Sessant’anni fa, nell’aprile del 1965, Ernesto Che Guevara scrisse una delle lettere più emblematiche del XX secolo: quella indirizzata a Fidel Castro come saluto d’addio. Per i valori intrinseci che contiene, essa dovrebbe essere oggetto di rilettura e riflessione periodiche. Non come un esercizio di archeologia politica, bensì come uno strumento per affrontare le contraddizioni del nostro tempo e rispondere ad alcune delle sue domande fondamentali, soprattutto nei campi dell’etica e della politica. In entrambi, la lettera interpella e impone di riflettere.
Con stile impeccabile, in 605 parole il Che sintetizza il proprio percorso cubano tra il luglio del 1955 e il momento della sua partenza verso “altre terre”, alla fine di marzo del 1965. Inoltre, fornisce ragioni essenziali che aiutano a comprendere il significato paradigmatico che assunsero le sue relazioni con Fidel e con il popolo cubano, che — come egli stesso riconosce — “ormai è mio”.
Dall’inizio alla fine, ogni enfasi e ogni precisione del testo ispirano a comprendere meglio perché il Che sia stato accolto da quel popolo come un figlio che non smette mai di sorprendere per la validità senza tempo delle sue idee, per la forza che scaturisce dalla sua coerenza e dalla sua vita esemplare, in particolare come dirigente rivoluzionario che trasformò l’austerità e il sacrificio quotidiano in tratti identitari difficili da eguagliare. Due ragioni che, da sole, spiegano perché la sua figura interroga e sprona i veri rivoluzionari, e irrita in egual misura coloro che non lo sono, pur fingendosi tali.
La lettera, letta da un Fidel visibilmente commosso il 3 ottobre 1965, non segnò soltanto la fine della presenza fisica del Che nella Rivoluzione cubana — come uomo di idee avanzate e costruttore creativo e imprescindibile — ma divenne anche simbolo della lealtà rivoluzionaria, dell’internazionalismo e dell’impegno antimperialista, indispensabili per la salvaguardia di un’altra triade: Rivoluzione, Socialismo e Indipendenza di Cuba, in qualsiasi circostanza.
Sei decenni dopo, il contenuto del testo invita ad approfondire, in modo particolare, i fattori da cui emerse, si sviluppò e si consolidò una delle più belle e istruttive relazioni di fraternità nel campo rivoluzionario: quella tra lui e Fidel.
Individuare tali fattori costituisce una necessità e un dovere politico e intellettuale, in un momento in cui non sono pochi i silenzi inspiegabili nel campo rivoluzionario sulla vita e l’opera del Che, e abbondano invece le manipolazioni malevole — soprattutto da parte dei nemici della Rivoluzione cubana — nell’affrontare il tema della sua relazione con il leader che egli sempre elogiò con umiltà, forse senza rendersi conto della propria grandezza.
Scritta nella seconda metà di marzo, prima della sua partenza da Cuba, la lettera fu consegnata senza data il 1º aprile, affinché fosse resa pubblica al momento opportuno. Quel momento giunse in occasione della chiusura della riunione costitutiva dell’attuale Partito Comunista di Cuba, quando venne presentato il suo primo Comitato Centrale.
In tali circostanze, era necessario spiegare al popolo perché una figura tanto emblematica e imprescindibile per la vittoria del primo gennaio 1959, e per la realizzazione dei cambi dei primi sei anni della Rivoluzione al potere, non figurasse tra i membri del massimo organo collegiale del nuovo partito. Il fatto rappresentò, inoltre, la prima conferma ufficiale della ragione storica per la quale il Che aveva lasciato Cuba, oltre a costituire la smentita necessaria alle molte speculazioni malevole promosse dagli avversari della Rivoluzione.
Per il suo stile sintetico e sostanziale nel mettere per iscritto le proprie esperienze, idee e percezioni sulla realtà vissuta a Cuba, la lettera merita di essere condivisa quasi integralmente. Lo dimostrano le seguenti citazioni, riportate nell’ordine originario:
“In questo momento, ricordo molte cose: da quando ti ho incontrato a casa di María Antonia, da quando mi hai proposto di venire, da tutta la tensione dei preparativi. Un giorno, sono venuti a chiedere chi dovesse essere avvisato in caso di morte, e la possibilità concreta ci ha colpito tutti. Più tardi, abbiamo imparato che era vero, che in una rivoluzione o si vince o si muore (se è una vera rivoluzione)”.
“Sento di aver compiuto il mio dovere verso la Rivoluzione cubana sul suo territorio e saluto voi, i miei compagni, il vostro popolo, che ora è il mio”.
“…credo di aver lavorato con sufficiente onestà e dedizione per consolidare il trionfo rivoluzionario”.
“…La mia unica colpa, di una certa gravità, è non aver avuto maggiore fiducia in te fin dai primi momenti della Sierra Maestra e di non aver compreso con sufficiente chiarezza le tue qualità di leader e di rivoluzionario”.
“Ho vissuto giorni magnifici e ho sentito al tuo fianco l’orgoglio di appartenere al nostro popolo durante i giorni luminosi e tristi della crisi caraibica. Raramente uno statista ha brillato più di allora. Sono anche orgoglioso di averti seguito senza esitazione, identificandomi con il tuo modo di pensare, di vedere e di apprezzare pericoli e principi”.
“Altre terre del mondo esigono il sostegno dei miei modesti sforzi. Posso fare ciò che a voi è negato dalla vostra responsabilità alla guida di Cuba, ed è giunto il momento per le nostre strade di separarci”.
“Sui nuovi campi di battaglia, porterò la fede che mi avete instillato, lo spirito rivoluzionario del mio popolo, il senso di adempimento del più sacro dei doveri: combattere contro l’imperialismo ovunque esso sia. Questo conforta e più che guarisce ogni angoscia”.
“Che se la mia ultima ora dovesse giungere sotto altri cieli, il mio ultimo pensiero sarà per questo popolo e soprattutto per voi. Che vi ringrazio per i vostri insegnamenti e il vostro esempio, ai quali cercherò di essere fedele fino alla fine delle mie azioni. Che mi sono sempre identificato con la politica estera della nostra Rivoluzione e continuo a esserlo.”
Come dimana dai contenuti selezionati dalla lettera emerge immediatamente una domanda: perché, durante il loro primo incontro, Fidel decise di proporre al Che di unirsi alla futura spedizione liberatrice? Quanto conosceva, in quell’istante, il giovane argentino, già noto ad alcuni esuli cubani che erano passati per il Guatemala, tra cui Ñico López? E cosa poté aver riferito Raúl Castro a Fidel su Ernesto, tale da facilitare quello storico incontro? Il fatto inequivocabile è che furono loro i due primi membri del futuro Granma.
Due fattori rendono difficile rispondere alla prima domanda: ciò che si dissero in quell’occasione non è mai trapelato, e la politica di integrazione della missione liberatrice non prevedeva l’incorporazione di stranieri. La proposta fatta al Che, quindi, emerse come una decisione di carattere eccezionale, oggi impossibile da documentare, ma sarebbe spiegabile a partire da:
a) i ripetuti esempi di lealtà e ammirazione reciproca;
b) la coincidenza politica e ideologica su temi centrali come l’antimperialismo e l’internazionalismo;
c) un comune modo di pensare e di agire in politica, fondato sulle esigenze, i bisogni e le aspettative del popolo.
Ma questo esercizio va oltre gli obiettivi del presente testo. Ciò che qui conta essenzialmente è che una decisione di carattere eccezionale rese possibile l’emergere di un simbolo dai molteplici significati: il Che. E uno di essi si espresse in un campo vitale per il presente della Rivoluzione cubana e dell’insieme delle forze rivoluzionarie: quello dell’etica politica.
Solo un esempio: in un mondo dominato dal pragmatismo, dall’individualismo e dalla ricerca del vantaggio personale a ogni costo, la rinuncia del Che a incarichi, gradi, affetti familiari e riconoscimenti spontanei di un popolo che lo ammirava, pur di seguire i propri ideali di lotta a favore di altri popoli, contrasta frontalmente con le tendenze descritte sopra e ci lascia un interrogativo: a cosa sono disposto a rinunciare per le mie convinzioni?
La domanda vale tanto al singolare quanto al plurale. E rimanda a Cuba e alla Rivoluzione, a ciò che entrambe richiederanno da ogni patriota sincero in un contesto esterno ostile e in uno interno che ha ancora molte correzioni da apportare, ma con un popolo organizzato come protagonista consapevole e decisivo.
La possibilità di perdere la vita, presente nella lettera a Fidel e in altre indirizzate, di egual forma, ai figli e ai genitori, rivela, ancora una volta, una personalità che trasformò la coerenza e il servizio agli altri in valori quotidiani. Per chi scrive ciò che spicca è la serena accettazione di una delle possibilità insite nella lotta rivoluzionaria — non una predisposizione al martirio, né tantomeno una visione fatalista.
In questo senso è toccante la lettera che egli scrive ai figli: all’inizio avverte che, “se un giorno dovessero leggere questa lettera, sarà perché io non sarò più tra voi”. Ma la conclude in modo commovente: “Hasta siempre, hijitos, espero verlos todavía” — “Addio per sempre, figli miei, ma spero di rivedervi ancora.”
Affrontare con serenità la possibilità della morte per una causa superiore non solo ispira il massimo rispetto, ma pone ogni cubano di fronte a una probabile alternativa: finché esisterà l’imperialismo, la sua unica soluzione sarà vedere il popolo cubano in ginocchio; ci saranno dunque seri pericoli da affrontare e bisognerà essere disposti a tutto per salvare e di migliorarla in tutto ciò che sia possibile con le proprie forze.
Due affermazioni del Che possono essere considerate modelli di modestia da preservare:
a) “Sento di aver compiuto la parte del mio dovere che mi legava alla Rivoluzione cubana sul suo territorio”;
b) “Credo di aver lavorato con sufficiente onestà e dedizione per consolidare il trionfo rivoluzionario”.
Entrambe vere, ma di una modestia estrema rispetto alla vastità dei suoi contributi alla Rivoluzione, tanto nella politica interna quanto nella fase fondativa delle proiezioni internazionali, statali e politiche di Cuba.
Non a caso, in entrambi i campi, egli fu per Fidel un interlocutore leale, colto e imprescindibile, dotato di un pensiero strategico capace di anticipare e segnalare contraddizioni che la storia avrebbe poi confermato. Non si esagera affermando che, per la validità delle sue idee politiche, ideologiche, economiche ed etiche, il Che sia uno dei pilastri teorici della Rivoluzione cubana [2] e un simbolo dell’unità tra parola e azione nei dirigenti rivoluzionari. Non a caso Fidel confessò a Gianni Minà che talvolta sognava di parlare ancora con lui.
Per il Che — tratto che Fidel doveva ammirare molto, poiché faceva parte della sua stessa etica politica — la critica e l’autocritica erano per la pratica rivoluzionaria ciò che l’aria è per respirare e vivere. Anche quando le cose andavano bene, entrambi cercavano come migliorarle: è ciò che propriamente sarebbe l’equivalente di “perfezionare”.
Questa pratica era legata a un altro valore centrale: la sincerità. Ciò spiega perché Fidel considerasse la frase del Che (“La mia unica colpa di una certa gravità è non aver avuto più fiducia in te sin dai primi momenti della Sierra Maestra…”) un eccesso di onestà.
L’essenziale si trova tuttavia nella frase seguente: (“…mi inorgoglisco di averti seguito senza esitazioni, identificandomi con il tuo modo di pensare e di valutare i pericoli e i principi”). Il senso di fedeltà che esprime questa affermazione è presente anche in un’altra lettera a Fidel, del 26 marzo 1965, di carattere personale, in cui il Che sente il dovere di condividere con lui le proprie preoccupazioni su questioni cruciali per la Rivoluzione, come la politica economica e il ruolo del Partito.
Questa seconda lettera, oltre che lucida e franca, ci obbliga oggi a porci una domanda per migliorare l’opera della Rivoluzione: come conciliare rigorosamente il senso guevariano della lealtà con l’esercizio martiano della critica — senza ferire, ma dando sempre priorità al bene comune?
Si può affermare senza timore d’errore che la lettera d’addio a Fidel — oggetto di queste riflessioni — e quella del 26 marzo costituiscono veri monumenti all’onestà e alla fiducia reciproca nei rapporti tra rivoluzionari.
In un contesto internazionale segnato dalla fase più violenta dell’imperialismo USA, sempre più fascista e distruttivo in ogni ambito, acquista rinnovata attualità questa espressione del Che: “Nei nuovi campi di battaglia porterò la fede che mi hai inculcato, lo spirito rivoluzionario del mio popolo, la sensazione di compiere con il più sacro dei doveri: lottare contro l’imperialismo dovunque esso si trovi.”
Mantenere salda questa proiezione antimperialista, unita all’esercizio coerente dell’internazionalismo difeso da Fidel Castro e dal Che, è oggi condizione imprescindibile per la sopravvivenza e il successo della Rivoluzione: le élite ultraconservatrici degli USA non desiderano una Cuba più democratica — tratto essenziale del socialismo che dobbiamo costruire —, bensì una Cuba inginocchiata e al loro servizio. Entrambi ne erano pienamente consapevoli: oggi continuano a illuminarci a partire da questa convinzione.
El adiós que resuena: la carta de despedida del Che a Fidel
Rafael Hidalgo Fernández
Hace sesenta años, en abril de 1965, Ernesto Che Guevara escribió una de las cartas más emblemáticas del siglo XX, la que dirigió a Fidel Castro a modo de despedida. Por los valores intrínsecos de ésta, debería ser objeto de relectura y reflexión periódicas. Pero no como un ejercicio de arqueología política, sino para encarar las contradicciones de nuestro tiempo y para responder algunas de las preguntas claves de éste, sobre todo en los campos de la ética y la política. En uno y otro, la carta interpela y obliga a meditar.
Con estilo impecable, en 605 palabras, el Che sintetiza su trayectoria cubana entre julio de 1955 y el momento de su partida hacia “otras tierras”, a fines de marzo de 1965. Y, además, aporta razones esenciales que ayudan a comprender el significado paradigmático que finalmente tuvieron sus relaciones con Fidel y con el pueblo cubano que, como él reconoce, “ya es mío”.
De principio a fin, cada énfasis y cada precisión del texto, inspira a conocer mejor por qué el Che fue acogido por ese pueblo como un hijo que jamás pierde la capacidad de sorprender en virtud de la validez intemporal de sus ideas, de la fuerza emanada de su coherencia y de su vida ejemplar, muy especialmente, como dirigente revolucionario que transformó la austeridad y el sacrificio cotidiano en sellos de identidad difíciles de igualar: dos razones que, por sí solas, explican por qué su figura interpela y compulsa tanto a los verdaderos revolucionarios, e irrita en igual medida a los que no lo son, aunque posen de tales.
La carta, leída por un Fidel visiblemente emocionado el 3 de octubre de 1965, no sólo marcó el fin de la presencia física del Che en la Revolución Cubana, como hombre de ideas avanzadas y constructor creativo e imprescindible, sino que también se convirtió en un símbolo de la lealtad revolucionaria, el internacionalismo y el compromiso antiimperialista, indispensables para la preservación de esta otra tríada: la Revolución, el Socialismo y la Independencia de Cuba en cualquier circunstancia.
Seis décadas después, el contenido del texto invita a profundizar, de manera particular, en los factores a partir de los cuales emergió, se desarrolló y consolidó una de las más hermosas y aleccionadoras relaciones de hermandad en el campo revolucionario, la de él con Fidel.
Identificar estos factores constituye una necesidad y un deber político e intelectual cuando no son pocos los silencios inexplicables en el campo revolucionario respecto a la vida y obra del Che, y cuando sobran las manipulaciones malintencionadas, sobre todo entre los enemigos de la Revolución Cubana, al abordar la relación entre éste y el líder al que siempre elogió con humildad, probablemente sin reparar en su propia grandeza.
Escrita durante la segunda quincena de marzo, previo a su salida de Cuba, la carta es entregada sin fecha el 1 de abril, a fin de que fuese divulgada en el momento adecuado. Ese momento se torna ineludible al producirse la clausura de la reunión constitutiva del actual Partido Comunista de Cuba, cuando es presentado su primer comité central.
En estas circunstancias era obligado explicar al pueblo por qué una figura emblemática e imprescindible para la victoria del primero de enero de 1959, y para la materialización de los cambios de los primeros 6 años de la Revolución en el poder, no figuraba como integrante del máximo órgano colegiado del nuevo partido. El hecho constituyó, además, la primera confirmación oficial de la razón histórica por la cual el Che había salido de Cuba. También representó el desmentido necesario a la cadena de especulaciones malsanas, promovidas al respecto por los enemigos de la Revolución.
Por su estilo sintético y sustantivo a la hora de plasmar por escrito sus vivencias, sus ideas y sus percepciones sobre la experiencia vivida en Cuba, merece ser compartida casi en su totalidad. Así lo demuestran las referencias que siguen, cuya secuencia de ideas se respeta:
“Me recuerdo en esta hora de muchas cosas, de cuando te conocí en casa de María Antonia, de cuando me propusiste venir, de toda la tensión de los preparativos. “…Un día pasaron preguntando a quién se debía avisar en caso de muerte y la posibilidad real del hecho nos golpeó a todos. Después supimos que era cierto, que en una revolución se triunfa o se muere (si es verdadera)”
“Siento que he cumplido la parte de mi deber que me ataba a la Revolución Cubana en su territorio y me despido de ti, de los compañeros, de tu pueblo que ya es mío”
“…creo haber trabajado con suficiente honradez y dedicación para consolidar el triunfo revolucionario…”
“…Mi única falta de alguna gravedad es no haber confiado más en ti desde los primeros momentos de la Sierra Maestra y no haber comprendido con suficiente claridad tus cualidades de conductor y de revolucionario”
“He vivido días magníficos y sentí a tu lado el orgullo de pertenecer a nuestro pueblo en los días luminosos y tristes de la crisis del Caribe. Pocas veces brilló más alto un estadista que en esos días, me enorgullezco también de haberte seguido sin vacilaciones, identificado con tu manera de pensar y de ver y apreciar los peligros y los principios”.
“Otras tierras del mundo reclaman el concurso de mis modestos esfuerzos. Yo puedo hacer lo que te está negado por tu responsabilidad al frente de Cuba y llegó la hora de separarnos”.
“En los nuevos campos de batalla llevaré la fe que me inculcaste, el espíritu revolucionario de mi pueblo, la sensación de cumplir con el más sagrado de los deberes: luchar contra el imperialismo donde quiera que esté, esto reconforta y cura con creces cualquier desgarradura”.
“Que si me llega la hora definitiva bajo otros cielos, mi último pensamiento será para este pueblo y especialmente para ti. Que te doy las gracias por tus enseñanzas y tu ejemplo al que trataré de ser fiel hasta las últimas consecuencias de mis actos. Que he estado identificado siempre con la política exterior de nuestra Revolución y lo sigo estando.”
Como dimana de los contenidos seleccionados, la carta obliga de inmediato a tratar de entender ¿por qué en la primera conversación entre ambos, Fidel decide proponerle al Che que fuera uno de los futuros integrantes de la expedición liberadora? ¿Cuánto conocía, en ese instante, sobre el joven argentino, ya familiar para algunos exiliados cubanos que habían pasado por Guatemala, entre ellos Ñico López? ¿Qué pudo haber expresado Raúl Castro a Fidel sobre Ernesto y por qué facilitó el histórico intercambio? El hecho inequívoco es que ellos fueron los dos primeros integrantes del futuro Granma.
Dos factores dificultan la respuesta a la primera pregunta: lo hablado in extenso entre ellos nunca ha trascendido y la política de integración de la misión liberadora no contemplaba la incorporación de extranjeros. La propuesta al Che, en consecuencia, emerge como una decisión de carácter excepcional, que hoy es imposible fundamentar a partir de fuentes documentales, aunque sí sería factible una aproximación a las razones que la originaron, a partir de:
- a) los ejemplos reiterados de lealtad y admiración mutua entre ellos; b) las posiciones políticas e ideológicas de idéntico contenido que tuvieron en temas centrales como el antiimperialismo y el internacionalismo; y c) si advertimos el modo común de razonar y actuar en política a partir de las demandas, las necesidades y las expectativas del pueblo.
Pero este ejercicio supera las exigencias del presente texto. Lo esencial aquí es que una decisión de carácter excepcional posibilitó que emergiese un símbolo con múltiples significados: el Che. Y que uno de ellos se expresó en un terreno vital para el presente de la Revolución Cubana y el conjunto de las fuerzas revolucionarias: el de la ética política.
Sólo un ejemplo: en un mundo dominado por el pragmatismo, el individualismo y la búsqueda del beneficio personal dentro del “vale todo”, la renuncia del Che a cargos y grados, al calor de su familia y a los reconocimientos espontáneos de un pueblo que le admiraba, con tal de seguir sus ideales de lucha a favor de otros pueblos, su decisión choca frontalmente con las tendencias arriba descritas y nos deja con esta interrogante: ¿a qué estoy dispuesto a renunciar por mis convicciones?
La pregunta vale tanto en singular como en plural. Y remite a Cuba y la Revolución, a lo que una y otra demandarán de cada patriota sincero en un contexto externo hostil, y a uno interno que tiene muchas rectificaciones propias que hacer, pero con el pueblo organizado como protagonista consciente y decisivo.
La posibilidad de perder la vida: aparece en la carta a Fidel y en otras que hace con igual carácter, a sus hijos y a sus padres. Lo que afirma al respecto remite, una y otra vez, a una personalidad que transformó la coherencia y el servicio a los demás en valores cotidianos. Para este observador, el rasgo que sobresale es la serena evaluación de una de las opciones posibles cuando se participa en una lucha revolucionaria, no una predisposición al martirio, ni menos aún una visión fatalista.
Es sugerente, en este sentido, la misiva que dirige a los niños: al principio advierte que, si “alguna vez tienen que leer esta carta, será porque yo no esté entre ustedes”. Pero la concluye de un modo que emociona y obliga a meditar: “Hasta siempre hijitos, espero verlos todavía”.
Enfrentar con serenidad la posibilidad de la muerte en aras de una causa mayor no sólo inspira máximo respeto, sino que nos coloca, como cubanos, ante una disyuntiva probable: es bueno no olvidar que mientras exista el Imperialismo la única solución de valor suficiente es ver al pueblo cubano de rodillas, habrá serios peligros a la vista y habrá que estar dispuestos a todo para salvar la obra creada, y para mejorarla en todo lo que sea posible con esfuerzos propios.
Dos afirmaciones podrían asumirse como referentes de modestia a preservar:
- a) “Siento que he cumplido la parte de mi deber que me ataba a la Revolución Cubana en su territorio”; y
- b) “…creo haber trabajado con suficiente honradez y dedicación para consolidar el triunfo revolucionario…”.
Ambas ciertas, pero modestas, en grado supremo, respecto al contenido multifacético de sus aportes a la Revolución, tanto en la política interna como en la fase fundacional de las proyecciones internacionales, estatales y políticas, de Cuba.
No por casualidad fue para Fidel, en uno y en otro campo, un interlocutor leal, culto e imprescindible, con un pensamiento estratégico que le permitió anticipar y advertir contradicciones que luego la vida confirmó. No se exagera en lo más mínimo si se afirma que por la validez de sus ideas en los planos político, ideológico, económico y ético, el Che es uno de los pilares teóricos, [2] de la Revolución Cubana y un símbolo de cómo se deben juntar, en la práctica, el decir y el hacer en los dirigentes revolucionarios. No por casualidad, Fidel expresó a Gianni Miná que a veces soñaba que estaba hablando con el Che.
Para éste — rasgo que Fidel debe de haber admirado mucho, pues era parte de su propia ética política — la crítica y la autocrítica eran para la práctica revolucionaria como el aire lo es para respirar y vivir. Aun cuando las cosas marchasen bien, uno y otro siempre buscaban cómo mejorarlas. Es lo que estrictamente sería equivalente a “perfeccionar”.
Esta práctica, de manera esencial, estaba asociada a otro valor central, la sinceridad. Ello explica que Fidel haya valorado esta afirmación (“…Mi única falta de alguna gravedad es no haber confiado más en ti desde los primeros momentos de la Sierra Maestra…”) como un exceso de honestidad del Che.
Lo esencial estaba y está, sin embargo, en la afirmación siguiente (“…me enorgullezco también de haberte seguido sin vacilaciones, identificado con tu manera de pensar y de ver y apreciar los peligros y los principios”). El sentido de fidelidad que esta expresión refleja está presente en otra carta a Fidel, la del 26 de marzo del propio 1965, concebida como personal, donde el Che se siente obligado a compartirle a éste el balance de sus preocupaciones sobre asuntos claves para la Revolución, como la política económica y la labor del Partido.
Esta segunda carta, además de lucidez y franqueza, obliga a que hoy nos hagamos esta pregunta para mejorar la obra de la Revolución: ¿cómo conciliar de manera estricta el sentido guevariano de la lealtad con el ejercicio martiano de la crítica: sin morder, dando siempre prioridad al bien común?
Se puede afirmar sin temor al error, que la carta de despedida a Fidel que ha concentrado la atención de estas notas, y la del 26 de marzo, constituyen verdaderos monumentos a la honestidad. Y también a la confianza mutua en el marco de las relaciones entre revolucionarios.
En un contexto internacional marcado por la fase más violenta del imperialismo estadounidense, con expresiones cada vez más fascistas y destructivas en todos los órdenes, cobra vigencia renovada esta expresión del Che: “En los nuevos campos de batalla llevaré la fe que me inculcaste, el espíritu revolucionario de mi pueblo, la sensación de cumplir con el más sagrado de los deberes: luchar contra el imperialismo donde quiera que esté…”.
Mantener firme esa proyección antiimperialista, de manera estrecha con el ejercicio consecuente del internacionalismo defendido por Fidel Castro y el Che, pasan a ser, en el contexto descrito, condición de sobrevivencia y desarrollo exitoso de la Revolución: las élites ultraconservadoras de los EEUU no quieren una Cuba más democrática (rasgo esencial del socialismo que necesitamos construir), sino una Cuba arrodillada y a su servicio. Ambos tenían absoluto convencimiento de ello: hoy nos iluminan también a partir de esta convicción.


