Il Venezuela sull’orlo di un’aggressione militare

L’amministrazione Trump ha già percorso la strada critica, comprese quelle di natura “legale”, per dare inizio all’aggressione contro il popolo venezuelano. L’unica cosa che resta da definire è quando.

Nella tarda serata dell’8 ottobre, durante una sessione del Senato USA, è stata approvata con un margine risicato, 51 a 48, l’autorizzazione richiesta dal governo federale per poter attuare questa aggressione, respingendo la proposta di risoluzione 83, presentata da un gruppo di senatori dell’opposizione che chiedevano lo smantellamento del dispositivo bellico dispiegato nei Caraibi.

Poche ore prima di questa votazione, in un frenetico trambusto cospiratorio, il segretario di Stato Rubio ha incontrato i senatori repubblicani coinvolti per comunicare loro a bassa voce che l’ordine di guerra contro i “narcos” sul territorio era stato dato dal capo Trump. E non su un territorio qualsiasi, ma proprio dove risiede l’inesistente cartello dei soli.

Prima di questa procedura nella Camera Alta, “gli astri” della guerra nel governo di Washington si stavano già allineando.

Nella stessa settimana è stata resa pubblica la presunta decisione di Trump di interrompere ogni contatto diplomatico con il Venezuela, che include il rifiuto di un’eventuale mediazione del Qatar, sono state rese note le dichiarazioni di Hegseth, capo del Dipartimento della Guerra, sul passaggio a una seconda fase “terrestre”, confermata con la sua autorità aggiuntiva da Trump stesso, durante la cerimonia per il 250° anniversario della Marina, alla base navale di Norfolk.

È coinvolto anche il Dipartimento di Giustizia che, come spesso accade, confonde la sua giurisdizione limitata al territorio statunitense con l’intero territorio americano. Hanno emesso quella che definiscono una “parere legale riservato” con cui “autorizzano attacchi a una lista segreta di cartelli”, non importa dove si trovino, si sente fuori microfono.

In coincidenza con quanto sopra, si è appreso qualcosa che non ha bisogno di spiegazioni, ovvero che “Trump ha ampliato i poteri della CIA per effettuare attacchi letali e operazioni sotto copertura” nella regione. In altre parole, tutti sono coinvolti, smettete di fare quello che avete fatto finora, dice il presidente dall’ufficio ovale, l’esercito, la marina, l’aviazione, le spie e anche i sabotatori. Tutto pronto contro il Venezuela.

Da dove viene tutta questa insolita fretta? Certamente il fattore tempo sta avanzando con crescente pressione contro coloro che hanno promosso l’attacco contro una nazione sovrana della Nostra America. Andiamo con ordine.

In primo luogo, a questo punto Trump non può continuare a eludere il suddetto permesso parlamentare, altrimenti sarebbe soggetto a gravi accuse e contestazioni per violazione della Costituzione.

Inoltre, ricordiamo che il 13 ottobre scadono i 60 giorni stabiliti dalla Legge sui poteri di guerra del 1973, che lo obbliga a iniziare il ritiro delle sue truppe invasori. Con il via libera del Senato, ottiene un certo, anche se discutibile, sostegno legale interno per intraprendere qualsiasi azione interventista, preferibilmente prima di lunedì 13.

Si aggiungono inoltre altre circostanze di ordine più socio-politico.

Ad esempio, all’inizio di settembre è stato reso noto un sondaggio della società internazionale di dati e opinione pubblica YouGov, ampiamente riconosciuta a livello globale (vedi: today.yougov.com), che mostra che il 53% della società statunitense è contrario a un’invasione del Venezuela e solo il 18% la sostiene, un sentimento maggioritario anche tra coloro che ammettono la loro affiliazione al partito repubblicano.

Da parte sua, un altro istituto di sondaggi, Bendix/Amandi, considerato uno dei più seri del Paese, ha indicato, con sorpresa di alcuni, che il 42% della popolazione della contea di Miami Dade, dove si concentra una parte della diaspora venezuelana, è contrario a un’aggressione al Venezuela, mentre il 35% la sostiene e il 23% non ha espresso alcuna opinione. logicamente, al di là dei tamburi di guerra suonati dall’estrema destra venezuelana, con particolare rumore nel sud della Florida, accompagnata dalla mafia cubano-americana locale, il cittadino medio non vuole che Caracas diventi una Gaza.

Una precisazione opportuna: sia YouGov che Bendix/Amandi non hanno alcun legame o rapporto di dipendenza con il governo bolivariano o qualcosa di simile al progressismo internazionale, il che è ovvio perché altrimenti non avrebbero il suddetto “riconoscimento”.

A ciò si aggiunge l’enorme spesa che comporta lo schieramento militare, che secondo i miei calcoli è già stata resa pubblica e ammonta a circa 1,5 miliardi di $ in tre mesi, e siamo già al secondo mese, in un contesto di chiusura del governo federale, in cui il Pentagono deve trovare il modo di pagare gli stipendi dei soldati invasori schierati, la logistica compromessa e persino le bare dei marines che molto probabilmente cadranno, annientati dalla resistenza bolivariana.

Come se questi elementi non bastassero, sono emersi con insolita copertura mediatica gli ostacoli “burocratici” imposti dal Congresso, promossi da alcuni legislatori democratici, contro il coinvolgimento di unità militari in un’avventura bellica.

Si parla di ostacoli “burocratici” perché l’argomento fondamentale addotto dai membri del Congresso contrari non era certo il rispetto della sovranità di un Paese della regione, né il fatto che un’incursione militare contro il Venezuela violasse palesemente il diritto internazionale, non solo quello statunitense, che ovviamente non è l’unico né il più importante per il resto del mondo.

Piuttosto, sia i rappresentanti democratici della Commissione Affari Esteri, sia i senatori dell’opposizione hanno concentrato il loro rifiuto sull’interesse a difendere le prerogative del Congresso, cercando di porre dei limiti alle libertà “irregolari” che Trump si sta spesso prendendo.

Inoltre, nel più profondo substrato politico, i democratici cercano con questo tema di contribuire a un’eventuale rottura tra la base MAGA che, come spiegato altre volte, intende il proprio nazionalismo con gli steroidi con il non coinvolgimento del Paese in operazioni contro altri.

Come è noto, questo sentimento, che ha le sue origini nel cosiddetto isolazionismo esistente fin dagli albori dell’imperialismo statunitense, è stato uno degli elementi più utilizzati nella campagna di Trump ed è alla base stessa del concetto di America First, fondamento quasi religioso dei maghi.

L’insistenza del presidente statunitense riguardo al Premio Nobel per la Pace, che include pressioni esercitate da Washington contro il comitato norvegese che assegna questo premio, dimostra la preoccupazione di vendere alla base trumpista l’idea che il loro leader sia un paladino della pace mondiale, in linea con le promesse elettorali.

Come parte di questo processo contraddittorio, gli osservatori locali avvertono che “il vespaio interno statunitense è in fermento”, assicurando che anche nel settore militare cresce una certa “vergogna e indignazione” per il modo in cui Trump si vanta degli omicidi di stranieri “come politica di Stato”, con l’uso di navi iper-armate contro minuscole presunte imbarcazioni di narcotrafficanti.

Inoltre, e sebbene sia evidente che all’inquilino della Casa Bianca importi poco o nulla dell’opinione pubblica internazionale, è evidente che si respira un crescente disgusto nei confronti dell’arroganza imperiale, alimentato dal genocidio sfacciato di Israele a Gaza.

A ciò si aggiunge il fatto che esiste già una forte contrarietà nei confronti dei gesti e del permanente stato di finta irritazione nei confronti del resto del mondo da parte di Trump. In questo clima, circa 60 ONG di prestigio internazionale si uniscono alla denuncia contro il pericolo che incombe sul Venezuela.

In sintesi, la gente comune non tollera più la guerra, sia in Europa, sia nella nostra America, sia ai confini del mondo, laggiù a Canberra; la crudeltà sionista ha scatenato una ribellione popolare globale e, come è stato espresso sia dai partecipanti, sia dalle rivendicazioni, sia dall’estetica delle proteste, queste stanno cominciando ad assumere un carattere classista, contro le élite al potere e contro gli oligarchi dei cannoni e dei manganelli della polizia.

Per tutto quanto sopra e per altre ragioni che non sono nemmeno visibili, la verità è che si sta riducendo il margine di manovra a disposizione dell’amministrazione affinché l’operazione dispiegata nei Caraibi esegua le istruzioni per cui è stata mobilitata: invadere il territorio venezuelano.

Ci sono speculazioni di ogni tipo sulla portata dell’attacco. Per precauzione, il ministro della Difesa bolivariano denuncia esplicitamente azioni che vanno dall’assassinio di un alto dirigente chavista alla distruzione di infrastrutture vitali come la produzione di gas, il sistema elettrico venezuelano, le fonti di approvvigionamento idrico e qualsiasi altra cosa che metta a repentaglio la qualità della vita delle famiglie venezuelane.

E naturalmente non si esclude l’incursione di super truppe, super addestrate, di super marines in modalità anfibia, o mercenari locali sotto copertura, per conto della CIA e di altri servizi statunitensi, che di solito praticano il terrorismo di Stato su richiesta di Washington, in paesi terzi.

Nel frattempo, il governo bolivariano, il chavismo e tutto il popolo venezuelano hanno anche percorso la loro strada critica, per aumentare la disponibilità alla lotta e consolidare i sentimenti patriottici.

Prova di ciò sono le successive esercitazioni militari, la messa a punto della tecnologia missilistica e aeronavale o, cosa più importante, la massiccia mobilitazione popolare in un altro tipo di addestramento, democratico e autentico: portare i miliziani nelle caserme e i militari nelle comunità, in una formidabile e probabilmente inespugnabile simbiosi difensiva.

In questo contesto e in risposta all’aggravarsi del pericolo, il presidente Maduro ha annunciato l’attivazione del “Piano Indipendenza 200”, aumentando lo schieramento di forze missilistiche, droni, la chiusura parziale dell’accesso principale a Caracas proveniente dai Caraibi, nonché l’immediata mobilitazione in stato di guerra delle unità delle Forze Armate Nazionali Bolivariane e della Milizia Nazionale.

Sul piano diplomatico, il Venezuela ha formalmente richiesto una riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per denunciare quello che sembra essere un attacco imminente al suo territorio da parte delle forze statunitensi schierate nel sud dei Caraibi.

Nel frattempo, il Consiglio della Federazione Russa ratifica un accordo di cooperazione militare con il Venezuela, come risposta “simmetrica” alla minaccia proveniente dagli Stati Uniti di fornire missili Tomahawk a Kiev; ciò significa che la Russia può dispiegare qualsiasi sistema difensivo in Venezuela, previo coordinamento con le autorità locali. Come si può vedere, la situazione ricorda la storica crisi dei missili o crisi di ottobre del 1962.

Le carte sono state scoperte. Qualunque sia l’esito, il primo venezuelano ucciso o il primo marine annientato, la responsabilità ricade in primo luogo sul segretario di Stato Rubio. Ma il segretario deve prendere molto sul serio quell’avvertimento, attribuito allo statista tedesco Otto von Bismarck, secondo cui si sa quando e come iniziano le guerre, ma non come finiscono, e questa operazione di “cambio di regime” potrebbe benissimo costargli il futuro.

L’ultima dichiarazione del Ministero degli Affari Esteri di Cuba, rilasciata il 9 ottobre, recita: “Cuba lancia un nuovo appello per mobilitare la comunità internazionale al fine di fermare l’azione bellica contro il Venezuela”, concludendo che “ancora una volta dichiariamo il nostro fermo e incrollabile sostegno al governo bolivariano”…. Per ora è tutto detto.

Fonte: CubaSi

Traduzione: italiacuba.it

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