2 maggio'08 - E.R.Vitali tratto da www.altrenotizie.org

GUANTANAMO

Il dopo: la lotta al terrorismo tra sicurezza e libertà

 

 

I processi di Guantanamo stanno per iniziare e ben presto i tribunali speciali militari potranno giudicare i prigionieri accusati di terrorismo; molti di loro non avranno però la possibilità di parlare o quantomeno, dopo anni d’isolamento e senza contatti con l'esterno, di capire cosa sta accadendo. La denuncia, pubblicata sul New York Times, arriva dagli stessi avvocati di Salim Ahmed Hamdan, l’uomo arrestato con l’accusa di essere stato l’autista personale di Osama bin Laden. Secondo i legali di Hamdan, lo yemenita ha sviluppato atteggiamenti paranoici e ha ormai perso ogni contatto con la realtà. Questo è il motivo per il quale è stato chiesto al giudice il rinvio del processo, almeno fino a quando l'uomo non dimostrerà di essere lucido. Intanto la difesa ha già dichiarato di essere pronta a mettere in discussione le confessioni estorte durante gli interrogatori e si è detta pronta a combattere perché siano comunque garantiti processi equi e giusti. Ma questo è ancora possibile?

Per gli Stati Uniti la prigione di Guantanamo è ormai diventata una questione di reputazione, un infamante caso di violazione dei diritti umani che in questi mesi sta addirittura entrando a far parte della campagna elettorale, un tema la cui soluzione potrebbe dar vita a nuovi problemi: la chiusura del carcere di massima sicurezza passerebbe il controllo dei detenuti, più di 350 terroristi, o presunti tali, dai tribunali speciali voluti da Bush al sistema giudiziario ordinario. A trattare questo spinoso argomento è l’ex procuratore federale di New York e di Washington DC e attuale direttore esecutivo di Human Rigth Watch, Kenneth Roth, che in un articolo intitolato “After Guantanamo” parla del rapporto tra sicurezza e libertà messo in atto in molti paesi e spiega come la prigione militare americana sia diventata il simbolo della violazione degli standard minimi di reclusione, un caso di status giuridico che non assegna ai detenuti alcun titolo e ne impedisce un giusto rinvio a giudizio.

Il campo di prigionia di Guantanamo, sorto nel gennaio 2002 nell’omonima base navale, è forse la più alta espressione della lotta al terrorismo voluta dall’amministrazione Bush e, in particolar modo, dall’ex segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, dall’ex Segretario alla Giustizia Gonzales e dal vicepresidente Cheney: una struttura di massima sicurezza costruita per rinchiudere “il peggio del peggio” del terrorismo internazionale. Assicurare alla giustizia coloro che hanno straziato l’America, i responsabili del più bestiale atto di terrorismo della storia, il folle gesto di un gruppo di irresponsabili assassini costato la vita a quasi tremila innocenti, rientra del diritto di autodifesa di qualsiasi paese ma i tempi e il modo in cui è stata applicata la legge, le torture denunciate dalle organizzazioni per i diritti umani e l’uso ossessivo delle reclusioni preventive hanno trasformato Guantanamo in un imbarazzante caso internazionale, ingombrante a tal punto che ora è lo stesso Bush a volerlo chiudere.

Fino ad oggi le celle di Guantanamo hanno ospitato 778 detenuti, più della metà dei quali sono già stati rilasciati; 150 di quelli ancora rimasti sull’isola sono considerati il cuore dell’estremismo islamico, individui accusati di aver pianificato o commesso atti di terrorismo e che da circa sei anni attendono di essere giudicati. Ora, se l’attuale o il futuro presidente americano dovesse chiudere Guantanamo, cosa ne sarebbe dei detenuti? Sarebbero giudicati come criminali qualsiasi o rimarrebbero in uno stato giuridico conosciuto come detenzione amministrativa o preventiva? Il sistema America può lasciar trattare i casi di terrorismo ad un tribunale ordinario o permette che il diritto ad un giusto processo venga sacrificato sull’altare della sicurezza nazionale?

In molti Paesi non sempre l’ago della bilancia pesa a favore dei diritti dell’accusato. Secondo Kenneth Roth i regimi autoritari sono sicuramente giunti alla conclusione che al primo posto viene la sicurezza nazionale. In Malaysia e a Singapore le autorità possono trattenere un sospetto per più di due anni: islamici, comunisti e dissidenti politici vengono incarcerati per anni sulla semplice base di indizi; a Singapore, Chia Thye Poh, accusato di essere membro del partito comunista, ha scontato 32 anni di carcere senza alcuna accusa. In Occidente, ad un sistema autoritario è certamente preferito un modello liberal-democratico; in Europa ci sono comunque paesi che applicano una strategia più aggressiva, come Gran Bretagna e Francia dove la lotta al terrorismo ha imposto misure di detenzione più restrittive. Londra aveva già adottato questa politica negli anni 70 e 80, quando l’Irlanda del Nord e la stessa Inghilterra erano minacciate dalle azioni terroristiche dell’IRA.


La legge introdotta nel Regno Unito in seguito agli attentati dell’11 settembre, che prevedeva la detenzione preventiva per i cittadini non-britannici, è stata abrogata nel 2004 dalla Camera dei Lords perché ritenuta sproporzionatamente discriminante rispetto alla minaccia subita. Scotland Yard può comunque trattenere per almeno 28 giorni coloro che sono sospettati di aver commesso fatti legati al terrorismo (è stata avanzata una proposta per estendere questa misura restrittiva a 42 giorni) e, nel caso non vengano arrestati, ne può limitare la libertà di movimento. In materia di terrorismo Washington permette che i combattenti catturati in Medio Oriente, i terroristi e tutti coloro che sono sospettati di avere collegamenti con al-Qaeda vengano detenuti fino alla fine del conflitto, senza la garanzia di un processo. Da qui i casi di prigionia prolungata e la controversa questione Guantanamo: la guerra globale al terrorismo non ha un collocamento geografico o un campo di battaglia ben definito e molti detenuti sono stati arrestati a migliaia di chilometri dalle zone di combattimento.

E’ evidente che la chiusura del carcere di massima sicurezza impone una decisione sulla sorte dei prigionieri. Kenneth Roth suggerisce una soluzione quanto mai auspicata: demandare alle corti federali i processi riguardanti i fatti di terrorismo e ai tribunali militari quelli riguardanti i prigionieri catturati in zone di guerra. Il problema è che l’amministrazione Bush è convinta che il sistema giudiziario americano non è in grado di portare a termine questo compito e quindi insiste sulla strada delle commissioni speciali, un modo discutibilmente pericoloso visto che metterebbe in dubbio il ruolo della giustizia. Non è poi da sottovalutare l’aspetto tecnico del processo: l’evidenza dei fatti non è sempre dimostrabile e in molti casi le percezioni intelligence non sono sufficienti per emettere una condanna. Inoltre, la detenzione preventiva può spesso diventare dannosa, generando un rifiuto di cooperazione e un forte risentimento nei riguardi di chi opera nel settore della lotta al terrorismo; Guantanamo insegna che se la detenzione preventiva non si basa su prove inappellabili e se non viene garantito un processo in tempi rapidi, l’indiziato, anche se colpevole, diventa lui stesso vittima del sistema.