possibilità che da febbraio sembravano certe e avevamo anche un gran capo in José Antonio Echeverría, un’eccellente organizzazione nel Direttorio Rivoluzionario e disponevamo delle armi necessarie per la grande azione che ci proponevamo per far cadere la tirannia, assecondando più che mai la chiamata di Fidel. Tutte le forze erano in tensione durante i preparativi. Avevamo anche le case e le automobili necessarie per i commando d’assalto. Tutto andava bene. Si amplio il quartiere generale in un altro appartamento affittato grazie al denaro apportato dallo stipendio del compagno Armando Pérez Pinto. Quando stavamo andando a comprare due camion leggeri - una camionetta e un camion a sei ruote – usati, perchè erano più economici, il compagno Carlos Gutiérrez ci disse che potevamo parlare con il compagno Menelao, dato che gli erano rimasti quelli che usava per il trasporto delle armi che precedentemente riceveva da Pinar del Río e José Antonio ci diede l’autorizzazione di farlo.

 

In una riunione permanente, José Antonio analizzava ogni passo che dovevamo fare, sino a che diede l’ordine generale di accamparci, con controlli e supervisioni. Da quel momento spiegò a tutti i compagni accampati in cosa consisteva il piano. Chi non era d’accordo veniva liberato dall’impegno della partecipazione, ma lo trattenevamo sino all’inizio del combattimento. Si diedero ordini disciplinari per mantenere ordine e silenzio e si posero cartelli per ricordarlo, soprattutto per quelli che formavano il commando d’assalto al Palazzo, che era numeroso. Si consegnarono ad ogni combattente le armi che ognuno doveva tenere appoggiate contro la parete in un ordine stabilito e corrispondente ad ognuno.

 

Si mantenne il controllo fisico dei movimenti di Batista nei dintorni del Palazzo e anche, soprattutto, ascoltavamo per radio attraverso un impianto che era una copia di quella che usavano i corpi segreti e i repressivi, che era un elemento decisivo perchè ci permetteva di disporre del codice segreto che indicava i suoi movimenti. Lo seguivamo giorno e notte sino a che entrava nel Palazzo e in quel modo il tiranno diventava un topo nella sua stessa tana. Per attaccare il Palazzo era necessario che Batista fosse lì per tagliare la testa al regime, con il tiranno e la sua sede nelle nostre mani.

 

 

L’operazione d’appoggio in mani spurie

 

 

Il secondo operativo d’appoggio al commando dell’assalto al Palazzo, doveva prendere tutti gli edifici più alti che circondavano lo stesso e non era accampato perchè erano molti combattenti per cui la maggior parte si doveva concentrare in Paseo del Prado. Mancava ancora l’approvazione al piano del suo capo che usava lo pseudonimo di Ignacio González - il cui vero nome si conosceva da due anni, ed era stato proposto da Carlos: era il terzo spagnolo della guerra civile che partecipava.

 

Iñacio non aveva ancora presentato il detto piano e per questo gli mandai un compagno che lo conosceva da altri tempi - nella spedizione che da Cayo Confites voleva far cadere Trujillo dittatore della Repubblica Dominicana - che doveva investigare che succedeva a Iñacio con quel piano che doveva già aver presentato.

 

Il compagno José Luis Gómez Wangüemert, quello che io avevo inviato ritornò allarmato perchè aveva constato che il gruppo che Ignacio González stava organizzando era composto di elementi tipo gangster, del capobanda Eufemio Fernández Ortega, che attuava durante i Governi Autentici. Io informai José Antonio, che diede subito l’ordine di bloccare immediatamente i piani a cui stavamo lavorando. Io trasmisi immediatamente l’ordine a Carlos Gutiérrez Menoyo e a altri compagni.

 

In una riunione urgente informai Carlos Gutiérrez e gli altri responsabili sulla mancanza di morale e di condizione rivoluzionaria di quei tipi che non potevano essere capi, dato che mancavano del prestigio necessario e non avevano niente a che fare con il Direttorio.

 

Era inoltre una dimostrazione d’incompetenza e slealtà di Ignacio Ignacio González che, sostituito, aveva proposto al suo posto il compagno Wangüemert come capo del secondo operativo. Carlos Gutiérrez si sorprese perchè era d’accordo con la segnalazione su quella gente, aggiungendo che inoltre lui credeva che quando li avessimo sostituiti erano capaci di rivelare tutto quello che sapevano dei nostri piani alla polizia per evitare che li giustiziassimo e in questo modo non avrebbero perduto la falsa condizione di uomini d’azione, che rappresentava il fallimento del nostro piano prima di eseguirlo.

 

Per questo ci disse di lasciare a Ignacio González la responsabilità che aveva, perchè per lui era come un fratello e nonostante le deficienze come capo e la pessima qualità degli ufficiali selezionati: "Quando avesse saputo che Ignacio stava sparando nel Palazzo, avrebbe agito e per quanto male lo potesse fare anche con una quarta parte dell’operativo, erano così tanti che sarebbero stati sufficienti per garantire il successo dell’attacco. Tutto quello militarmente era possibile se Ignacio fosse stato capace di fare quel minimo sforzo. In realtà non fu possibile per la sua mancanza di capacità di comando e forza morale.

José Antonio citò la Direzione del Direttorio in una riunione per considerare questa faccenda così delicata e importante che riguardava la sicurezza del trionfo rivoluzionario.

 

Dovevamo andare avanti o cancellare il progetto per un altra occasione, ma prima di tutto s’imponeva compiere la missione del sollevamento armato nella capitale, assecondando lo sbarco di Fidel, che in quel momento era perentorio per via delle notizie ricevute dato che potevamo avere noi, tra le nostre mani, il trionfo della Rivoluzione.

 

D’altra parte se si desisteva rinunciando all’esecuzione del piano, era come lasciare abbandonati e soli alla loro sorte Fidel e i suoi compagni, che si erano battuti durante lo sbarco e che continuavano a farlo nella Sierra Maestra.

 

 

Si continua secondo i piani

 

 

E sembrava che lo avremmo fatto per sempre, giacchè paralizzare il progetto di attaccare il Palazzo e scatenare la lotta armata nelle vie de L’Avana per poi ricomporre le fila, quando stavamo come si dice a metà dell’opera: i combattenti acquartierati, le armi in movimento, i piani già discussi, i luoghi clandestini non più così segreti e gli inevitabili commenti su quel che era successo se avessimo deciso così, avrebbe significato provocare un’offensiva repressiva della tirannia con le peggiori conseguenze, la confisca delle armi ed altri colpi all’organizzazione segreta.

 

Pertanto José Antonio, sostenuto dalla maggioranza, decise di continuare ad attuare i nostri piani anche se ciò poteva significare niente di più che una battaglia combattuta a L’Avana per la Rivoluzione. Ma se vincevamo dovevamo adottare tutte le misure atte a garantire il vero trionfo della Rivoluzione per la presa del potere. Perciò avevamo già avvertito che non avremmo accettato colpi di Stato e che l’Esercito avrebbe dovuto arrendersi o unirsi ai rivoluzionari nella lotta armata urbana. Calcolammo che sicuramente avremmo potuto contare sul fatto che le forze rivoluzionarie della città si sarebbero unite al Direttorio Rivoluzionario nella sollevazione armata. Queste erano il Movimento 26 Luglio ed il Partito Socialista Popolare che, anche se in quel momento la lotta armata non faceva parte della sua linea politica, si sarebbe sicuramente incorporato di fronte alla possibilità di partecipare ad azioni armate che avrebbero potuto condurre alla vittoria della Rivoluzione. Fidel, con le sue forze rivoluzionarie del nascente Esercito Ribelle, avrebbe sicuramente preso la provincia d’Oriente per marciare poi verso L’Avana.

 

La sede dello Stato Maggiore rivoluzionario doveva essere nell’Università de L’Avana, simbolo delle lotte popolari della FEU. Lì studenti e operai si sarebbero dovuti armare per continuare le azioni fino al dominio completo della capitale. Sarebbe stato installato anche un Tribunale Rivoluzionario per arrestare e giudicare coloro che avessero messo in pericolo il trionfo della Rivoluzione e José Antonio Echeverría sarebbe stato il capo fino all’arrivo di Fidel.

Questa era la posizione di José Antonio Echeverría e dei suoi compagni del Direttorio Rivoluzionario.

 

 

LA CADUTA DEL LEADER

 

 

José Antonio, quando gli consegnai l’ultimo rapporto alle 11 del mattino del 13 marzo, dove lo informavo di essere sicuro che la seconda operazione d’appoggio al commando d’assalto non avrebbe funzionato, decise di farsene carico personalmente. Questa sua decisione cambiò la situazione, perchè in una via a fianco del Palazzo si trovava un camion con la metà delle armi assegnate per la seconda operazione e nel Paseo del Prado erano concentrati i combattenti che stavano aspettando le dette armi per compiere la loro missione. La presenza di José Antonio cambiò il corso degli avvenimenti di quella giornata, ma il suo coraggio e la sua indignazione erano enormi. Ingaggiò un conflitto a fuoco con una pattuglia che incrociò in strada e cadde in combattimento.

 

Ricevetti quella straziante notizia quando arrivai all’Università ed incitai immediatamente i compagni a recuperare il suo corpo. Loro mi risposero che non era più lì, che era ferito e che si trovava in non si sapeva quale casa, nei dintorni di L e 27. Il dott. Argudín e gli allora studenti di Medicina dell’Ospedale Calixto García, Rodrigo Álvarez Cambra e Justo Piñeiro Fernández, mi dissero tempo dopo che un’ambulanza era andata a recuperare il corpo. Secondo Piñeiro che in quel mentre apparve una pattuglia della polizia e un ufficiale minacciò i compagni; quindi un sergente consigliò loro di andarsene perchè l’ufficiale aveva appena ucciso un passante in via Ronda. È per questo che ci sono due foto di José Antonio: una di fianco e l’altra in posizione supina perchè, a quanto pare, la polizia mosse il corpo.

 

 

IL BILANCIO DELLE OPERAZIONI

 

 

Dal bilancio del piano di quel giorno si ottenne il risultato che nell’esecuzione delle operazioni che erano rimaste nell’ambito dell’organizzazione e del controllo del Direttorio si era mantenuto il segreto per la sorpresa ed erano state realizzate con successo: il commando dell’assalto al Palazzo Presidenziale con l’occupazione  di due piani, il pianterreno e il primo, la presa di Radio Reloj e il proclama di José Antonio, interrotto da uno spaventato impiegato dal un luogo lontano, “Televilla”, alla periferia dell’Avana, dopo i dati e le notizie necessarie dei fatti che stavano avvenendo e l’occupazione dell’università con un piccolo commando e un solo morto tra la polizia universitaria.

 

Solo la seconda operazione d’appoggio al commando d’assalto non era stata effettuata per via del già noto  tradimento di  Ignacio González,coinvolto nella banda del capo ganster Eufemio Fernández, degli “autentici” dell’ex presidente Carlos Prío, che si erano infiltrati nei nostri piani, per fare lo stesso di quel 4 Agosto del 1955, nel quale i complici di Carlos Prío nella sua manovra con Batista per il suo ritorno, la stessa trappola  di Eufemio Fernández e la sua gente, che tradì Menelao Mora, consegnò le armi  e complottò con i corpi repressivi, frustrando ridicolmente un piano d’attacco al Palazzo, con la degradante confessione di  Eufemio Fernández che disse: "Io preferisco un bagno di merda da vivo, che un bagno di rose da morto".

 

La responsabilità dei traditori sarebbe divenuta più evidente nei giorni successivi al 13 marzo, quando si vide Ignacio González protetto da Eufemio Fernández nella sua tana in Costa Rica e da Eloy Gutiérrez Menoyo all’Avana e di nuovo dopo il trionfo della Rivoluzione, passeggiando per le strade, come quando assieme a  Eufemio, Ignacio ed Eloy, visitavano  Miguel Ángel Quevedo nella Rivista Bohemia, fingendo d’essere  rivoluzionari.

 

La grandezza materiale del criminale tradimento era rappresentata de risorse in armi ed esseri umani, che furono sottratti dal combattimento: due camion con 25 armi pesanti, come chiamavamo le mitragliatrici calibro 30, fucili anticarro, mitragliatori, fucili d’appoggio abbandonati vicino al Palazzo e a Luyanó, più una mitragliatrice calibro 50 montata su una camionetta lasciata in Prado e Virtudes, senza aver sparato un solo proiettile  e noi senza sapere dove si trovavano quelle armi, con le mani di centinaia di combattenti che le avrebbero impugnate e che indignate rimasero vuote...  

 

Il tradimento riapparve nuovamente quando alcuni membri dell’Organizzazione all’Avana commisero l’errore di far entrare Eloy Gutiérrez Menoyo nel Direttorio, lui che non aveva meriti rivoluzionari di sorta nemmeno in altri movimenti, alla faccia dell’approvazione della nostra direzione, per far sì che riapparisse di nuovo il pungiglione  del tradimento piantato dallo stesso  Eloy nel seno del Fronte Guerrigliero del Escambray, tradendo il Direttorio Rivoluzionario con la complicità di Carlos Prío, due elementi della CIA.

 

Il tradimento che si notò nella seconda operazione, nemmeno la prima volta aveva il potere di fermare la marcia della Rivoluzione. 

 

 

LO SPIRITO IRREDENTO DI FRUCTUOSO RODRÍGUEZ

 

 

 Fructuoso Rodríguez, perseguitato assieme ai suoi compagni sopravvissuti praticamente senza un rifugio sicuro, si era riunito con loro per analizzare i fatti che ho raccontato, con tutto il dolore per i morti e con l’eco degli spari ancora nelle orecchie, analizzando ogni dettaglio per scrivere un documento indirizzato al popolo e un altro per registrare e rendere pubbliche le misure disciplinari da prendere per punire i traditori.

 

La linea da seguire era quella di continuare nell’attacco, come sola condotta possibile per meritare l’onore di seguire José Antonio, contribuire alla guerra di guerriglia iniziata da Fidel e assecondarla, aprendo un fronte guerrigliero nelle montagne dell’Escambray.

 

Si doveva riorganizzare la marcia, profondamente leali al pensiero unico di unire, unire e unire a qualsiasi costo, per evitare crepe che ponessero in pericolo la Rivoluzione.

 

Da quel giorno al Direttorio Rivoluzionario di aggiunse la data “13 marzo”, in onore dei compagni morti nelle azioni e come salvaguardia che la data, sacra, non sarebbe stata usurpata per fini ignobili.

 

Non ci fu tempo per altro però, poiché il 20 aprile, Fructuoso Rodríguez assieme ai compagni Juan Pedro Carbó Serviá, José Machado Rodríguez e Joe Westbrook Rosales, disarmati, furono tutti assassinati dalle orde criminali di   Esteban Ventura Novo.

 

Così terminarono le azioni insorgenti del 13 marzo, in quel 20 aprile di sangue con 29 combattenti uccisi, più Mario Reguera e Pedro Martínez Brito, l’anno seguente, portando a 31 il numero dei combattenti assassinati.

 

Tutti fanno parte del torrente di martiri della Patria e della Rivoluzione.

 

Combattenti morti il 13 marzo del 1957

José Antonio Echeverría Bianchi.

Ramón S. Alfaro Betancourt.

Luis Felipe Almeyda Hernández.

Ormani Arenado Llonch.

José Briñas García.

Mario Casañas Díaz.

José Castellanos Valdés.

Adolfo Delgado Rodríguez.

Ubaldo Díaz Fuente.

Enrique Echevarría Acosta

Pedro Esperón Delgado.

José Luis Gómez Wangüemert.

Carlos Gutiérrez Menoyo.

Norberto Hernández Nodal.

Reinaldo León Llera.

Gerardo Medina Cardentey.

Menelao Mora Morales.

Pedro Nolazco Monzón.

Eduardo Panizo Busto.

Celestino Pacheco Medina

Carlos Manuel Pérez Domínguez.

Evelio Prieto Guillama.

Abelardo Rodríguez Mederos.

Pedro Téllez Valdés.

Pedro Zayden Rivera.

 

Combattenti morti successivamente

HUMBOLDT 7 (20 aprile 1957)

Fructuoso Rodríguez Pérez.

Juan Pedro Carbó Serviá.

José Machado Rodríguez.

Joe Westbrook Rosales.

10  luglio 1958

Pedro Martínez Brito.

20 aprile 1958

Mario Reguera.

 

Vittime tra  la popolazione civile

José Manuel Hernández León (membro del Direttorio assassinato lo stesso giorno)

Pelayo Cuervo Navarro.

Peter Corenda (turista).

Orlando Morales.

Eduardo Domínguez Aguilar.

Ángel González González.

Antonio López Camino.