Ma i Cinque erano davvero spie?

 

 

9.09.2013 - A.Riccio http://www.giannimina-latinoamerica.it

 

 

Ogni 5 del mese è ormai una pratica generosa e necessaria ricordare i Cinque cubani, quattro dei quali in carcere ormai da quindici anni, condannati con accuse pesantissime per aver rappresentato un gravissimo pericolo per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.


Ricardo Alarcón, ex rappresentante permanente di Cuba presso le Nazioni Unite, ex Ministro degli Esteri ed ex Presidente dell’Assemblea del Poder Populare (il parlamento cubano), da aprile è in pensione e dedica le sue forze alla causa dei Cinque con testardaggine e generosità.


In concomitanza con il 5 settembre, ha posto
il dito sull’accusa di spionaggio che nella vulgata sembra essere la colpa principale di quei coraggiosi combattenti contro il terrorismo portato dentro l’isola dalle forze anticastriste della Florida, appoggiate e stimolate sempre dai servizi segreti statunitensi. Citando le fonti processuali e i documenti della Corte, Alarcón ricorda che la Pubblica Accusa non ha mai accusato nessuno degli imputati di spionaggio; ha però lavorato intensamente per persuadere un Tribunale favorevolmente predisposto della pericolosità dei cinque cubani infiltrati in territorio nordamericano in alcuni casi sotto falsa identità., accusandoli di voler “distruggere gli Stati Uniti” e chiedendo alla giuria il dovere patriottico di condannarli per non “tradire la comunità”. La storia dello spionaggio è stata insinuata e poi ingrandita dai media fino ad incollare per sempre l’etichetta odiosa di “spia” agli imputati.


Nel settembre 2008 la corte d’appello aveva concluso che non vi erano prove del fatto che gli imputati “avessero ottenuto o trasmesso informazioni segrete” e neanche che avessero causato danni alla Sicurezza Nazionale e dunque ha annullato la sentenza che riguardava l’Accusa Due, quella di cospirazione per commettere spionaggio. Per questa ragione vi fu la revisione delle sentenze che riguardavano Ramón Labañino e Antonio Guerrero e per quanto lo stesso procedimento avrebbe dovuto essere riservato anche a Gerardo Hernández, il Tribunale non lo ha fatto sostenendo che l’imputato era comunque già condannato all’ergastolo. Ben strano modo di procedere per un tribunale!


Che in nessun momento l’attività dei Cinque in Florida avesse riguardato informazioni militari segrete o avesse attentato alla sicurezza degli Stati Uniti, risulta anche dalle testimonianze rese da tre generali del Pentagono, Edward Breed Atkeson, Charles Elliot Wilhelm y James R. Clapper, oltre all’ex ammiraglio Eugene Carrol. Queste testimonianze sono state rese in pubbliche udienze ma, evidentemente quattro alti ufficiali pieni di decorazioni che vanno a testimoniare a favore di cinque cubani in un Tribunale della Florida dovevano passare sotto silenzio.


Ricardo Alarcón cita le pagine in cui sono raccolte le testimonianze nelle trascrizioni ufficiali e ricorda anche la diversità di trattamento riservato agli imputati di altri casi dove, addirittura, gli accusati.

 

 

 

Spie senza spionaggio

 

Giustizia nel Paese delle meraviglie:  “Prima la sentenza… il verdetto dopo!” (Alice nel Paese delle meraviglie, Lewis Carroll)

 

 

6 settembre 2013 - Ricardo Alarcón de Quesada www.granma

 

 

 

Vinto il tema del cambio di sede, il risultato del giudizio dei Cinque era già predeterminato. Seguì rigorosamente la profezia della regina.

 

I media nordamericani giocarono un ruolo molto importante in due direzioni. Fuori da Miami un silenzio totale; come descrisse con tanta abilità l’avvocato Leonard Weinglass, in  contrasto con il ruolo che giocarono nella Contea di Dade, offrendo entrambi, media e Corte, uno show di impressionante disciplina.

 

I media locali, invece, non solo parlarono del caso intensamente, ma intervennero attivamente nello stesso, come se fossero parte della Procura.

 

I Cinque furono condannati dai media prima ancora di essere accusati.

 

Nella primissima mattinata del sabato 12 settembre 1998, ogni mezzo di informazione a Miami parlava senza sosta della cattura di “terribili” agenti cubani, “disposti a distruggere gli Stati Uniti” (la frase che la Procura adorava e che venne ripetuta ossessivamente durante tutto il processo).

 

“SPIE TRA DI NOI”, fu il titolo di quella mattina.

 

Allo stesso tempo, a tal proposito, il capo dell’FBI di Miami si incontrava con Lincoln Díaz-Balart e Ileana Ros-Lehtinen, rappresentanti della vecchia banda di Batista nel Congresso.

 

Una campagna di propaganda senza precedenti venne lanciata contro cinque individui che non potevano difendersi perché si trovavano completamente isolati dal mondo esteriore, giorno e notte, per un anno e mezzo, in quello che si conosce nel gergo della prigione come “il buco”.

 

Un cerchio mediatico ha circondato i Cinque dalla loro detenzione ad ora. Però solo a Miami. Nel resto degli Stati Uniti, la dura situazione dei Cinque ha ricevuto il silenzio.

 

Il resto del Paese non conosce molto del caso, ne viene mantenuto all’oscuro, come se tutti accettassero che Miami – quella “comunità molto diversa, ed estremamente eterogenea” per dirlo con le parole del Procuratore – appartenesse effettivamente ad un altro pianeta.

 

Questa potrebbe essere stata una proposta ragionevole, se non fosse per alcuni fatti vergognosi che si sono scoperti di recente. Alcune delle persone dei media coinvolte nella campagna di Miami – “giornalisti” ed altri – ricevettero denaro dal Governo degli Stati Uniti, e figuravano nelle nomine come impiegati della macchina della propaganda anticubana della radio e della televisione, che è costata svariate centinaia di milioni di dollari ai contribuenti statunitensi.

 

Senza saperlo, infatti, gli Statunitensi si videro obbligati ad essere molto generosi. C’è una lunga lista di “giornalisti” di Miami che coprì tutto il giudizio dei Cinque, ricevendo in cambio succulenti assegni federali (per conoscere di più del “lavoro” svolto da questi “giornalisti” consultare il sito www.freethefive.org).

 

Anche la decisione della Corte d’Appello nel 2005 apporta un buon riassunto della campagna propagandistica, prima e dopo il giudizio. Quella fu una delle ragioni che convinse il panel ad “invalidare le sentenze ed ordinare un nuovo giudizio”. Miami non era il luogo in cui contare con la presenza della giustizia. Come dissero i giudici “le prove presentate (di fronte al Tribunale di Miami) che appoggiavano la mozione per il cambio di sede erano molteplici”. (Court of Appeal for the Eleventh Circuit, No. 01-17176, 03-11087).

 

Cerchiamo di chiarire qualcosa. Qui non stiamo parlando dei giornalisti, nel significato che potrebbero intendere gli statunitensi al di fuori di Miami. Ci stiamo riferendo ai “giornalisti” di Miami, che è molto diverso.

 

Il loro ruolo non era quello di pubblicare le notizie, ma di creare un clima che garantisse le condanne. Essi convocarono addirittura manifestazioni pubbliche fuori dagli uffici nei quali si riuniva la difesa e aggredirono i presunti membri della giuria durante la fase preliminare del processo. Il tribunale in questione, mostrò concerno per “l’enorme quantità di sollecitudini di visioni previe degli interrogatori, apparentemente, con l’obiettivo di informare i cittadini, ma anche gli stessi membri della giuria, delle domande prima che il tribunale la formulasse”.

 

Stiamo parlando di un gruppo di individui che aggredirono i membri della giuria, perseguendoli con macchine fotografiche per la strada, filmando le loro patenti di guida e mostrandole in televisione; li seguirono fino a dentro l’edificio della Corte, attraverso la porta delle stanze della giuria, durante tutti i sette mesi del giudizio, dal primo all’ultimo giorno.

 

La giudice Leonard più di una volta protestò e supplicò il Governo di fermare una parodia tanto deplorevole. Lo fece dal principio, in varie occasioni, e fino alla fine. Non fu ascoltata. (Official transcripts of the trial, p. 22,23, 111, 112, 625, 14644-14646).

 

Il Governo non era interessato a portare avanti un processo giusto. Durante la selezione della giuria, la Procura era ansiosa di escludere la maggioranza dei membri afro-americani, così come i tre individui che non mostrarono di avere profondi sentimenti anti-castristi.

 

In quello stesso momento, Elián González veniva riscattato, e permaneva nelle menti dei membri della giuria. Uno di loro disse durante la previa visione dei testimoni: “Mi preoccuperei della reazione che si potrebbe suscitare…non voglio che avvengano situazioni simili a quelle che si verificarono nel caso di Elián”.

 

O, citandone un altro: “Se volete sapere la verità, io mi sentirei un fascio di nervi, avrei paura per la mia incolumità se non tornassi con un verdetto congruo con gli interessi della comunità cubana”.

 

Nel bel mezzo di una tale atmosfera di terrore cominciò il maggior giudizio – fino ad ora - della storia statunitense, lo stesso che i grandi media “decisero” di ignorare.