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Il traduttore si scusa per gli errori

 
 

Una personalità:

Don Fernando Ortiz

 

 

 

1 febbraio 2012 - Miguel Barnet www.granma.cu

 

 

Non ci ho pensato troppo. Ho lanciato la freccia all’infinito, perchè centrasse il bersaglio.

 

La sua opera era una montagna gigante, il suo prestigio straordinario, unico. Ed io ero nessuno; un semplice ricercatore, appassionato allo studio della cubanità, di quello che mi aveva fatto disprezzare e sottovalutare le aule di una scuola nordamericana in Cuba e un mezzo stereotipato per una visione neocolonialista.

 

Dato che io ero nessuno e lui un pilastro della nostra vita culturale, godevo almeno del privilegio di non pregiudicarlo, di non obbligarlo ad alcun protocollo, a nessun mezzo di protezione.

 

Chiamai per telefono e mi ripose sua moglie. Chi parla? Bene, un ammiratore di Don Fernando, che lo vorrebbe conoscere. Era l’anno 1962. Nel 1958 avevo lavorato, in un fertile contatto con Argeliers León e María Teresa Linares; un anno più tardi avevo conosciuto Isaac Barreal e Manuel Moreno Fraginals. Mi ero già diplomato frequentando il Seminario sul Folclore Cubano del Teatro Nazionale, già potevo conversare e stimolare un poco, se si vuole, gli interessi più puri e autentici di Fernando Ortiz.

 

Comunque ero uno sconosciuto.

 

Lui rispose che stava lontano dal chiasso della vita, con un accento tra il maiorchino e il catalano. Ortiz si era laureato a Barcellona in Diritto nel 1900,e questo me lo rese più misterioso e inaccessibile. Il telefono fu un fallimento, e passò un anno.

 

Nell’Accademia delle Scienze, nella Biblioteca Nazionale, nei corsi e nei gruppi d’investigazione si parlava di lui con rispetto. Don Fernando era un punto di partenza, una colonna portante. Ma non mi bastava studiare la sua opera, conoscendolo attraverso i suoi voluminosi volumi. Volevo incontrare quell’uomo che aveva spigolato “nell’intrincata fronda della cubanità”, per dirlo con le sue parole, in un lavoro pioniere d’esplorazione e analisi, che aveva fatto affermare a Juan Marinelo che Ortiz era il nostro terzo scopritore, in un’impegnata sequenza con il genovese temerario e Humboldt, il savio.

 

La curiosità non mi dava pace. E decisi di bussare alla porta di quella casa con le colonne doriche, di quel centro della cultura universale nel quale erano state elaborate le investigazioni che posero in luce l’uomo cubano e i suoi valori, la cultura del negro, tanto occultata e avvolta in macabre favole e terribili fatti di sangue.

 

Mi aperse la porta María Herrera, sua moglie. Con l’avallo dell’Istituto di Etnologia e Folclore come biglietto di presentazione, giunsi a Don Fernando.

 

"Scienza, Coscienza e Pazienza", erano la sua guida e la sua lealtà professionale. Grazie alla ‘Pazienza’ guadagnata mi sedetti al suo fianco, accanto a quella poltrona imbottita da dove lui guardava, capiva e amava il mondo. Mi domandò a cosa mi dedicavo. Per pudore gli dissi che ero poeta, ma avrei dovuto negare giustamente, per pudore, questa mia vocazione. "La poesia illumina ma cancella virtù, faccia attenzione con le eresie".

 

Gli dissi che inoltre ero appassionato all’investigazione della cultura tradizionale cubana, del nostro folclore. Mi parlò di Federico García Lorca con ammirazione e affetto, era stato suo amico. Lui lo aveva portato a Cuba attraverso la Ispano-Cubana di Cultura. E Lorca in un gesto gli aveva dedicato il suo ‘Son de negros en Cuba’: "Iré a Santiago, cantarán los techos de palmera, iré a Santiago... Iré a Santiago, en un coche de aguas negras...".

 

"Don Fernando, lei non crede che il miglior lavoro che esiste sulle ‘nanas’ lo ha scritto questo poeta?". Assentí, ma mi guardò di sottecchi. Il paragone che io incoscientemente avevo stabilito con l’autore di Granada lo aveva inquietato. Me ne accorsi, chiesi scusa ed entrammo nel terreno della cultura afrocubana, vocabolo che lui stabilì nel linguaggio generale delle scienze sociali della sua epoca. L’accento catalano mi appariva significativo. Quel cubano di così profonda stirpe nazionalista, tanto appassionato ai detti popolari, così grande conoscitore del folclore popolare, parlava come un gentiluomo spagnolo. Questo non faceva altro che dare un tono di cosmopolitismo e grazia alla sua conversazione e denotava un’educazione e una formazione molto complessa. Il suo tono, naturale, colloquiale e quasi intimo lo rendeva molto umano, lo avvicinava al suo interlocutore. Parlava piano, quasi sussurrava. Non dava ordini, ma suggeriva, delimitava con giusta sapienza. E le sue domande erano sempre: "Como vede quest’idea? Che le pare di questa o quest’altra cosa? Sarebbe d’accordo nel definire così questo fatto?...".

 

Per quanto io insistevo: “Don Fernando, non mi dia del lei, per favore”, lui continuava a pronunciare quel ‘Lei’ che s’imponeva come una regola dentro un gioco logico, che fissava una linea di lavoro rigorosamente seria e d’utilità pragmática. Nel fondo il suo umore caustico, la su tranquilla mordacità, innalzavano il Lei come uno stendardo di difesa di fronte all’ipocrisia e all’opportunismo. Lo avrei capito alcuni anni dopo, quando mi disse un giorno che lui dava del lei alle persone perchè un colombiano amico glielo aveva insegnato. Il Lei imponeva rispetto e distanza, ma dimostrava anche un profondo affetto e uno stile del secolo XIX, al quale lui non poteva rinunciare per la provenienza umanista della quale era, chissà, nella nostra Rivoluzione, l’ultimo degli esponenti, dopo la morte anni prima di Enrique José Varona, Manuel Sanguily, Esteban Borrero Echevarría o Raimundo Cabrera. Con Don Fernando si parlava di tutto. Questo lo sanno bene tutti coloro che lo conobbero. Nessuno schema, nessuna etichetta, nessun San Benito nella sua persona. Era un uomo di cultura proteica e integrale. Era capace ugualmente di decifrare uno dei segreti dell’oracolo di Eleusí che quelli di Orumbila, Orula o Ifá.

 

Aveva studiato il negro e i suoi valori, perchè come umanista e come scienziato si era reso conto che era un’imperiosa necessità sociale. Ma aveva studiato anche i nostri aborigeni e impresse il suo marchio nell’analisi dei fattori etnografici della nostra popolazione, come lo spagnolo, il cinese e quelli di provenienza caraibica.

 

Le sue preoccupazioni civiche, di uomo pubblico e liberale, lo portarono ad affermare: "In Cuba, più che in altri paesi, difendere la cultura è salvare la libertà... L’importanza economica dello straniero in Cuba è cresciuta sempre più. Anche se la statistica esprime ugualmente questo aspetto culminante della nostra vita economica, oggi si può calcolare che le due terze parti dell’industria dello zucchero di Cuba sono nordamericane, lasciando il resto per i cubani e gli spagnoli. Sarebbe interessante conoscere l’estensione del territorio cubano passato al dominio privato delle imprese straniere; ma non ci sono statistiche vere che ce lo dicono... E le miniere sono straniere. E le ferrovie sono straniere, e sono le più pomposamente esibite come di compagnie cubane. E i telefoni. E i moli. E, soprattutto le banche dato che ben poco di quello che avevano gli ispano-cubani, è riuscito a resistere allo scossone del 1920”. Guardate poi, cubani che avete avuto la paziente bontà di ascoltarmi, quali sono gli indici di visibile decadenza intellettuale, morale ed economica della società di Cuba e pensate se non merita un precisa e amorosa attenzione la crescente debolezza della nostra Patria, il cui rimedio non ammette ritardo!"

 

Fuori dal chiasso, ma dentro, intese la Rivoluzione e s’identificò con lei. Leggeva, quando la vista glielo permetteva, le notizie dei quotidiani, i grandi titoli e quelle piccole, di grande contenuto, le più profonde, come diceva lui. Negli ultimi sei anni della sua vita, quando lo frequentai con maggior assiduità, lo vidi uscire per strada una sola volta. Le sue gambe erano malate ma, senza dubbio, un pomeriggio visitò il Dipartimento della Collezione Cubana della Biblioteca Nazionale.

 

Quella visita all’istituzione da lui amata, che poi ricevette il suo fondo bibliografico per il godimento di tutti gli investigatori, fu forse la sua ultima uscita pubblica.