In questi giorni in cui si svolge a Perugia il Festival internazionale di giornalismo dove la stella è Yoani Sanchez, la blogger cubana che, come hanno mostrato i documenti di Wikileaks, lavora esplicitamente per il Dipartimento di Stato americano e per le agenzie della Cia, un recluso in attesa di processo da dieci anni, con un magistrale articolo di opinione ospitato sul New York Times, denuncia la perdurante violazione dei diritti umani nella base di Guantanamo da parte dell’Amministrazione nordamericana. Una violazione alla quale il Presidente Obama aveva promesso, nel suo precedente mandato, di porre fine, senza essere riuscito però a mantenere la parola.
Anzi, È di questo inizio d’anno un
documentato e preciso comunicato stampa
di Amnesty International che chiede al
presidente Obama di rimediare ai
fallimenti sui diritti umani del suo
primo mandato e lo sollecita a
riprendere in considerazione la promessa
fatta nel 2009 di chiudere il centro di
detenzione e “di impegnarsi a rilasciare
i detenuti o a sottoporli a processi
equi”. Non ha avuto risposta. Eppure
Amnesty ricorda che oggi a Guantanamo vi
sono ancora 166 detenuti e che dal 2002
la prigione ne ha ospitati 779, la
maggior parte dei quali vi ha trascorso
diversi anni senza accusa né processo.
Per questo Rob Freer, ricercatore di
Amnesty International sugli Stati Uniti
ha scritto: “La pretesa del governo di
Washington di essere il paladino dei
diritti umani non è compatibile con
l’apertura del carcere di Guantanamo, le
commissioni militari, l’assenza di
assunzione di responsabilità e la
mancanza di rimedi per le violazioni dei
diritti umani commesse da funzionari
statunitensi, tra cui la tortura e le
sparizioni forzate che costituiscono
cri- mini di diritto internazionale”.
Parole che pesano, se si considera anche
che il presidente aveva ordinato la fine
dell’uso delle cosiddette tecniche
“rinforzate” d’interrogatorio da parte
della Cia [eufemismo per torture come il
“waterboarding”, l’annegamento simulato]
e la chiusura dei cosiddetti “siti
neri”, centri segreti di detenzione
diretti dall’intelligence statunitense.
Una realtà inquietante, denunciata dopo
l’11 settembre da The Nation, la
prestigiosa rivista di geopolitica degli
intellettuali progressisti
nordamericani, che chiedeva notizie al
governo Bush di alcuni cittadini
americani di fede musulmana di cui,
allora e in seguito, non si è più saputo
nulla.
Gli Stati Uniti, come abbiamo scritto su
Latinoamerica, hanno ignorato l’appello
di Amnesty ma è palese che non hanno più
l’autorità morale [se mai l’hanno avuta]
per fare lezione di diritti umani a
qualcuno.
È evidente, anche, che i mezzi
d’informazione occidentali tengono in
considerazione i rapporti di Amnesty
solo quando servono a trovare un minimo
di scusa per attaccare a comando, nella
ormai ribelle America Latina, paesi come
Cuba, il Venezuela, l’Ecuador, la
Bolivia, insofferenti alle pretese
dell’economia neoliberale e perfino il
Brasile, ormai quinta potenza economica
del globo, o l’Argentina che
nazionalizza il suo petrolio,
riprendendoselo dalla Spagna, e vara una
legge sui media, in particolare sulla
televisione, così democratica e
d’avanguardia da far risultare ridicola
la nostra presunta libertà
d’informazione.
I rapporti di Amnesty sono invece
ignorati quando, solitari, mettono in
discussione le violazioni dei diritti
umani fatte dagli Stati Uniti o da paesi
come Colombia e Messico, paladini di
ogni politica nordamericana, anche la
più discutibile, pur essendo diventati
ultimamente dei mattatoi con decine di
migliaia di morti e desaparecidos e
milioni di desplazados per presunte
guerre dei governi al narcotraffico. A
tutti i mezzi d’informazione italiana,
per esempio, è sfuggito che il 18
dicembre scorso la Corte Interamericana
per i diritti umani ha condannato la
Colombia per il bombardamento terrorista
sul municipio di Santo Domingo
[provincia di Arauca], compiuto dalla
Forza aerea colombiana [Fac] e in cui
morirono 17 persone [fra cui 6 bambini]
e 27 rimasero ferite.
Questa storia oltre a ricordare le
responsabilità terroristiche del regime
colombiano, responsabile di un
bombardamento indiscriminato che ricorda
quello nazista di Guernica durante la
guerra civile spagnola, evidenzia le
responsabilità e l’omertà dei media
internazionali nel coprire determinati
crimini di stato. A loro interessa, con
molta malafede, occuparsi del dissidente
cubano che fa lo sciopero della fame (ma
non di quello islamico di Guantanamo) o
di Yoani Sánchez, bloguera che ha deciso
di lavorare sottobraccio ai funzionari
dell’ufficio di interessi degli Stati
Uniti in un assedio che, pure, ogni anno
l’Onu condanna.
È eticamente accettabile che una
superpotenza cerchi, da decenni, con
ogni mezzo [perfino il terrorismo] di
sovvertire il sistema politico di un
altro paese più piccolo, solo perché
questo ha scelto un modello di società
che non piace e non conviene alla stessa
superpotenza? Ed è accettabile che
questa prepotenza venga avallata da chi
si dice dissidente, ma in realtà ha
scelto di farsi comprare? A parti
invertite, chi facesse questa scelta
sarebbe, negli Stati Uniti [stiamo
parlando di questa superpotenza]
condannato a decenni di galera per alto
tradimento.
Ma nel mondo che si autodefinisce
democratico i giornalisti non sentono
neanche lontanamente questa
contraddizione e questa immoralità.
I nostri media leggono e rilanciano solo
le promozioni messe in piedi da Freedom
House, megafono della Cia che ha
addirittura la moglie dello zar
dell’intelligence Usa John Negroponte
fra i sostenitori fissi dell’agenzia, o
le campagne portate avanti da Reporters
sans frontiéres, sovvenzionata anch’essa
da UsAid e Ned [National endowment for
democracy], le agenzie di propaganda
della stessa Cia.
Eppure le malefatte di queste fabbriche
di manipolazioni e di menzogne ogni
tanto bucano l’omertà e arrivano a
metterci davanti a quel valore che
chiamiamo etica.
Un’azienda americana che forniva
traduttori [si fa per dire] all’esercito
nordamericano in Iraq, è stata
condannata dalla Corte federale di
Greenbelt in Maryland, a risarcire con
5,3 milioni di dollari 71 ex prigionieri
iracheni, torturati nel carcere di Abu
Ghraib e in altri centri di detenzione a
conduzione americana. È il primo caso in
cui un’azienda privata degli Stati
Uniti, la cui sussidiaria è stata
accusata di aver collaborato alla
tortura dei detenuti ad Abu Ghraib, ha
accettato di patteggiare per chiudere la
causa. La Engility Holding, che ha sede
a Chantilly in Virginia, ha così
tacitato le richieste delle 71 vittime
rinchiuse tra il famigerato carcere a
Baghdad e in altri centri dell’Iraq.
Durissimi gli episodi contestati dai
legali nelle udienze: finte esecuzioni
con pistole puntate alla tempia,
prigionieri sbattuti contro un muro fino
a perdere i sensi, oppure minacciati di
stupro mentre erano incappucciati e
incatenati, costretti a bere così tanta
acqua da vomitare sangue. Molti ex
detenuti accusano di essere stati più
volte stuprati, picchiati e tenuti nudi
per lunghi periodi di tempo.
Dove sono i media italiani ed europei,
difensori dei diritti civili e della
democrazia, tanto critici con i cubani o
con Chávez accusati di “sprecare” il
denaro per maestri, medici e
ricercatori?
Come i nostri lettori ricordano, lo
scandalo delle torture ad Abu Ghraib
scoppiò nel 2004. Le foto con i
prigionieri incappucciati, incatenati o
tenuti al guinzaglio da sodati Usa
fecero il giro del mondo, scioccando la
comunità internazionale. Alcuni
congressisti democratici chiesero le
dimissioni del segretario alla Difesa
Donald Rumsfeld, che dovette più volte
rispondere sugli abusi davanti al
Congresso. E già all’epoca vennero
accusati di tortura anche agenti di
sicurezza privati che avevano il compito
di “facilitare” [diciamo così] gli
interrogatori.
Le ricordano queste realtà di Abu Ghraib
i giornalisti che blaterano – quasi
sempre a sproposito – di diritti umani?
Forse sì, ma il coraggio, sosteneva
Manzoni, non si può comprare in una
bottega.