Verso il 26 di Luglio

 

“Senti,  la prossima volta ti avviso!”
 

Così disse Fidel a Esmérido Rivera Rúa

 

 

28 giugno 2013 - María Rojas www.granma.cu

 

 

Durante la notte del 25 e l’aurora del 26 di luglio del 1953, quando Fidel e i suoi compagni si preparavano nella fattoria Granjita Siboney ad intraprendere l’azione della Moncada, Esmérido Rivera Rúa, di ventitrè anni, alto, forte come una quercia, con una bianca e lucente dentatura, muscoli elastici e mani callose, un negro povero e tanto giovane come quelli che si preparavano al combattimento, ballava in una festa a Buenavista, in luogo sulla cordigliera della Gran Pietra - vicino a Siboney -  dove viveva la sua ragazza, Norma Silva, che amava da quando aveva 12 anni.

 

All’ora prevista della partenza della carovana di automobili con coloro che divenivano eroi o martiri della Moncada e di Bayamo, Esmérido Rivera Rúa decise improvvisamente di andarsene dalla festa, che si sarebbe prolungata fino alla mattina, perchè era domenica e poi ci sarebbe stato il carnevale, e pensò di tornare per il pranzo.

 

Esmérido disse baldanzoso: “Me ne vado” e abbandonò la  festa. Se ne andò per il cammino di ritorno, scendendo la collina verso la casa di sua nonna, Chicha - Leocadia Garzón.  Quando vi giunse erano più o meno le 8:00 di mattina.

 

La nonna  lo aspettava: lui, senza immaginarselo, doveva giocare un ruolo nella storia del 26 di Luglio.

 

Un giorno, dopo qualche tempo, lo stesso  Esmérido Rivera Rúa, il nipote di una negra figlia di schiavi, mi raccontò della solidarietà del popolo rispetto ai fatti della Moncada:  “Se mi avessero ucciso per aver portato fuori da quella trappola l’uomo grande, io avrei ringraziato la morte e le mie ossa sarebbero contente”, disse, e continuò: ”Dato che insiste a farmi domande, le racconterò.”

 

Quella  mattina sua nonna gli aveva detto: "Nipote mio, è arrivata qui della gente di quelli che hanno attaccato la Moncada e abbiamo curato un ferito, Justina ed io... vai a vedere, sono là verso il fiume.”

 

Gli riferì altre cose, ma lui era stanco per la festa e la camminata e andò a dormire,  ma :  “Mi rimase nella testa quella cosa dell’uomo grande, che aveva nominato mia nonna”.

 

I cani cominciarono ad abbaiare,  Esmérido guardò dalla finestra e vide come un movimento di teste. “Non sapevo se erano guardie e allora mi alzai pensando a quello che mi aveva detto la nonna, che erano al fiume. Vado a cercare quella gente, seguo le tracce e li incontro. Erano là tra le piante  di mango, che formavano una sorta di recinto che separava dal fiume le fattorie di Andrés Nogué e Pancho Fernández (... ) stavano sul sentiero del ruscello e il cammino della Gran Pietra.

 

Dal sentiero del ruscello le guardie potevano giungere là dove si trovavano e li avrebbero trovati di sicuro. Quella era una trappola.

 

“Quello che mi fermò lo chiamavano il Catalano.  Gli dico: “Guardate, vengo a portarvi via di qui ... e loro mandarono a chiamare il capo. Lui mi dice, lui, “l’uomo grande” di cui mi aveva parlato la nonna... ‘senti portami alla Gran Pietra’ e io gli dico di no, alla Gran Pietra no, perchè le guardie ci fermano nel cammino”.

 

Per me era chiaro  che sarei andato con loro. 

 

Andiamo a Ocaña, nella parte alta di Ocaña. E allora io vado avanti e loro mi seguono. Li portai per un altro sentiero seguendo, la rotta del Rio Carpintero, perchè lì c’è una pianta che si chiama Guamá, che serve come rimedio per le reni ed è molto, ma molto fitta.  le guardie non ci potevano vedere, ma loro pensavano di andare in una collina piana.  Io ero un bruto a quei tempi, ma mi rendevo conto del fatto e me ne accertai.

 

Esmérido ricorda che nel cammino incontrarono una pianta di mamoncillo molto grande e si sedettero sotto, e fu lì che vide perfettamente che “l’uomo grande” era l’unico mezzo vestito da guardia. Aveva indosso un paio di pantaloni color cachi, di quelli che usa l’esercito e una camicia bianca sportiva a maniche corte, di un tessuto traforato. 

 

“Mi pare che mi stai guardando”,  e io gli feci la proposta di scambiare i miei pantaloni con i suoi, dato che eravamo della stessa taglia, più o meno. “L’uomo grande” portava una pistola... tutti avevano  fucili da caccia  o di marca “U”.

 

Quando giungemmo all’altro lato del cammino della Gran Pietra, dove c’erano una pianta di jobo e un algarrobo, un’altra di güira, guatapaná, verdecito, palmitas e güines di fiume,  ·l‘uomo grande”  (Fidel), mi dice: "Ci fermiamo qui".

 

"Quando parliamo, anche adesso, io lo chiamo l’uomo grande, lui, perchè in quel momento non sapevo chi era e così  lo vedevo, come mi aveva detto mia nonna, perchè era alto rispetto agli altri. Allora tutti cominciarono a darmi la mano per salutarmi e “l’uomo grande” disse, quando mi diede la mano: “Senti, ti avviso per la prossima !”

 

Guardai che quell’uomo, smarrito, perseguitato dalle guardie, mi diceva e mi avvisava dell’altro attacco, perchè era quello che mi voleva dire... bene, io lo interpretai così. E quello mi giunse sino all’anima. Bene, quello fu il mio saluto come guida. Camminammo ancora un’ora  e mezza insieme, poi più avanti a Ocaña, a El Café, a Soledad e sino a Las Delicias, ci fu altra gente che li aiutò, ma quel giorno, così vicino, le guardie erano violente  e se lo prendevano, lo ammazzavano.

 

Le guardie incontrarono Esmérido nel cammino, mentre il giovane ritornava alla casa della nonna  Chicha e lo presero per ammazzarlo. Lo portarono a un faraglione e a colpi di calcio di fucile, spintoni  con le canne e insulti con le parole più denigranti, lo interrogarono.

 

Cosa le chiesero?

 

“Mi domandarono se io avevo portato via quella gente che stava lì, e io che no, che non li avevo portati via. E  che sì che li hai portati via e io che no, non ho portato via nessuno... Mi spinsero verso il faraglione, ma una guardia che era su un camion, apparentemente il capo di tutti, disse: “Lasciate quel negro di merda, che questo negro non sa niente”, e per quelle parole  lo ringrazierò per tutta la vita”.  

 

La verità è che io non parlai perchè volevo comportarmi come mio nonno Leonardo Rivera, Nanito il veterano.  Volevo essere uguale a lui sin da piccolo. Lui mi raccontava cose della guerra d’indipendenza e io volevo somigliargli,  volevo essere come mio nonno mambì e come mio papà, capo dello sciopero  nelle miniere di  Firmeza e di Juraguá. Era minatore, motivo per cui lo ammazzarono a  La Pimienta quando non aveva nemmeno 30 anni".

 

 

Epilogo: Un combattente

 

 

Le guardie non lasciarono del tutto tranquillo  Esmérido e di fatto lui divenne una specie di cimarrone nella fattoria del catalano Nogué, dove lavorò dai suoi 12 anni quasi come uno schiavo, Infine si mise in contatto con il  Movimento 26 de Luglio e si arruolo nel pieno della lotta, partecipando all’assedio della caserma  Moncada il 30 Novembre del 1956.

 

Fu fatto prigioniero e le guardie lo picchiarono con rabbia. Nel carcere di Boniato, Frank País parlò con lui.  "E Frank e José Ponce Díaz m’insegnarono a leggere e a scrivere, perchè io non conoscevo nemmeno la O”, mi ha rivelato  Esmérido.

 

Quando uscì dal carcere iniziò a raccogliere armi tra i contadini della zona e a contattare altre persone. Li chiamavano “i fucilieri di  Esmérido".

 

Partecipò a vari combattimenti, includendo quello di Moa, nella Colonna del Secondo Fronte Orientale  Frank País, con Pedro Soto Alba ed ottenne i gradi di primo tenente dell’ Esercito Ribelle.

 

“Però per me, diceva  Esmérido Rivera, l’azione più rivoluzionaria della mia vita fu togliere l’uomo grande dalla trappola, quel  26 di luglio del del 1953.