L’anti-imperialismo non è un tovagliolo

Luis Toledo Sande https://lapupilainsomne.wordpress.com

treIn risposta ad un avversario -su cui non si soffermerà questo articolo, tra le altre ragioni perché ha già meritato molte altre confutazioni-, Atilio Boron ha fatto riferimento all’America Latina e Caraibi e, nell’area, a “settori minoritari della nostra società che ancora credono nell’eternità e nel carattere inespugnabile dell’impero americano, come se fosse una maledizione biblica d’inesorabile concrezione”.

Indipendentemente dall’uso di americano per statunitense -uso incorretto che comunemente passa come se fosse una minuzia lessicale, ma provoca una grossa confusione concettuale- le parole del sociologo argentino meritano attenzione. Lui somma la sua voce a coloro che ci hanno avvertito ed avvertono contro una pericolosissima realtà, segnata dal potere dei mezzi di (dis)informazione dominanti, e dall’inerzia con cui spesso si accetta ciò che essi propalano, accettazione che debilita le forze chiamate ad affrontarli con determinazione nella lotta contro l’imperialismo.

Neanche Cuba, forgiata nella lotta contro gli imperi, e che ancora continua a rimane in piedi per la sua resistenza a ciò che ha il quartier generale negli USA, si libera che si aggiunga all’erronea prospettiva confutata da Boron. Che pure in territorio cubano ci siano quelli che, anche siano una minoranza, considerano l’imperialismo come un ente eterno, lo mostrano alcuni segnali: si deve del tutto escludere che si tratti di un culto cosciente o incosciente per gli USA, e la presunta menzionata eternità, la presenza della sua bandiera in media e contesti vari? Un esempio dell’accettazione della supposta eternità dell’imperialismo irruppe in un documentario incluso nella Tavola Rotonda televisiva lo scorso 18 novembre.

Nutrito di interviste di strada, e lì esibito in funzione del tema trattato – l’anti-imperialismo e la sua importanza, in particolare per la nazione cubana-, nel documentario primeggiano evidenti dimostrazioni della chiarezza nella comprensione popolare di questa vitale questione ed appare anche qualche idea che va in altro verso. Tale è il caso di un intervistato a cui si domanda il ruolo che potesse avere l’anti-imperialismo, perché, a suo avviso, l’imperialismo esisterà sempre. Niente meno che sempre!

In un paese dove -per grandi che siano stati gli errori nell’insegnare la storia- si sono raggiunti indici di istruzione tanto elevati che lo hanno riconosciuti persino istituzioni internazionali insospettabili di voler ingraziarsi un governo di segno comunista, un fatto dovrebbe essere di generale conoscenza: dalla nascita dell’umanità, passando per la comunità primitiva, la schiavitù ed il feudalesimo, nessuna formazione economico-sociale è stata eterna. Affinché l’eccezione fosse il capitalismo, con la sua fase imperialista, l’umanità dovrebbe anche essere eterna, e questo difficilmente si raggiungerà se si perpetra un modo di produzione e di sfruttamento tanto predatore come questo.

Ma è sufficiente che qualcosa non esista affinché non esista il suo contrario? Se l’imperialismo scomparisse e lo sostituisse una società portatrice di giustizia, sarebbe questa una ragione sufficiente perché l’anti-imperialismo si estinguesse? Se non si coltivano le idee e le pratiche necessarie, affinché non risorgesse un male, ciò terrebbe aperte le porte -le condizioni- per ritornare. E’ qualcosa così applicabile ai problemi sociali come alla salute del corpo. Se si dimenticano e non si attuano misure in modo che non risorga una malattia già debellata, questa può rinascere. Ma il pensiero contrario può concernere, esso stesso, realtà che non siano esistite -non, almeno, completamente- in nessuna parte del pianeta. Lo sanno bene, e lo maneggiano con astuzia, gli agenti dell’anticomunismo, che investono ingenti risorse nell’impedire che l’utopia comunista giunga al successo, anche se neppure il socialismo lo abbia conseguito nella sua pienezza.

Ma ci sono quelli che si offrono ad essere preda delle confusioni, o oggettivamente lo sono, e giungono a dare per scontato che l’imperialismo cambia la sua natura oppressiva o rinuncia ad essa col solo annunciare che cambia o dandosi una modificazione cosmetica. Se, per esempio, qualcuno scrive sulle somiglianze tra la realtà politica e sociale degli USA, che José Martí denunciò così lucidamente, e ciò che sta accadendo lì oggi, non mancherà chi protesta e dica che ora quel paese è diverso, un altro perché ha un elettorato, un’economia ed un diverso sviluppo tecnologico ed il presidente può essere “nero” o donna.

Sarebbe ridicolo ignorare i cambi in quella società, e non solo in essa, ma la tendenza a credere che le modifiche di fatto l’hanno trasformata, essenzialmente, nella sua natura sociale sarà solo il risultato di un’incapacità di analisi che impedisce andare oltre il curiosare nell’informazione senza calare nella sostanza dei fatti ? Non potrebbe anche essere opera del desiderio di lasciarsi confondere, della disposizione ad edulcorare la realtà, a prendere il fenomenico o l’aneddotico come se fosse essenziale?

Non è scopo di questo articolo svalutare chicchessia. Piuttosto quello che potrebbe personalmente rattristare l’autore radica nel fatto che i giudizi come quello che termino di confutare sono sbagliati, perché chi non vorrebbe svegliarsi un giorno e imbattersi nel fatto che l’imperialismo è cambiato interiormente e lasciato il posto, senza procedure cruente, ad un sistema di giustizia? Solo che non sembra molto sensato confondere realtà e desiderio. Né la sua forte crisi sistemica autorizza a vaticinare una fine vicina: a forza di aver protetto le sue riserve naturali saccheggiando altri popoli, potrebbe ancora durare per chissà quanto tempo, e -lo disse un rivoluzionario che si è voluto silenziare, ma la realtà è più forte che i tappa bocche e tappa pagine- nelle sue agonie potrebbe essere ancora più pericoloso che nei suoi anni di maggiore potere.

Per ora, la donna che -come altro sintomo di cambiamento- si prevedeva prima presidentessa USA ha perso in un incontro di pugilato tra vipere, anche se intorno a lei si erano sollevate infondate aspettative trattandosi di un’attiva interventista con vocazione criminale: della segretaria di Stato che fu parla all’oscuro il suo atteggiamento in Libia, dove grottescamente celebrò l’esecuzione del governante deposto dall’intervento della NATO, a cui applaudirono, detto per inciso, “sinistri” come quello smentito da Boron.

Tale donna venne sconfitta da uno yankee maschio, bianco, ricattatore, milionario, fascistoide, di cattivo gusto visibile nei suoi sperperi di ostentazione e persino nella sua ridicola acconciatura. Un neroniano dal midollo. Questo negoziante – di cui si è detto che ha trionfato contro l’establishment, quando nel fondo consolida il più scuro di questo, se c’è nella nella politica di quella nazione qualcosa di più chiaro che la malvagità-, continua l’era Bush, non la sua controparte formale, caratterizzata dall’eleganza ed il fascino ingannevole, e piena di genocidi internazionali e bugie. Questa è ciò che personifica un Barack Obama a cui è stato regalato, prematuramente e senza vergogna, il premio Nobel per la Pace per continuare a fare guerre aiutato da truppe terroristiche. La Siria -Aleppo, in particolare- è una prova categorica ma, non in modo remoto, l’unica.

Oltre alle sfumature personali, poste al servizio dell’impero, che i tre hanno rappresentato o rappresentano, Obama fece, ed Hillary Clinton avrebbe fatto -lo fece nelle sue funzioni precedenti – e che Donald Trump farà ciò che permettano od ordinino di fare i proprietari del paese, e questi si comportano come si accomodino o immischino nelle circostanze nazionali ed internazionali. Oggi come oggi, tra i detti padroni predominano i maggiori boss trasnazionali della morte: il consorzio bellico militare.

Oramai si va apprezzando che, almeno nell’immagine, il grossolano Trump è meno pericoloso di Obama. In “Sì, Obama è meglio di Bush”, pubblicato all’inizio del 2010, l’autore di questo articolo sosteneva che Bush era peggio, per più grossolano e anche neroniano, che il suo elegante ed eloquente sostituto. Ma perciò quest’ultimo era più pericoloso. Le sue qualità le poneva al servizio dello stesso impero, al renderlo più sopportabile e che si potessero accettare i suoi legami, i suoi ultimatum guerrafondai, con meno complesso di colpa.

Signore della “sinistra” europea sospiravano e si dichiaravano incapaci di essere critiche rispetto all’affascinante Presidente – molto più consumato attore che Ronald Reagan – e politici di quella stessa “sinistra” applaudivano che la potenza USA recuperasse la leadership mondiale che perdeva con George W. Bush. Questo’ultimo alcuni lo consideravano stupido anche se – pur senza smettere di esserlo- al sembrarlo poteva anche esercitare doti istrioniche.

Che Obama fosse più pericoloso di Bush, e forse il presidente più pericoloso di quella nazione, almeno da John F. Kennedy in qua, lo ha ribadito in diversi modi l’articolista dopo i famosi e, senza dubbio, importanti annunci contemporaneamente fatti a l’Avana ed a Washington il 17 dicembre 2014. Non mancò, allora, chi reagì angosciato o arrabbiato con l’ “impertinente” reiterazione proprio dei guastafeste. Come non arrendersi, davanti la “bontà” espressa dal Cesare! Non sarà di troppo ricordare che – come disse un torero a Jose Ortega y Gasset – “C’è gente disponibile a tutto”, anche ad illudersi a dismisura ed a lasciarsi ingannare volontariamente.

Chiaro che per Cuba era e rimane un desideratum, e merita che questo si faccia realtà piena, di vedersi liberi dal blocco, che le si restituisca il territorio di Guantanamo occupato dagli USA da più di un secolo e che – come parte di una normalizzazione delle relazioni che permane fondamentalmente nel degno regno dell’utopico, anche se non impossibile ottenerla- cessino le pratiche discriminatorie, aberranti come la cosiddetta legge di aggiustamento cubano. Chi potrebbe negare che questo desideratum è degno e giusto?

Ma Obama è stato sincero sino alla sfacciataggine nelle sue dichiarazioni: si doveva cambiare tattica contro Cuba, perché il blocco non l’aveva piegata, neanche isolata, e sì isolavano gli USA in America Latina e nei Caraibi. Inoltre lo fu nei fatti: della sua visita a L’Avana – dove entrò divertente nelle case del paese dalla televisione nazionale che allo stesso tempo diffondeva la sua immagine mentre godeva, al Gran teatro, di un consenso che lui, in base non solo a questo articolista, non meritava – partì per Buenos Aires, per rafforzare le modalità per riallacciare alla nostra America e continuare a provare a neutralizzare Cuba.

Ditelo, altrimenti come, tra gli altri, quelli visti nella stessa Argentina ed in Brasile, e Venezuela, dove se il governo costituzionale e progressista si è mantenuto contro feroci venti e maree si deve ad un fatto fondamentale: è il risultato del molto e buono seminato dal bolivarismo chavista capace di resistere ai brutali assalti, nonostante le ingratitudini, tradimenti ed, in particolare le manovre dell’oligarchia interna sostenuta dall’imperialismo e dei suoi servi internazionali. Ciò che lì le forze della reazione cercano non è lontano da quanto cercarono, e nel 1973 ottennero, in Cile.

Se manovre e menzogne di Obama a livello mondiale sono, per coloro che le vogliono vedere, lampanti, per quanto riguarda Cuba -cioè, la revoca del blocco e la normalizzazione dei rapporti tra i due paesi- il presidente imperiale uscente lascia la realtà non poi così lontano da dove era quel 17 dicembre. Compresa la creazione di ambasciate in cui quella dell’impero era asimmetricamente senza ambasciatore per lungo tempo, i passi positivi sono molto insufficienti. Diversi osservatori valutano una realtà: il governante che in campagna elettorale sostenne, per la propria nazione, un cambio che non arrivò a definire in cosa consisteva, e tante promesse non adempì, non usò tutte le prerogative a sua disposizione per normalizzare le relazioni con Cuba.

Ciò che potrebbe accadere, da ora, è apparentemente nelle mani del nuovo Cesare. Ma sarebbe un altro segno di ingenuità attribuirgli tutto il ruolo svolto da individui, siano essi importanti quanto siano. Se si tratta dell’imperialismo la vita conferma che il fattore determinante risiede nella natura vorace, bellicista, di un sistema che, come quelli che lo hanno preceduto, avrà una fine. E solo cessando di esistere potrà rinunciare alla sua essenza.

Per un popolo che deve continuare a resistere, e vincere, per salvare la sua sovranità, la sua esistenza come nazione, il suo diritto a costruirsi il presente ed il futuro, né l’imperialismo né l’anti-imperialismo sono incidenti. E l’antimperialismo è un’opzione che non deve essere confusa con un tovagliolo usato per la tavola e poi gettato come qualcosa d’inutile.

Neppure l’imperialismo è recuperabile, anche se gode di cicli di adattamento per conservare il suo potere. Opporglisi non è il risultato fondamentalmente di prediche, per quanto elevate queste siano, ma conseguenza della natura di un sistema contro il quale si erge l’etica. Il Martí che insegnò: “Vedere nella calma un crimine, è commetterlo” fu l’iniziatore dell’antimperialismo che, abbracciato da leader come Julio Antonio Mella, Ruben Martinez Villena, Antonio Guiteras e Fidel Castro, ha messo radici nella maggior parte del popolo cubano.

El antimperialismo no es una servilleta

por Luis Toledo Sande

En respuesta a un adversario —en quien no se detendrá este artículo, entre otras razones porque ya ha merecido muchas refutaciones más—, Atilio Boron se ha referido a la América Latina y el Caribe y, en el área, a “sectores minoritarios de nuestras sociedades que todavía creen en la eternidad y el carácter inexpugnable del imperio americano, cual si fuera una maldición bíblica de inexorable concreción”. Sin reparar en el empleo de americano por estadounidense —uso incorrecto que comúnmente pasa como si fuera una minucia léxica, pero acarrea una gruesa confusión conceptual—, las palabras del sociólogo argentino merecen atención. Él suma su voz a las que han advertido y advierten sobre una realidad peligrosísima, signada por el poderío de los medios (des)informativos dominantes, y por la inercia con que a menudo se acepta lo que ellos propalan, aceptación que debilita a las fuerzas llamadas a enfrentarlos resueltamente en la lucha contra el imperialismo.

Ni siquiera Cuba, fraguada en lucha contra imperios, y que sigue en pie por su resistencia frente al que tiene cuartel general en los Estados Unidos, se libra de que asome la errónea perspectiva refutada por Boron. Que también en territorio cubano hay quienes, aunque sean minoritarios, consideran al imperialismo como un ente eterno, lo muestran algunas señales: ¿se debe descartar del todo que sea un culto consciente o inconsciente a los Estados Unidos, y la presunta eternidad mencionada, la presencia de su bandera en soportes y contextos varios? Un ejemplo de la aceptación de la supuesta eternidad del imperialismo irrumpió en un documental incluido en la Mesa Redonda televisual el pasado 18 de noviembre.

Nutrido de entrevistas callejeras, y exhibido allí en función del tema tratado —el antimperialismo y su importancia en particular para la nación cubana—, en el documental priman rotundas muestras de claridad en el entendimiento popular de tan vital asunto, y también aparece alguna idea que va por otro camino. Tal es el caso de un entrevistado que se cuestiona el papel que pudiera tener el antimperialismo porque, a su juicio, el imperialismo existirá siempre. ¡Nada menos que siempre!

En un país donde —por grandes que hayan sido los errores al enseñar la historia— se han logrado índices de instrucción tan altos que los han reconocido hasta instituciones internacionales insospechables de querer congraciarse con un gobierno de signo comunista, un hecho debería ser de conocimiento general: desde el surgimiento de la humanidad, pasando por la comunidad primitiva, la esclavitud y el feudalismo, ninguna formación económico-social ha sido eterna. Para que la excepción fuera el capitalismo con su fase imperialista, la humanidad debería ser eterna también, y ello difícilmente se logrará si se perpetúa un modo de producción y de explotación tan depredador como ese.

Pero ¿basta que algo no exista para que no exista su contrario? Si el imperialismo desapareciera y lo sustituyese una sociedad portadora de justicia, ¿sería esa una razón suficiente para que el antimperialismo se extinguiera? Si no se cultivan las ideas y las prácticas necesarias para que no resurja un mal, este tendría abiertas las puertas —las condiciones— para volver. Es algo tan aplicable a los problemas sociales como a la salud corporal. Si se olvidan y se incumplen medidas que deben mantenerse para que no resurja una enfermedad ya erradicada, esta puede brotar nuevamente. Pero el pensamiento anti- puede concernir asimismo a realidades que no hayan existido —no, al menos, plenamente— en ninguna parte del planeta. Lo saben bien, y lo manejan con astucia, los agentes del anticomunismo, quienes invierten grandes recursos en impedir que la utopía comunista llegue a triunfar, aunque ni el socialismo lo haya conseguido en plenitud.

Pero hay quienes se ofrecen para ser presa de las confusiones, u objetivamente lo son, y llegan a dar por sentado que el imperialismo cambia su naturaleza opresora o renuncia a ella con solo anunciar que cambia o darse una modificación cosmética. Si, por ejemplo, alguien escribe sobre las similitudes entre la realidad política y social de los Estados Unidos que José Martí denunció con tanta lucidez y lo que allí ocurre hoy, no faltará quien proteste y diga que ya ese país es diferente, otro, porque tiene un electorado, una economía y un desarrollo tecnológico distintos y el presidente puede ser “negro” o mujer.

Sería ridículo ignorar los cambios ocurridos en esa sociedad, y no solo en ella, pero la tendencia a creer que los cambios factuales la han transformado esencialmente en su naturaleza social ¿será solamente fruto de una incapacidad de análisis que impide ir más allá de ramonear en la información sin calar en los hechos medulares? ¿No pudiera también ser obra del deseo de dejarse confundir, de la disposición a edulcorar la realidad, a tomar lo fenoménico o anecdótico como si fuera esencial?

No es propósito de este artículo devaluar a nadie. Más bien lo que personalmente podría entristecer al autor radica en que juicios como el que acaba de refutar son erróneos, porque ¿quién no quisiera amanecer un día y toparse con que el imperialismo ha cambiado de entraña y dado paso, sin trámites cruentos, a un sistema justiciero? Solo que no parece muy sensato confundir realidad y deseo. Ni su fuerte crisis sistémica autoriza a vaticinarle un final cercano: a fuerza de haber protegido sus reservas naturales saqueando a otros pueblos, aún pudiera durar quién sabe cuánto, y —lo dijo un revolucionario a quien se ha querido silenciar, pero la realidad es más fuerte que tapabocas y tapapáginas—, en sus estertores pudiera ser todavía más peligroso que en sus años de mayor poderío.

Por lo pronto, la mujer que —como otro síntoma de cambio— se preveía posible primera presidenta de los Estados Unidos perdió en un pugilato de víboras, aunque en torno a ella se habían levantado expectativas infundadas tratándose de una intervencionista activa con vocación criminal: de la secretaria de Estado que fue habla a las oscuras su actitud en Libia, donde celebró grotescamente la ejecución del gobernante depuesto por la intervención de la OTAN, la que aplaudieron, dicho sea de paso, “izquierdistas” como el refutado por Boron.

A esa mujer la derrotó un yanqui varón, blanco, atorrante, millonario, fascistoide, de mal gusto visible en sus derroches de ostentación y hasta en su ridículo peinado. Un neroniano desde la médula. Ese negociante —de quien se ha dicho que triunfó electoralmente contra el establishment, cuando en el fondo apuntala lo más oscuro de este, y en lo más oscuro se afinca él, si es que hay en la política de aquella nación algo más claro que la maldad—, da continuidad a la era Bush, no a su contrapartida formal, marcada por la elegancia y el encanto engañosos, y llena también de genocidios internacionales y mentiras. Esta es la que personifica un Barack Obama a quien le regalaron prematura y desvergonzadamente el Premio Nobel de la Paz para que siguiera haciendo guerras auxiliado por tropas terroristas. Siria —Alepo en particular— es una prueba categórica, pero ni remotamente la única.

Al margen de matices personales puestos al servicio del imperio que los tres han representado o representan, Obama hizo, e Hillary Clinton habría hecho —lo hizo en sus anteriores funciones— y el tal Donald Trump hará lo que le permitan u ordenen hacer los dueños del país, y estos actúan según se acomoden o se revuelvan dentro de las circunstancias domésticas e internacionales. Hoy por hoy, entre dichos dueños predominan los mayores capos trasnacionales de la muerte: el consorcio bélico-militar.

Ya se va apreciando que, al menos en imagen, el burdo Trump es menos peligroso que Obama. En “Sí, Obama es mejor que Bush”, publicado a inicios de 2010, el autor del presente artículo sostuvo que Bush era peor, por más basto y también neroniano, que su elegante y elocuente relevo. Pero por ello este último resultaba más peligroso. Sus cualidades las ponía al servicio del mismo imperio, para hacerlo más llevadero y que se pudieran aceptar sus coyundas, sus ukases guerreristas, con menos complejo de culpa.

Damas de la “izquierda” europea suspiraban y se declaraban incapaces de ser críticas con respecto al encantador presidente —mucho más consumado actor que Ronald Reagan—, y políticos de esa misma “izquierda” aplaudían que la potencia estadounidense recuperase el liderazgo mundial que perdía con George W. Bush. A este algunos lo tenían por estólido, aunque —sin dejar de serlo— al parecerlo podía también ejercer dotes histriónicas.

El que Obama era más peligroso que Bush, y acaso el presidente más peligroso de aquella nación por lo menos de John F. Kennedy para acá, lo reiteró de distintos modos el articulista a raíz de los célebres y, a no dudarlo, importantes anuncios hechos simultáneamente en La Habana y en Washington el 17 de diciembre de 2014. No faltó entonces quien reaccionara azorado o colérico ante la “impertinente” reiteración, propia de aguafiestas. ¡Cómo no rendirse sin más ante “la bondad” expresada por el césar! No saldrá sobrando recordar que —como le dijo un torero a José Ortega y Gasset— “hay gente pa’to”, incluso para ilusionarse hasta la desmesura y dejarse engañar voluntariamente.

Claro que para Cuba era y sigue siendo un desiderátum, y merece que este se haga realidad plena, verse libre del bloqueo, que se le devuelva el territorio de Guantánamo ocupado por los Estados Unidos hace más de un siglo y que —como parte de una normalización de relaciones que permanece fundamentalmente en el digno reino de lo utópico, aunque no sea imposible lograrla— cesen prácticas discriminatorias, aberrantes, como la denominada ley de ajuste cubano. ¿Quién pudiera negar que ese desiderátum es digno y justo?

Pero Obama fue sincero hasta la desfachatez en sus declaraciones: había que cambiar la táctica contra Cuba, porque el bloqueo no la había doblegado, ni siquiera aislado, y sí aislaba a los Estados Unidos en la América Latina y el Caribe. También lo fue en hechos: de su visita a La Habana —donde entró de chistoso en los hogares del país por la televisión nacional, que asimismo difundió su imagen mientras disfrutaba, en el Gran Teatro, de una concurrencia que él, a juicio no solo de este articulista, no merecía— partió a Buenos Aires, para reforzar modos de reatar a nuestra América y seguir intentando neutralizar a Cuba.

Díganlo, si no, hechos como, entre otros, los vistos en la propia Argentina y en Brasil, y en Venezuela, donde si el gobierno constitucional y progresista se ha mantenido contra vientos y mareas feroces se debe a un hecho fundamental: es fruto de lo mucho y bueno sembrado por el bolivarianismo chavista, capaz de resistir brutales embestidas a pesar de ingratitudes, traiciones y, sobre todo, maniobras de la oligarquía interna aupada por el imperialismo y sus servidores internacionales. Lo que allí las fuerzas de la reacción buscan no dista de lo que buscaron y en 1973 consiguieron cruentamente en Chile.

Si maniobras y mentiras de Obama en el plano mundial son, para quienes quieran ver, palmarias, con respecto a Cuba —es decir, al levantamiento del bloqueo y a la normalización de relaciones entre ambos países—, el presidente imperial saliente deja la realidad no tan lejos de donde estaba aquel 17 de diciembre. Incluyendo el establecimiento de embajadas en las cuales la del imperio estuvo asimétricamente sin embajador durante un largo trecho, los pasos positivos son harto insuficientes. Diversos observadores aprecian una realidad: el gobernante que en campaña electoral abogó, para su propia nación, por un cambio que no llegó a definir en qué consistía, y tantas promesas incumplió, no usó todas las prerrogativas a su alcance a para normalizar las relaciones con Cuba.

Lo que pudiera ocurrir a partir de ahora queda aparentemente en manos del nuevo césar. Pero sería otra muestra de ingenuidad atribuirlo todo al papel desempeñado por individuos, sean estos lo importantes que puedan ser. Si se trata del imperialismo, la vida confirma que lo determinante radica en la naturaleza voraz, belicista, de un sistema que, como los que le han precedido, tendrá su final. Y solo dejando de existir podrá renunciar a su esencia.

Para un pueblo que debe seguir resistiendo, y vencer, para salvar su soberanía, su existencia como nación, su derecho a labrarse el presente y el futuro, ni imperialismo ni antimperialismo son accidentes. Y el antimperialismo es una opción que no cabe confundir con una servilleta que se usa a la mesa y luego se tira como algo inútil.

Tampoco el imperialismo es recuperable, aunque disfrute de ciclos de adaptación para conservar su poder. Oponérsele no es resultado básicamente de prédicas, por muy elevadas que estas sean, sino consecuencia de la naturaleza de un sistema contra el cual se yergue la ética. El Martí que enseñó: “Ver en calma un crimen, es cometerlo”, fue el iniciador del antimperialismo que, abrazado por líderes como Julio Antonio Mella, Rubén Martínez Villena, Antonio Guiteras y Fidel Castro, arraigó en la mayoría del pueblo cubano.

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