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Giuseppe Tornatore «Evviva Avatar:

 

quella non è solo tecnologia»

 

13 gennaio 2010 - A.Crespi www.unita.it

 

Piovoso pomeriggio di domenica, a Roma. Si compone un numero di telefono, e all’altro capo del filo è mattina e c’è il sole del Caribe. Risponde l’hotel Nacional dell’Avana, luogo «hemingwayano» e il centralino ci mette in comunicazione con Giuseppe Tornatore. Il regista di Baarìa è a Cuba per una retrospettiva completa dei suoi film (in 7 giorni: dall'8 al 14 gennaio), organizzata dall’Arci-Ucca con il sostegno del ministero dei beni culturali italiano, in collaborazione con l’Icaic e il ministero della cultura cubano. Sembra sereno e soddisfatto: sta partendo per gli Usa (mentre leggete, è già a Los Angeles) in vista dei Golden Globes, ma la tappa «habanera» dev’essere di gran lunga la più rilassante. Chiacchieriamo di Cuba, di Baarìa, dell’Oscar e di tutto un po’.

I cinema dell’Avana, di solito, sono enormi. Un po’ come i «Cinema Paradiso» dell’Italia di una volta. Che effetto ti fa rivedere i tuoi film in un simile contesto?
«È vero, sembra di essere in Italia negli anni 50. L’altra sera
Baarìa è stato proiettato in una sala con 1100 posti, stracolma. Il clima è bellissimo, il pubblico è caldo, ride nei momenti giusti. Ho avuto anche incontri molto belli con i giornalisti locali ».

Speriamo non ti chiedano le stesse cose (su Berlusconi, la Medusa...) che ti tormentano in Italia.
«Alcune domande si ripetono in tutto il mondo: se il film allude alla situazione politica italiana, quanto ci sia di autobiografico, come è cambiata l’Italia dagli anni del fascismo ad oggi. Qui a Cuba mi hanno chiesto perché ho scelto di fare un film sull’Italia usando il punto di vista di un militante comunista. Ho risposto che mi sembrava un’ottica importante, perché in Italia i comunisti sono diventati un luogo comune della politica, si usa la parola “comunista” per sfottere o demonizzare. I comunisti sono stati relegati a figurine scolorite, e invece erano persone che sgobbavano per migliorare il loro paese, sono stati una fetta importante della nostra storia».

 

È la tua prima volta a Cuba?
«Sì. Sono qui da 48 ore e le ho trascorse quasi tutte dentro un cinema o alla sede dell'Icaic, l’istituto statale del cinema. Non chiedermi analisi troppo approfondite... Mi sembrano un popolo allegro e gioioso che combatte con grandi difficoltà. All' Icaic sono stato in una saletta di proiezione piccolissima che sembrava ferma a 50-60 anni fa. Mi sono seduto in un posto qualsiasi... e si sono messi tutti a ridere! Un funzionario mi ha detto: si è seduto dove sedeva sempre Fidel Castro, e al posto accanto si metteva il Che... Una signora anziana ha aggiunto: meno male che le poltrone non possono parlare! Mi sembra che i cubani si portino dietro la propria storia con energia, ne sono orgogliosi – anche della diversità dagli Stati Uniti, nonostante parlino tutti inglese e ci siano i film americani nei cinema (l’altra sera, in tv, davano Million Dollar Baby)».

Trasferta Usa: Golden Globe e, in prospettiva, Oscar.
«Resto fino ai Golden Globes. Per l'Oscar, la fase decisiva parte dopo la nomination... se ci arrivi.
Baarìa è stato già visto a Toronto e a Los Angeles in proiezioni, devo dire, entusiasmanti. Siamo contenti. Il film “arriva”, gli spettatori lo capiscono. Dappertutto. Sono contento che la mia idea di usare un angolo di Sicilia come un ologramma dal quale vedere il mondo viene apprezzata».

Nel tuo giro per il mondo, puoi anche non sapere che venerdì in Italia esce
Avatar e c’è chi si lamenta: troppa tecnologia, al cinema, ucciderebbe i sentimenti…
«Non ho visto
Avatar e non sto leggendo i giornali italiani, ma entro volentieri nell’argomento. La tecnologia non è mai un limite né una minaccia. È una freccia in più al nostro arco. Faccio un paradosso: se oggi, in Italia, tu volessi raccontare una storia in perfetto stile neorealista dovresti usare la tecnologia. Per togliere le macchine dalle strade, le antenne tv dai tetti, per “ricreare” il passato: il computer te lo consente. Poi, dipende da cosa vuoi raccontare: se vuoi raccontare Avatar, evviva Avatar! Non capisco perchè in Italia non si accetti la convivenza di modelli di cinema diversi. Dovremmo recuperare la diversità dei generi, che abbiamo avuto negli anni 60 e 70, e poi abbiamo perso. Invece abbiamo paura delle novità, e tiriamo fuori argomentazioni demodé. Io credo che la tecnologia stia concedendo al linguaggio delle immagini le stesse possibilità del linguaggio della scrittura. Lo sta semplificando. Tutti possono scrivere, e tutti scrivono - da sempre. Il cinema, invece, una volta era un'oligarchia, un’arte costosa e difficilmente accessibile. Ora chiunque può girare un film. Io sogno un futuro in cui si potranno fare film senza passare attraverso gli agenti, gli avvocati, le coproduzioni... un futuro in cui uno prende il computer e gira il film che ha in testa, e se viene bene qualcuno che lo distribuirà. Un futuro in cui si riderà al pensiero che 50 anni prima c’erano dei matti come me che in una vita riuscivano sì e no a fare 10-12 film. Mi sembra un futuro bellissimo. Io non mi sento minacciato dalla tecnologia. Non so se si può fare, in Italia, un film avanzato e costoso come Avatar. So che io sono stato massacrato perché Baarìa è costato più della media dei film italiani, come se avessi portato via i soldi a qualcun altro. E chiediamoci anche perché Avatar va così bene: non saranno solo gli effetti speciali, da soli non bastano mai. Evidentemente cattura sogni e angosce del momento. Oggi il gusto del pubblico è più veloce della nostra capacità di inventare storie, e noi registi non siamo al passo con questa velocità. Altro che paura: magari la tecnologia mi mettesse in grado di catturare le cose al volo».

La tecnologia sarebbe indispensabile anche per il famoso progetto sull’assedio di Leningrado, che avevi ereditato da Sergio Leone. Ci pensi ancora?
«Ci penso, e qualcuno un giorno dovrà farlo, perché è una pagina di storia che il cinema non ha ancora toccato. Ma se ti dicessi che sarà il mio prossimo film, ti direi una bugia. Certo, negli anni 80 le immagini digitali non esistevano. Sergio chiedeva ai sovietici 1000 carri armati e quelli gli rispondevano che non entravano nell’inquadratura... e lui ribatteva: datemeli, e ci penso io! Oggi, con degli effetti speciali ben fatti, di carri armati ne basterebbero venti».

Un’ultima cosa. In aprile esce in Italia «Everybody’sFine», il remake di Stanno tutti bene diretto da Kirk Jones, con De Niro. Negli Usa è già uscito lo scorso dicembre. L’hai visto? Hai avuto voce in capitolo?
«Non l’ho visto e non ho voluto voce in capitolo. Ho applicato il metodo Moravia: vi cedo i diritti di remake e fate quello che vi pare! Su richiesta del regista, ho solo consigliato di togliere un figlio (il film è la storia di un padre, nell’originale Marcello Mastroianni, che va alla ricerca dei figli sparsi in tutta Italia, ndr). Cinque mi erano sempre sembrati troppi. Non mi hanno chiesto di dirigerlo, né avrei accettato. Una volta mi chiesero di rifare Nuovo cinema Paradiso in America. L’idea non mi dispiaceva: ma non si è mai trovata una soluzione per il personaggio del prete».

In che senso?
«In America non esistono le sale parrocchiali, quindi non si potrebbe mai verificare il caso di un prete che visiona i film e taglia le scene dei baci. E senza i baci tagliati, non c’è il film. Gli americani si divertono come pazzi per quella scena, ma poi si rendono conto che portarla in America è impossibile. Niente prete, niente remake».