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Nuestra America

L'America Latina nella congiuntura

mondiale: sfide e contraddizioni

Trascrizione dell'intervento al Dibattito internazionale "L'America Latina e i Caraibi tra l'indipendenza delle metropoli coloniali e l'integrazione emancipatrice", organizzato dalla Casa de las Américas il 22-24 novembre 2010 in L'Avana, Cuba.

 

28.11.10 - A.Borón  www.atilioboron.com/2010/11/sobre-el-escenario-geopolitico.html  www.resistenze.org

 

Il mio contributo al dibattito sarà sul processo di emancipazione nel momento attuale: l'eredità dell'indipendenza, quella che attualmente abbiamo e che è un mandato per il nostro popolo e per i nostri governi. L'obiettivo forse è troppo ambizioso, ma si tratta di un'impresa collettiva e confido che, a partire dal dibattito e dallo scambio di idee, emergerà una visione più chiara di questo processo.

 

Comincerò, in primo luogo, riferendomi a quale sia la situazione globale dell'impero, perché un'analisi dei processi e progetti di emancipazione attuali, non può essere fatta a margine di quella realtà. Cercherò anche di focalizzare quali siano i problemi che oggi si pongono al loro interno, per verificare quindi, quali siano le prospettive del nostro progetto di riscatto dell'America Latina.

 

Con la situazione attuale dell'impero, siamo oramai in presenza di una serie di caratterizzazioni che provengono oramai non dai nemici dell'impero, dalle forze antimperialiste, dai politici, intellettuali e governi che si oppongono all'impero: derivano da una riflessione all'interno dell'impero nordamericano stesso e dei suoi più importanti intellettuali e strateghi. E cosa esprime questa riflessione?

 

Nei documenti degli ultimi cinque anni sta emergendo, in maniera molto chiara, una tesi che alcuni abbozzarono già negli anni 80 in America Latina: la tesi della decadenza irreversibile dell'imperialismo nordamericano. A quei tempi fu molto discussa, e le fu attribuito come motivo ed origine, l'acceso antimperialismo di alcuni dei suoi cultori, la qual cosa ha fatto si che venissero amplificate quelle tendenze, comunque presenti, ma che allora non avevano né il peso, né la forza enunciata.

 

Tuttavia, vediamo che 20 anni dopo cominciano ad apparire testi e documenti del Pentagono, della CIA, del Dipartimento di Stato, che hanno un comune denominatore: gli USA si devono preparare a vivere in un mondo che è completamente differente da quello degli ultimi 50 anni.

 

Devono prepararsi a vivere in un mondo maggiormente ostile, popolato da governi, regioni o conglomerati di stati nazionali sempre di più antagonisti ai loro interessi. Un mondo dove la supremazia che gli USA sono riusciti ad imporre nei 50 anni successivi alla Seconda guerra mondiale, è sparita per sempre e non potrà mai tornare ad essere ricostituita. Questa affermazione - esposta negli anni 80 a chiusura dei lavori di un seminario tenutosi in Colombia (Bogotà) - causò stupore e fu immediatamente privata di credibilità poiché era una visione esagerata. La militanza antimperialista ci tendeva una trappola e ci faceva credere qualcosa che non era vero. Però adesso sono gli strateghi del Pentagono a dire questo, oggi è la CIA che lo dice.

 

In alcuni documenti che sono perfino declassificati - si possono trovare su Internet in maggior parte sotto il titolo "Scenari alternativi per gli Stati Uniti nell'anno 2030..." - riportano i risultati dell'analisi giungendo alla conclusione dell'inesorabile diminuzione del potere nordamericano sul piano internazionale e che dobbiamo prepararci a 30 o 40 anni di guerra, quindi qualunque aspirazione volta a supporre che l'imperialismo, in questa fase di decadenza, si trasformi in un animale docile ed amichevole è in questi numerosi documenti smentita dagli stessi autori che scrivono: "L'unica maniera in cui possiamo preservare una parte della capacità che avevamo di difendere i nostri interessi nella sfera internazionale, è di essere disposti a lottare e combattere, magari per i prossimi 30 o 40 anni. Dobbiamo prepararci a questo, non c'è alternativa". E' importante segnalare questo perché per alcuni anni, anche in certi settori del pensiero di sinistra, si era diffusa l'idea che l'imperialismo in decadenza si sarebbe trasformato in un soggetto storico molto più tollerante, amichevole e disposto a cedere posizioni davanti ai processi di emancipazione nelle nostre regioni.

 

Quello che dicono gli intellettuali, esperti, strateghi militari dell'impero, è precisamente il contrario. Ed è anche il contrario quello che gli USA, centro di tutto il sistema imperiale, stanno facendo, un centro assolutamente non sostituibile. Non c'è oggi chi rimpiazzi gli USA nel sostegno alla struttura mondiale del capitalismo, né assolutamente esiste alcun altro paese che possa compiere la missione degli USA. In queste condizioni l'impero è disposto a difendere con i denti e con le unghie i privilegi di cui ha goduto da, per lo meno, metà del XX secolo. Su cosa si basa questa diagnosi pessimistica che fanno gli strateghi nordamericani? Su dati che sono assolutamente inoccultabili, conosciuti.

 

Gli USA non sono più il centro di gravità economico come nella seconda metà del XX secolo, e lo sono sempre meno; si confrontano con rivali di una potenza straordinaria. Vale a dire, 50 anni fa la Cina, come dicevano alcuni economisti nordamericani, non contava nulla nell'economia mondiale. Oggi sì che conta, e sta per trasformarsi nella prima economia del mondo. Il Giappone era distrutto dalla guerra.

 

Non farò questa analisi, si conoscono bene quali siano questi grandi cambiamenti; ma ve ne è uno che fondamentalmente sta alla base di tale questione: gli USA come impero ostentano un titolo aberrante nella storia degli imperi e sono i primi che si convertono, essendone il centro, nel grande debitore. Oggi gli USA sono i responsabili approssimativamente della metà del debito estero mondiale. I paesi del Terzo mondo sono molte volte ricattati dagli USA quando questi dicono loro: "Se voi non pagate il debito mettete in pericolo la stabilità del sistema finanziario internazionale e sareste degli irresponsabili". Ma la totalità dei paesi del Terzo mondo non è responsabile di più del dieci percento del debito estero mondiale. Il grave problema del debito estero mondiale e del collasso dei mercati finanziari ricade sugli Stati Uniti, sull'Unione Europea e il Giappone che versa in una situazione catastrofica dal punto di vista del debito estero, ancora peggiore di che quella che avevano i paesi dell'America Latina all'inizio degli anni 80.

 

Se uno degli altri paesi si rifiuta di pagare, "il sistema finanziario internazionale cade con le sue imprevedibili conseguenze". Ora gli USA appaiono nella storia degli imperi come un grande debitore - a differenza di quello che fu, per esempio l'impero britannico, creditore verso tutta la periferia. Gli USA hanno questa peculiarità, e la loro moneta era la valuta simbolo, mentre oggi il dollaro è fondamentalmente sostenuto dai suoi avversari economici e politici. Il dollaro, attualmente - questo lo ha spiegato Samir Amin in numerosi lavori - è sostenuto dalla disponibilità o volontà della Repubblica cinese, Russia, Corea e Giappone di non lasciarlo cadere. Questi quattro paesi sono quelli che stanno sostenendo il dollaro oggi, il che implica che anche gli USA hanno una capacità di pressione su di loro ma anche loro sugli USA, e questo spiega alcuni fenomeni strani: per esempio, meno di due anni fa è stato pianificato una esercitazione navale congiunta tra l'esercito venezuelano e russo, che può solo intendersi partendo dall'enorme capacità di pressione che, in funzione di ciò, ha la Russia per aver resistito alle pressioni statunitensi. Però, evidentemente, gli USA non potevano resistere a quella che fu una minaccia velata portata dalla Russia, la quale avvertiva che in caso di veto su quel progetto di esercitazioni militari congiunte avrebbero valutato la possibilità di vendere in modo massiccio le proprie riserve in dollari, cominciando per esempio a cedere di punto in bianco 30 miliardi di dollari sul mercato di Londra, cosa che avrebbe provocato una debacle del dollaro a livello mondiale.

 

Gli Stati Uniti hanno dovuto accettare qualcosa che non avrebbero mai accettato prima, neppure lontanamente, eppure attualmente alcuni paesi che in qualche modo sono avversari degli USA hanno un enorme potere e possono oggi imporre certe politiche che prima erano impensabili. È una situazione di debolezza aggravata da questa crisi fiscale tremenda perché gli USA sono da 40 anni in guerra, e le imposte - soprattutto quelle ai ricchi e alle grandi corporazioni -, lungi dal continuare ad accompagnare lo sforzo militare, furono ridotte. Attualmente il profilo tributario degli USA è incredibilmente regressivo. Molti degli indicatori statunitensi in materia di iniquità sociale e redistributiva sono equivalenti a quelli di alcuni paesi del Terzo mondo, e ciò in funzione di uno stato con deficit mostruosi, che non riesce a fare coesistere. La stessa situazione è presente in relazione al deficit commerciale e, pertanto, la via d'uscita è stata individuata nella militarizzazione della scena internazionale come indicato nelle relazioni alle quali mi sono riferito prima.

 

La militarizzazione brutale della scena internazionale e la diminuzione molto significativa dei diritti civili e delle libertà pubbliche all'interno degli Stati Uniti, risulta un tema la cui rilevanza a volte viene elusa e alla quale non viene data l'importanza che ha.

 

Gli Stati Uniti sono un paese che all'interno presenta restrizioni molto severe rispetto al tema dei diritti civili. Questo fenomeno di progressiva militarizzazione sul piano internazionale ha la sua controparte interna nella restrizione dei diritti.

 

Quando si parla della militarizzazione negli Stati Uniti sono disponibili molti indicatori, alcuni quantitativi, altri qualitativi. In relazione ai secondi, il più significativo deriva dal trasferimento delle prerogative della Segreteria di stato che da sempre è l'organo del governo nordamericano incaricato di determinare le grandi direttrici della politica estera, e cioè la gestione diplomatica. Si tratta di un'esautorazione del Dipartimento di stato ad opera del Pentagono. Questo non è un processo che si produce in un giorno, non appare di punto in bianco, ma ci fu chiaramente un punto di non ritorno con l'11 Settembre 2001, sul quale esistono sempre più sospetti, anche all'interno degli Stati Uniti. Il dibattito, che non ha ancora molta visibilità pubblica ma che comunque è ben presente, si focalizza sulle indagini per capire cosa sia accaduto, fino a che punto quell'incidente non fu pianificato dall'interno degli Stati Uniti.

 

Ci sono oggi sospetti che non sono espressi da gruppi estremisti radicali o paranoici, ma da gente che ha una visione molto più tranquilla e sobria del processo politico nordamericano. Il libro di Paul O'Neill - che è stato il primo segretario del Tesoro del governo Bush - dice che nel gennaio 2001 si stava pianificando, in una riunione del gabinetto molto vicino al presidente Bush, la necessità di impadronirsi del petrolio dell'Iraq. Così, semplicemente, perché poco tempo prima era arrivata una relazione circa la crescente penuria di petrolio a livello mondiale o a causa delle enormi complessità dell'importazione dei 15 milioni di barili garantiti agli USA. Davanti a quella relazione così tanto preoccupante, sembrerebbe che furono Condoleezza Rice o il vicepresidente Dick Cheney a dire: "dobbiamo prenderci il petrolio dell'Iraq". Questo lo registra dettagliatamente Paul O'Neill, dicendo che fu per lui una grande sorpresa che ciò si stava pianificando nel gennaio 2001, cioè pochi mesi prima dei fatti delle Torri gemelle e del Pentagono.

 

La risposta che si diede a quella discussione, fu: "Abbiamo bisogno di un buon pretesto". Quanto ho menzionato è pubblicato sul libro di Paul O'Neill intitolato "Il prezzo della lealtà", e lo si trova già in circolazione. Risulta impressionante quello che riferisce: pochi mesi prima si stava cercando un buon pretesto, che arrivò con l'11 di Settembre. Colin Powell - che era segretario di stato nel primo governo G. Bush - si oppose alla guerra in Iraq, e disse perfino che si sarebbe dimesso; ma lì apparve, sicuramente, una cricca come quelle che vediamo nei film americani che gli dissero: "dove credi di andare, non vai da nessuna parte, tu non ti dimetti, rimani fino alla fine del mandato". E dovette rimanere.

 

Quello che uscì sulla stampa è che Powell diceva che distruggere l'Iraq ed uccidere Saddam Hussein erano cose molto facili e che come generale di carriera avrebbe detto solo più avanti come uscirne dall'Iraq. Un generale non deve solamente pianificare di vincere una battaglia o una guerra, ma anche, dopo, di ritirarsi.

 

E ci fu lì una discussione molto accesa nella quale Powell, apparentemente molto arrabbiato, disse: "Qua chi esprime giudizi sono Bill Cheney, Donald Rumsfeld, il segretario del dipartimento alla Difesa del Pentagono e Condoleezza Rice", nessuno dei quali è capace di distinguere una pistola da un revolver. Ed è questa la gente che sta dicendo al presidente Bush di invadere, occupare ed entrare in Iraq.

 

E, a partire da lì, Powell entrò in una specie di cono d'ombra, praticamente non fece più grandi dichiarazioni fino a che terminò il suo primo mandato, alla fine del quale effettivamente si dimise. Si dice che, che in un certo senso, smise di essere un uomo pubblico, ma questo segnò chiaramente lo spostamento verso il nuovo corso della politica estera, e non solamente la politica militare ma la politica estera globale degli USA. La soluzione è quindi sempre più di tipo militare, e questo spiega perché il dipartimento di Stato appare sempre meno importante come elemento di gestione della politica pubblica statunitense.

 

Con la presenza di Hillary Clinton pare ci sia un recupero di credito, ma questa funzionaria rappresenta chiaramente il complesso militare industriale, il quale si è manifestato molto chiaramente in relazione al colpo di stato in Honduras, quando la prima reazione di Obama è stata di condanna, ma che il giorno dopo, venne emendata dalla Segreteria, dicendo che si trattava di una "parentesi istituzionale" debitamente processata in funzione delle decisioni del Congresso.

 

Questo rende palese, il processo di colonizzazione del Dipartimento di Stato per mano del Pentagono e spiega quindi, questa enorme escalation militare, dove emergono alcuni dati quantitativi molto eloquenti che dimostrano la vocazione dell'impero a reprimere qualunque processo di autonomia o emancipazione, soprattutto in America Latina, che è per gli USA, da sempre, l'area più importante della politica mondiale.

 

Molte volte, ci si abitua ad ascoltare dichiarazioni del governo statunitense, comprese quelle di alcuni governi latinoamericani che dicono: "dobbiamo negoziare con gli USA, ma siamo realisti, siamo una regione irrilevante per gli USA; prima c'è il Medio Oriente, poi l'Europa, l'Asia Centrale, ecc…". Questo non è così certo. Per gli USA è questa la regione più importante del mondo, altrimenti mi chiedo: perché nella prima dottrina di politica estera degli USA, elaborata nel 1823 quando il processo di indipendenza in Sud America non era ancora terminato, un anno prima della Battaglia di Ayacucho, il presidente Monroe diede alla luce quella che poi sarebbe stata la dottrina fondamentale USA, che rimarrà vigente per due secoli e della quale l'ALCA ne era la conclusione del progetto, sostanzialmente quello di sottomettere tutta l'America Latina al dominio Statunitense? Perché una regione così irrilevante merita una dottrina di politica estera che dura da due secoli?

 

La seconda dottrina di politica estera adottata dagli Stati Uniti è la Dottrina Wilson, del 1917, nel mezzo della Prima guerra mondiale, con la prima fase della Rivoluzione russa già esplosa nel febbraio di quell'anno, e che si occupa della politica estera nei confronti dell'Europa; perché questa regione è fondamentale dal punto di vista militare, strategico e delle risorse naturali: la metà dell'acqua dolce del pianeta Terra sta in America Latina; una parte significativa delle risorse energetiche, petrolifere, di gas sta in America Latina; i minerali fondamentali per le moderne industrie stanno in America Latina; la biodiversità dell'America Latina rappresenta più della metà della biodiversità mondiale.

 

Un autore canadese, il cui nome non ricordo, pubblicò su una rivista di scienze biologiche che in un metro quadrato dell'Amazzonia esiste più biodiversità che in tutto il territorio del Canada, e quella biodiversità sta alla base della moderna industria farmaceutica, biochimica, di ingegneria genetica, ed è ciò che oggi richiama uno dei grandi dibattiti in seno all'Organizzazione mondiale del commercio: il tema della proprietà intellettuale, sul quale gli USA stanno esercitando diverse pressioni. Non si tratta solo dei nostri artisti e creatori, ma fondamentalmente della proprietà intellettuale per far propri i beni della natura, a partire dall'ingegneria genetica e preparare quindi prodotti geneticamente modificati che, a differenza dei semi tradizionali, per esempio, devono essere acquisiti nella regione.

 

Per questo motivo l'America Latina è fondamentale per loro; per questo motivo la militarizzazione, l'accanimento contro i governi e contro che coloro che sventolano le bandiere dell'indipendenza e dell'autonomia; per questo motivo l'accanimento contro il pessimo esempio di Cuba che è per loro assolutamente intollerabile e che dimostra che un paese povero, che ha resistito al blocco per più di 50 anni, può garantire condizioni di vita a tutta la popolazione, cosa che non si ha in nessun altro paese dell'America Latina; per questo motivo l'accanimento contro il Venezuela, contro la Bolivia, contro l'Ecuador; per questo motivo si spiega l'incredibile espansione in America Latina, che in dieci anni è stata circondata da basi militari in tutta la regione. Abbiamo basi a Guantanamo (Cuba), a Portorico, in Salvador, in Honduras; minacce di una massiccia presenza di marines in Costarica, per il momento scongiurata - speriamo per sempre - anche se il pericolo è di continuo presente. Panama: quattro secoli di governo Martinelli, quattro basi militari, due in entrambi i lati del litorale; le basi in Colombia, che al momento sono sospese poiché il tribunale ha dichiarato anticostituzionale il trattato, tema che è stato affrontato da Fidel in una delle sue riflessioni e che chiaramente significava la totale annessione della Colombia agli USA. Chiunque, protetto da quel trattato, poteva arrivare negli USA con un semplice documento di identità qualsiasi: come il carnet di una biblioteca e la Colombia, dal canto suo, rinunciava al suo diritto di ispezionare qualunque carico entrasse o uscisse dal suo territorio. Protetti da quel trattato, si potevano addirittura introdurre armamenti nucleari.

 

Chiaramente questo rivela fino a che punto si spinge quel progetto che è sfociato in tutta la quantità di basi militari che circondano questo grande bacino amazzonico, enorme deposito di risorse di ogni tipo necessarie a sostenere un modello di consumo come quello che hanno gli Stati Uniti, che ovviamente, sono assolutamente intolleranti davanti a qualsiasi iniziativa dei nostri governi per tentare di cambiare questa situazione.

 

Casa de las Américas, 22 novembre 2010. 

 

 

L’attuale indipendenza dell’America

 

Latina deve essere quella definitiva

 

L’ultima giornata del Colloquio Internazionale “L’America Latina ed i Caraibi dopo l’indipendenza dalle metropoli coloniali e l’integrazione emancipatrice”, è terminata con la lettura di un messaggio del poeta e saggista  Roberto Fernández Retamar, presidente della Casa de las Américas, agli invitati ed ai partecipanti all’evento.

 

 

30 novembre '10 - www.granma.cu

 

 

Compagne e compagni:

 

Com’è stato comunicato, circostanze estranee alla mia volontà, ossia le sequele d’una operazione chirurgica mi hanno impedito di partecipare con voi a questo Colloquio.

 

Indubbiamente mi sono informato sui fertili scambi di idee che si sono svolti qui e che oggi si concluderanno e per questo scrivo queste linee. 

 

So anche che il colloquio ha colmato e aspettative  con cui è stato convocato.

 

I vostri apporti sono stati una chiara testimonianza dell’inequivocabile posizione di molti dei nostri migliori intellettuali nell’ora cruciale che viviamo, ed è evidente che si sta realizzando  la seconda indipendenza dei nostri popoli, reclamata sin dal XIX secolo da grandi visionari.

 

Se la prima indipendenza risultò insufficiente, l’attuale dovrà essere definitiva.

 

E accade  nel momento in cui Nuestra América, tra le difficoltà  i rischi e le speranze, conosce un processo di rinnovo senza nulla di simile nel pianeta.

 

Non c’è dubbio che il Colloquio resterà come un momento luminoso nel lavoro della Casa de las Américas, che voi avete arricchito e onorato.

 

Fraternamente,

 

Roberto Fernández Retamar