11 settembre '08 - www.granma.cubaweb.cu

 

Cile
 

L'ultimo giorno di Salvador Allende

nello sguardo di Fidel Castro Ruz

 

L'ex presidente di Cuba e leader della rivoluzione cubana narra con dettagli l'ultimo giorno di Allende nel libro “Grandes Alamedas: Il combattimento del presidente Allende”, di Jorge Timossi, edito all’Avana nel 1974.


Il leader della rivoluzione cubana, Fidel Castro, rivive, in una testimonianza edita nel 1974, l'ultimo combattimento del presidente Salvador Allende prima che fosse vittima del golpe fascista che distrusse il suo governo democratico ed impose la dittatura in Cile.
Nel testo, che forma parte del libro “Grandes Alamedas: Il combattimento del presidente Allende”, di Jorge Timossi, Fidel realizza un emotivo racconto di quello che fu l'ultimo giorno del primo presidente socialista del Cile.


Il leader cubano, che fu stretto amico di Allende, riflette, passo a passo, come l'ex mandatario cileno vive il tradimento dei militari, ma allo stesso tempo lottano con lui un gruppo di civili, carabinieri e poliziotti democratici, che protessero con la loro vita l'eroico gesto di un presidente che preferì immolarsi anziché arrendersi e consegnare a dei criminali il potere ricevuto, con mandato sovrano, dal popolo.
A continuazione il testo integro.


Testimonianza di Fidel Castro

 

Ci riferiremo essenzialmente all’aspetto di combattente e di soldato della rivoluzione del presidente Allende il 11 di settembre.


Alle 6 e 20 della mattina di quel giorno, il presidente ricevette, nella sua residenza di Tomás Moro, una chiamata telefonica che lo informava del colpo di stato in corso. Immediatamente mette in stato d’allerta gli uomini della sua guardia personale e prende la ferma decisione di trasferirsi al Palazzo de La Moneda, per difendere, dal suo posto di presidente della repubblica, il governo d’Unità Popolare. Lo accompagnava una scorta di 23 uomini, armata con 23 fucili automatici, due mitragliatrici calibro 30 e 3 bazooka, che si trasferisce con il presidente, in quattro automobili ed un camioncino, al Palazzo Presidenziale, dove arrivano alle 7 e 30 della mattina.


Il presidente, portando il suo fucile automatico e accompagnato dalla scorta, entrò dall’ingresso principale de La Moneda. A quella ora la protezione abituale dei carabinieri era normale nel palazzo.


Già all’interno si riunisce con gli uomini che lo accompagnavano, informandoli della gravità della situazione e della sua decisione di combattere fino alla morte, in difesa del governo costituzionale, legittimo e popolare del Cile di fronte al golpe fascista. Analizza gli effettivi disponibili e dà le prime istruzioni per la difesa del Palazzo.


Sette membri del Corpo d’Investigazione arrivano per sommarsi ai difensori. I carabinieri, frattanto, si mantenevano nelle loro posizioni ed alcuni adottavano misure per la difesa dell'edificio. Un piccolo gruppo della scorta personale proteggeva l'entrata dell'ufficio presidenziale, con l’istruzione di non lasciare passare nessun militare armato, per evitare un tradimento.


Nello spazio di un'ora si dirige, attraverso la radio, tre volte al popolo, esprimendo la sua volontà di resistere.


Passate le 8 e 15, attraverso i citofoni del Palazzo, la giunta fascista intima al presidente la resa e la rinunzia dal suo carico, offrendogli un aereo per abbandonare il paese in compagnia dei familiari ed i suoi collaboratori. Il presidente risponde che “come generali traditori non conoscono gli uomini d’onore” e respinge indignato l'ultimatum.


Il presidente sostiene, nel suo ufficio, una breve riunione con vari alti ufficiali del Corpo dei Carabinieri che erano accorsi al Palazzo e che, codardamente, in quel frangente, rifiutano di difendere il governo. Il presidente li rimprovera duramente e li congeda con disprezzo, intimandoli ad abbandonare immediatamente il luogo. Mentre si svolgeva la riunione con i capi dei Carabinieri, arrivano i tre aiutanti da campo militari; il presidente gli riferisce che non era il momento per confidare negli uomini in divisa e gli chiede di ritirarsi dalla Moneda. Il presidente, però, si congeda con affetto dal comandante Sánchez, che era stato il suo aiutante da campo per l’Aviazione per molti anni.


Poco dopo il ritiro degli aiutanti di campo e degli alti ufficiali dei Carabinieri, il tenente a capo della Guarnigione dei Carabinieri del Palazzo Presidenziale, ubbidendo agli ordini del comando, invia un carabiniere a percorrere l'edificio, impartendo, ai membri della guarnigione, l’ordine di ritirarsi. Questi immediatamente cominciano ad abbandonare La Moneda, portando via parte del loro armamento. I blindati dei Carabinieri, che fino a quell’istante erano posizionati a difesa del palazzo, fanno lo stesso.


Un gruppo di dieci carabinieri, accompagnati dal latore dell'ordine di ritirata e compiendo, senza dubbio, degli ordini, mentre si ritira dalla scala principale e già prossimo all'uscita, punta i fucili e tenta di sparare contro il presidente. Ma sono energicamente respinti dal personale della scorta. Questi i sono i primi spari che si scambiano con i golpisti.


Mentre accadono questi fatti, numerosi ministri, sottosegretari, assessori, le figlie del presidente, Beatriz e Isabel, ed altri militanti dell’Unità Popolare, arrivano al palazzo per stare con il presidente in queste ore critiche.


Approssimativamente alle 9 e 15 della mattina, si verificano le prime raffiche dall'esterno contro il Palazzo. Truppe fasciste della fanteria, superiori a duecento uomini, avanzano per le strade Teatinos e Morandé, ai due lati della Piazza della Costituzione, verso il Palazzo Presidenziale, sparando contro l'ufficio del presidente. Le forze che difendono il palazzo non superavano i quaranta uomini. Il presidente ordina di aprire il fuoco contro gli attaccanti e personalmente spara contro i fascisti, che retrocedono disordinatamente con numerosi caduti.
I fascisti, allora, introducono i carri armati nel combattimento, appoggiati dalla fanteria. Un carro armato avanza da via Moneda, un altro da Teatinos, un altro da Alameda con Morandé ed un altro, in direzione dell’ingresso principale, da Piazza della Costituzione. In questo istante, dallo stesso ufficio del presidente si apre fuoco con un bazooka contro il carro armato che era nelle vicinanze dell’ingresso principale, che è distrutto completamente. Altri due carri concentrano il loro fuoco sul gabinetto del presidente ed un blindato dirige le sue mitragliatrici fino alla Segreteria Privata e l’ufficio delle scorte. Anche vari pezzi d’artiglieria, posizionati ai bordi della Piazza della Costituzione, sparano contro il Palazzo.


Il presidente percorre le diverse posizioni di combattimento incitando e dirigendo i difensori. La lotta violenta si prolunga per oltre un'ora, senza che i fascisti riescono ad avanzare di un solo centimetro.


Alle 10 e 45 il presidente riunisce, nel salone Toesca, i ministri, i sottosegretari e gli assessori che sono accorsi a Palazzo per stare con lui. Spiega che la lotta, in futuro, avrà bisogno di dirigenti e quadri: tutti quelli che erano disarmati dovevano abbandonare la Moneda appena possibile e tutti quelli che avevano armi dovevano continuare ai loro posti di combattimento. Naturalmente, nessuno dei collaboratori disarmati era d’accordo con la proposta del presidente; nemmeno le figlie del presidente e le altre donne che si trovavano nella Moneda, si rassegnano ad abbandonare il palazzo.

 

Il combattimento prosegue violento. Attraverso i citofoni del Palazzo i fascisti lanciano rabbiosi nuovi ultimatum, annunciando che se i difensori non si arrendono, avrebbero utilizzato immediatamente l’Aviazione.


Alle 11 e 45 il presidente si riunisce con le figlie e le altre nove donne che sono nel palazzo, ordinando con fermezza di abbandonare la Moneda, perché non aveva senso la morte di indifesi. Immediatamente, chiede agli assedianti una tregua di tre minuti per evacuare il personale femminile. I fascisti però non concedono la tregua, ma le truppe cominciano ad allontanarsi di palazzo, per permettere l'attacco aereo. L’impasse che si produce consente alle donne di abbandonare il palazzo.
Circa alle 12 comincia l'attacco dell'aviazione. I primi missili cadono nel Cortile d’Inverno, al centro della Moneda, perforando il tetto e scoppiando nell'interno dell’edificio. Nuove ondate di aeroplani e nuovi impatti si succedono uno dietro l’altro, invadendo tutto l’edificio con fumi tossici. Il presidente ordina di prendere tutte le maschere antigas, s’interessa della situazione delle munizioni ed esorta i combattenti a resistere con fermezza al bombardamento.


Le munizioni dei fucili automatici della guardia presidenziale, dopo quasi tre ore di combattimento, sono quasi esaurite. Il presidente ordina, perciò, d’abbattere immediatamente la porta dell'armeria della Guarnigione dei Carabinieri del palazzo, dove potevano esserci armi della stessa. Impazientito dal ritardo sulle informazioni di dette armi, il presidente, attraversando il Cortile d’Inverno, si dirige verso l'armeria. Osserva che ci sono ritardi nell’abbattimento della porta e ordina l’utilizzo di bombe a mano. Si riesce ad aprire una breccia nell’armeria, da dove sono rinvenute quattro mitragliatrici calibro 30 e numerosi fucili Sik, una grande quantità di munizioni, maschere antigas ed elmetti.


Il presidente ordina di portare il tutto ai posti di combattimento e personalmente percorre le camerate dei carabinieri, raccogliendo fucilo Sik e le altre armi che rimanevano. Lo stesso presidente carica sulle spalle numerose armi per rinforzare i posti di combattimento ed esclama: “Così si scrive la prima pagina di questa storia. Il mio popolo e l’America scriveranno il resto”, provocando una profonda emozione tra tutti i presenti.


Mentre il presidente trasporta le armi dall'armeria, riprende con violenza l'attacco aereo. Un'esplosione rompe i cristalli delle finestre vicine al presidente. I frammenti di vetro lo feriscono alla schiena. Questa è la prima ferita che subisce. Mentre riceve le cure mediche, ordina di proseguire lo spostamento delle armi e non smette di preoccuparsi per la sorte di ognuno dei suoi compagni.

 

Pochi minuti dopo i fascisti riprendono violentemente l'attacco, combinando l'azione della Forza Aerea con l'artiglieria, i carri armati e la fanteria. Secondo testimoni oculari, il rumore, le mitragliatrici, le esplosioni, il fumo e l'aria tossica avevano convertito il palazzo in un inferno. Nonostante l'istruzione del presidente di aprire tutti i rubinetti i bocchettoni per evitare l'incendio del pianterreno, l'ala sinistra del palazzo comincia ad ardere e le fiamme si propagano verso la Sala degli Aiutanti ed il Salone Rosso. Il presidente, però, non si scoraggia un solo istante, nemmeno nei momenti più critici, e ordina di affrontare l’attacco con tutti i mezzi disponibili.


Si verifica una delle maggiori prodezze del presidente. Mentre il palazzo è avvolto dalle fiamme, si trascina sotto le raffiche di mitragliatrice fino al suo gabinetto, di fronte alla Piazza Constitucion, prende personalmente un bazooka, lo punta contro un carro armato situato in via Morandé -che sparava furiosamente contro di palazzo - e lo mette fuori combattimento con un colpo diretto. Poco dopo un altro combattente distrugge un terzo carro armato.


I fascisti introducono, da via Morandé 80, nuovi carri blindati, truppe e carri armati, intensificando il fuoco sulla porta di accesso alla Moneda, mentre il palazzo continuava in fiamme. Il presidente, con vari combattenti, scende al pianterreno per respingere l'intento dei fascisti di penetrare nel palazzo dalla via Morandé. L’esito è positivo.


I fascisti sospendono il fuoco in questo settore e, gridando, chiedono due rappresentanti del governo per parlamentare. Il presidente invia Flores, segretario generale di Governo e Daniel Vergara, sottosegretario all’Interno, che escono dalla porta di via Morandé e si dirigono verso una jeep militare, stazionata di fronte. Questo succede approssimativamente all'una del pomeriggio. Flores e Vergara conversano con un alto ufficiale che era nella jeep. Nel ritorno al palazzo e già vicini all’ingresso, dalla stessa jeep gli sparano a tradimento, Flores è ferito da un colpo alla gamba destra e Daniel Vergara ne riceve vari alla schiena, che lo abbattono. E’ raccolto dai suoi compagni, protetti dal fuoco degli altri difensori.


I fascisti avevano chiesto di trattare per esigere ancora la resa, offrendo agevolazioni al presidente ed ai difensori per abbandonare il Palazzo e dirigersi al paese che volevano. Il presidente reitera d’immediato la sua decisione di combattere fino all'ultima goccia di sangue, interpretando non solo il suo desiderio, ma quello di tutti gli eroici difensori del Palazzo. Dal pianterreno resistono agli attacchi provenienti da Morandé, mentre l'entrata principale del Palazzo è già praticamene distrutta.


Verso le 1 e 30, il presidente sale ad ispezionare le posizioni della piano superiore. Numerosi difensori erano già morti a cause delle raffiche di mitragliatrice, delle esplosioni o carbonizzati dalle fiamme. Il giornalista Augusto Olivares stupisce tutti per il suo comportamento straordinariamente eroico. Gravemente ferito, è operato nella sala medica del Palazzo e, quando tutti lo immaginavano a letto, arma in pugno è ancora al suo posto di combattimento al secondo piano, insieme al presidente. Sarebbe prolisso enumerare ora i nomi e gli atti di eroismo dei combattenti.


Dopo l’1 e 30 i fascisti s’impossessano del pianterreno del Palazzo, la difesa si organizza nei piani superiori ed il combattimento continua. I fascisti trattano d’irrompere dalla scala principale. Approssimativamente alle 2, riescono ad occupare un angolo del piano superiore. Il presidente stava barricato, insieme a vari dei suoi compagni, in un angolo del Salone Rosso. Avanzando verso il punto d’irruzione dei fascisti, riceve un colpo allo stomaco che lo fa inchinare dal dolore, ma non smette di lottare. Appoggiandosi ad una poltrona continua a sparare contro i fascisti da pochi metri di distanza, finché un secondo lo colpisce al petto, lo abbatte e già moribondo viene crivellato di colpi.


I membri della sua guardia personale, vedendo il presidente cadere, contrattaccano energicamente e respingono nuovamente i fascisti fino alla scala principale. Si produce allora, nel mezzo del combattimento, un gesto d’insolita dignità: prendendo il corpo inerte del presidente lo conducono fino al suo gabinetto, lo siedono sulla sedia presidenziale, gli collocano la sua fascia di presidente e lo avvolgono in una bandiera cilena.


Anche dopo la morte dell’eroico presidente, gli immortali difensori del palazzo hanno resistito altre due ore ai selvaggi assalti fascisti. Solo alle quattro del pomeriggio, quando il Palazzo Presidenziale ardeva già da molte ore, si è spenta l'ultima resistenza.


Molti si stupiranno di quello che si è appena narrato. E così è, semplicemente sorprendente. L'alta gerarchia fascista dei quattro corpi armati si era alzata contro il governo dell'Unità Popolare e solo quaranta uomini hanno resistito per sette ore al grosso dell'artiglieria, ai carri armati, all'aviazione e alla fanteria fascista. Poche volte nella storia è stata scritta una simile pagina di eroismo.


Il presidente non è stato solo coraggioso e fermo nel compimento della parola di morire difendendo la causa del popolo, ma si è elevato nell'ora decisiva fino a limiti incredibili. La forza d'animo, la serenità, il dinamismo, la capacità di comando e l'eroismo dimostrati, sono stati ammirevoli. Mai in questo continente un presidente era stato protagonista di una così drammatica prodezza. Molte volte il pensiero inerme è stato abbattuto dalla forza bruta. Ma adesso si può dire che la forza bruta non ha mai conosciuto una simile resistenza, messa in atto nel terreno militare da un uomo di idee, le cui armi sono sempre state la parola e la penna


Salvador Allende ha dimostrato più dignità, più onore, più valore e più eroismo che tutti i militari fascisti assieme. Il suo gesto di grandezza incomparabile, ha inabissato per sempre nell'ignominia Pinochet ed i suoi complici.


Così si è rivoluzionari!
così si è uomini!
Così muore un combattente vero!
Così muore un difensore del suo popolo!
Così muore un lottatore per il socialismo!


Le ultime parole del compagno presidente Salvatore Allende:


«Lavoratori della mia patria: ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio ed amaro, dove il tradimento pretende imporsi. Continuate sapendo che, molto prima che tardi, si apriranno i grandi viali da dove passa l'uomo libero per costruire una società migliore.


Viva il Cile, viva il popolo, viva i lavoratori!


Queste sono le mie ultime parole, con la certezza che il sacrificio non sarà vano. Ho la certezza che per lo meno, ci sarà una sanzione morale che castigherà la slealtà, la codardia ed il tradimento».

 

11 settembre '08 - www.radiocittaperta.it (Misna)

 

PER IL XXXV ANNIVERSARIO DEL 'GOLPE':

L'ULTIMO DISCORSO DI SALVADOR ALLENDE

 

 

[Per ricordare il XXXV anniversario del colpo di stato in Cile l'11 settembre 1973 - a cui seguirono circa 17 anni di dittatura militare del generale Augusto José Ramón Pinochet Ugarte, morto poi nel 2006 - potevano esserci diverse possibilità. Rileggere l'ultimo discorso di Salvador Allende Gossens, il presidente di cui Washington e Pinochet causarono caduta e morte, è sembrato - soprattutto in coincidenza il VII anniversario del cosiddetto "9/11" americano e del mondo violento che ne è seguito - il modo più documentale ed efficace di ricordare la lunga tragedia cilena, fortunatamente ormai accantonata. Proprio come Allende auspicò in quell'ultima drammatica testimonianza, trasmessa da 'Radio Magallanes' in collegamento con il Palàcio La Moneda di Santiago, sotto il bombardamento aereo, poche ore prima della morte di Allende. L’operazione “Chove sobre Santiago” (“Piove su Santiago”), piano di occupazione della capitale cilena da parte delle forze golpiste, non solo spense la voce dell'esponente di Unidad Popular ma chiuse il governo più progressista della storia dell’America del Sud portando il Cile ai suoi giorni più tragici. Ecco il testo integrale di quell'ultima drammatica testimonianza in una traduzione dallo spagnolo di Antonella Rita Roscilli per il sito web dell'Anpi.]



"Pagherò con la mia vita la difesa dei principi che sono cari a questa patria. Cadrà una maledizione su quelli che hanno violato le loro promesse, venendo meno alla parola data e avendo distrutto la dottrina delle Forze Armate. Il popolo deve stare allerta e vigile. Non deve lasciarsi provocare, né lasciarsi massacrare, ma deve anche difendere le sue conquiste. Deve difendere il diritto a costruire con il suo impegno una vita degna e migliore.

Una parola per coloro che, definendosi democratici, hanno istigato questa sollevazione, per coloro che, definendosi rappresentanti del popolo, sono stati viscidi e hanno agito viscidamente per rendere possibile questo passo che fa precipitare il Cile in un burrone. In nome dei più sacri interessi del popolo, in nome della patria io vi chiamo per dirvi di avere fiducia. La Storia non si ferma, né con la repressione, né con il crimine. Questa è una fase che verrà superata, questo è un momento duro e difficile. È possibile che ci annientino, ma il domani apparterrà al popolo, apparterrà ai lavoratori. L’umanità avanza verso la conquista di una vita migliore. Compatrioti: è possibile che blocchino le radio e devo salutarvi. In questo momento passano gli aerei. È possibile che ci colpiscano. Ma sappiano che siamo qui, per lo meno con questo esempio, per segnalare che in questo paese ci sono uomini che sanno mantener fede alle promesse che hanno fatto. E lo farò per mandato del popolo e per la volontà cosciente di un presidente che sente la dignità del proprio incarico.

Forse questa è l’ultima opportunità per rivolgermi a voi. La Forza Aerea ha bombardato le antenne di Radio Portales e Radio Corporaciòn. Le mie parole non contengono amarezza, ma delusione e saranno queste parole il castigo morale per coloro che hanno tradito il giuramento che hanno fatto, soldati del Cile, comandanti in capo titolari, l’ammiraglio Merino che si è autonominato; il signor Mendoza, generale spregevole che fino a ieri ha manifestato la sua solidarietà e lealtà al governo e che si è nominato anche direttore generale delle Guardie. Davanti a questi avvenimenti voglio dire ai lavoratori solo una cosa: io non mi arrenderò. Collocato in questa situazione storica io pagherò con la vita la lealtà al popolo. E vi dico che sono certo che il seme che depositeremo nella coscienza dignitosa di tanti e tanti cileni non potrà essere estirpato definitivamente. Costoro posseggono la forza, potranno sottometterci, ma non è con il crimine, né con la forza che si guidano i processi sociali. La Storia è nostra e la fa il popolo. Lavoratori della mia Patria: voglio ringraziarvi per la lealtà che sempre avete manifestato, per la fiducia che avete riposto in un uomo che si è fatto solamente interprete dei grandi desideri di giustizia e che ha impegnato la sua parola nel rispetto della Costituzione e della legge, e lo ha fatto. Spero che capiate la lezione. Il capitale straniero, l’imperialismo, unito alla parte reazionaria, ha creato il clima nel quale le Forze Armate rompessero le loro tradizioni, quelle tradizioni che erano state di Schneider e che erano state ribadite dal comandante Araya, ambedue vittime delle forze sociali, della stessa gente che ora se ne sta in casa aspettando di riconquistare il potere attraverso degli intermediari per continuare a difendere i propri profitti e privilegi.


Mi rivolgo soprattutto alle semplici donne della nostra terra, ai contadini che credono in noi, agli operai che lavorano, alle mamme che conoscevano le nostre preoccupazioni per i loro figli. Mi rivolgo a coloro che esercitano professioni liberali e che hanno mantenuto una condotta patriottica, a coloro che già da qualche giorno lottano contro la sedizione promossa dalle unioni professionali, anche in questo caso per difendere i vantaggi che la società capitalista conferisce ad una cerchia ristretta. Mi rivolgo ai giovani, a coloro che hanno cantato e hanno portato la loro allegria e il loro spirito di lotta; mi rivolgo all’uomo cileno, all’operaio, al contadino, all’intellettuale, a coloro che saranno perseguitati perché nel nostro paese il fascismo già è stato presente molte volte negli attentati terroristi, facendo esplodere ponti, tagliando le reti ferroviarie, distruggendo gli oleodotti e i gasdotti, davanti al silenzio di coloro che avevano l’obbligo di procedere (…). Li giudicherà la storia.

Sicuramente Radio Magallanes è stata ridotta al silenzio e la mia voce non vi giunge più. Non importa, continuerete ad ascoltarmi perché io starò sempre con voi, per lo meno il ricordo di me sarà quello di un uomo degno che è stato leale con la Patria. Il popolo deve difendersi, ma non sacrificarsi. Il popolo non deve lasciarsi annientare, ma non si deve nemmeno umiliare. Lavoratori della mia Patria: ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno il momento cupo e amaro, quel momento in cui è il tradimento a imporsi. Dovete sapere che presto si apriranno grandi viali dove passerà l’uomo, libero di costruire una società migliore.

Viva il Cile! Viva il popolo, viva i lavoratori! Queste sono le mie ultime parole e sono certo che il
sacrificio non sarà vano. Sono sicuro che, per lo meno, una sanzione morale punirà la codardia e il tradimento...".