Aspetti chiave della fallita rivoluzione colorata in Nicaragua

William Serafino http://www.nicaleaks.com

Sono già vari giorni di violente dimostrazioni nella nazione centroamericana. Sia il profilo del messaggio politico che il comportamento dei media, oltre l’uso di metodi insurrezionali di protesta e per la stessa storia di un paese occupato ed in cui, in diverse occasioni, sono intervenuti gli USA indicano che siamo in presenza di un nuovo tentativo di cambo di regime sotto il formato di rivoluzione colorata. Per quanto riguarda gli obiettivi e la loro pragmatica globale, nulla di nuovo. Minare la pace del Nicaragua e fabbricare le condizioni interne per una fase di persecuzione geopolitica, si disegnano come le finalità immediate dell’operazione.

Insorgenza 2.0

 

Roberto López, presidente dell’Istituto Nicaraguense per la Sicurezza Sociale, ha annunciato, lunedì 16 aprile, una serie di riforme volte ad aumentare il contributo dei lavoratori e dei datori di lavoro alla sicurezza sociale; ha anche riferito sulla creazione di un tributo speciale alle pensioni del 5%.

Il Consiglio Superiore dell’ Impresa Privata (COSEP) è stata la prima organizzazione di peso a respingere gli annunci poiché generava “incertezza” e limitava la creazione di posti di lavoro da parte del settore privato.

Che specificatamente questo settore sia stato il primo a lamentarsi dovrebbe dirci molto sul corpo di “richieste” ed interessi che, inizialmente, hanno promosso le manifestazioni. Un evidente esercizio di solidarietà di classe. Il paese fino a quel giorno era completamente calmo.

Il giorno dopo le informazioni sulle riforme è sorto un account Twitter chiamato #SOSINSS, il nome in sé genera dubbi sulla particolare ragione per collegare il segnale internazionale di soccorso (risorsa operativa tipica delle rivoluzioni colorate nei social network) con l’Istituto di Sicurezza Sociale. Il suo stesso corso di azioni avrebbe dissipato tutti i sospetti 24 ore dopo.

In principio hanno plasmato il senso politico che avrebbe promosso l’agitazione. Le iniziali pubblicazioni costruivano una narrazione di coesione cittadina contro le riforme, che attraverso un trattamento selettivo degli impatti, si collocava in apparente scontro con lo Stato, ragione per la quale aveva un sorprendente senso di urgenza uscire a protestare.

Questo racconto ha impostato uno schema di iniziale supporto pubblico nei settori medi e bassi agli interessi della classe imprenditoriale che poi si sarebbe ampliato verso i media locali (El Confidencial, La Prensa, tra gli altri) ed internazionali (Reuters, BBC, El Pais, ecc).

Dopo sono saltati ad essere uno strumento di mobilitazione e convocazione. Mettendo da lato ogni responsabilità, si sono trasformati come mezzi di diffusione e convocazione di ”piantonamenti” (sit-in) di edifici governativi, ed in particolare presso la sede del INSS, che si sarebbero trasformati in punti di partenza di una violenza di strada in aumento. Ora sì si intendeva l’uso propagandistico del #SOS. Iniziavano i conati di protesta e la rapida, ma focalmente, escalation di violenza.

L’uso di questo account sembra avere consentito agli agitatori professionali ed ai loro legami con strati della criminalità operare con flessibilità sul terreno, sopprimere l’identificazione con un qualche fronte politico legato all’opposizione nicaraguense e, quindi, con gli USA, e camuffare, con la scusa di un’azione cittadina, azioni di violenza estrema contro centri sanitari, siti di patrimonio culturale, centri di raccolta e siti governativi. Già giovedì e venerdì, il paese era in tensione e battaglie di strada.

I “piantonamenti” non solo si sono andati espandendosi verso diversi punti del territorio nazionale (in circa 8 dipartimenti), ma sono andati progressivamente mutando a punte di estrema violenza dove si evidenziava l’uso di armi da fuoco non convenzionali per intensificare lo scontro con le forze sicurezza, l’alterazione della tranquillità pubblica e della viabilità e l’attacco armato contro diversi spazi pubblici e l’esecuzione di saccheggi di negozi.

L’account #SOSINSS, che aveva già adempiuto il suo ruolo di articolatore delle proteste e convocatore di prima linea nei social network, cambiò il suo ordine di priorità verso il controllo e la direzione del flusso di informazioni attorno agli scontri. Questo al fine di glorificare la violenza, porre come vittime gli attori che erano i protagonisti degli scontri con la forza pubblica e servire, come fonte primaria, per la stampa internazionale, un aspetto fondamentale nella successiva cartellizzazione delle cifre manipolate attorno ai fatti.

Proteste marca USAID, criminalità ed il discorso sul cambio di regime

 

Come parte del libretto di istruzioni globalizzato che descrive una rivoluzione colorata, le proteste sono state, in apparenza, cittadine, protagonisti i giovani e settori della chiesa cattolica, anti-politiche (senza legami con i partiti tradizionali) ed inizialmente a fini rivendicativi.

Quello che era iniziato con alcune sparse manifestazioni come protesta alle riforme dell’INSS, ha acquisito uno scheletro di movimento cittadino con vocazione allo scontro di strada ed alla violenza armata, la classica mutazione delle rivoluzioni colorate che cercano di raggiungere livelli più elevati di scontro che indeboliscano lo Stato e lo collochino in una situazione difensiva.

Nel racconto sembra esserci l’intenzione di istituire un fronte politico (postmoderno) dove si possano articolare una serie di “richieste” corporative pre fabbricate dall’USAID, ciò che a sua volta contribuisce a rilanciare l’immagine dell’opposizione ampliando la sua base di sostegno politico verso “la gioventù” e gli “scontenti”. È per questo motivo che le proteste hanno un taglio giovanile ed universitario, sono gli extra di cui hanno bisogno per distogliere l’attenzione dai gruppi armati che infliggono gli attacchi più gravi.

Perché il segno dell’USAID, in questo nuovo tentativo di cambio di regime in Nicaragua, non solo sta nel profuso finanziamento che consegna ad organizzazioni politiche di opposizione ed ONG locali, fondi che potrebbero avere come probabile destinazione l’addestramento nelle tattiche di sovversione e guerra urbana. Un totale di 31 milioni di $ consegnati, nel solo 2016, e ricevuti sotto la copertura di “Sviluppare le capacità per la difesa della società civile”.

Slogan che può essere utile per promuovere forum e attività accademiche, ma anche per dare consigli su come affrontare le forze di sicurezza e fare uso di bande criminali con una famigerata presenza nel paese.

Questo aspetto rappresenta la maggior parte dei finanziamenti a queste organizzazioni gestite dall’USAID in Nicaragua. Questa istituzione sottolinea pubblicamente che il denaro dato è destinato a sviluppare il governo civile utilizzando i media nel paese centroamericano.

In una nota del 16 aprile il portale Nicaleaks ha dato volto, nome e cognome alle organizzazioni finanziate che hanno promosso la violenza nelle strade: “Questa mattina, i dirigenti delle ONG dell’opposizione, come Cenidh, CPDH, Fondazione Violeta Barrios de Chamorro e Hagamos Democracia, tra altri, così come gruppi politici (FAD, MRS, ecc.) e media come la stessa Prensa e Confidencial, si sono svegliati con le braccia e le tasche aperte, in attesa che l’USAID continui a destinare i soldi per perpetuare lo status di vita che conducono”.

In tale esposizione di motivi, si ubica la sostanza politica di marca USAID nel corso delle violente proteste. Ne è prova il Dipartimento di Stato USA, che, per mantenere un clima di tensione permanente nelle relazioni tra USA e Nicaragua, utilizza una narrativa di promozione della libertà di espressione, della democrazia e di una maggiore partecipazione della società civile come condizioni “naturali” che devono imperare, incoraggiando chiaramente l’opposizione a minare il governo di Ortega attraverso l’uso dei media e con manifestazioni violente. L’utilità pratica della “governance” a cui si riferisce l’USAID.

Come se si trattasse di un’immagine passata per una fotocopiatrice, i primi “sit-in” che rifiutavano le riforme dell’ INSS si mutarono in un movimento insurrezionale che giustifica la sua esistenza nelle stesse richieste del Dipartimento di Stato, aggiungendo, ovviamente, l’agenda “anti-corruzione” e l’assenza di libertà di espressione, che anche proviene dall’offerta di prodotti politici dell’USAID. Da un reclamo, apparentemente rivendicativo, la ragione politica della mobilitazione si è spostata verso richieste di cambiamento politico.

E’ che dietro quella neolingua presentata come scala di valori essenziali per ogni società (democrazia liberale, libertà di espressione, ecc.), che passa al di sopra del contesto culturale e politico di ogni paese, si camuffano i nuovi attributi del potere globale: l’espansione della zona di controllo e di sottomissione rispetto al corpo sociale, politico, economico e istituzionale della periferia, attraverso l’uso di strutture private (ONG, media, programmi di cooperazione economica privata, ecc.) che puntano a subordinare dall’interno lo Stato e la società alle preferenze del capitale finanziario transnazionale.

Quello che chiamano potere “morbido”.

Geopolitica: Canale Interoceanico, il Nica Act accelera i motori de il potere del “potere morbido”

 

A differenza delle violente proteste del 2015, volte a simulare uno scenario di rifiuto generalizzato del Canale Interoceanico, queste del 2018 riflettono da un lato un cambio di natura, e dall’altro i frutti tangibili degli ultimi anni di finanziamento USAID: l’addestramento e proliferazione dei media e dei social network in Nicaragua sono state armi utilizzate per alterare la stabilità politica del paese forse, per la prima volta, con tale livello di efficacia, capacità e risonanza.

A quel tempo fu il Movimento di Rinnovamento Sandinista, che cercava di configurarsi come una seria opzione elettorale per l’opposizione, il volto visibile che organizzò parte delle mobilitazioni e assunse una pronunciata direzionalità politica.

Una realtà totalmente contraria alla luce di un movimento di laboratorio che è emerso dai social network, che si è organizzato per strada con agitatori senza connessioni visibili, ha acquisito una vernice giovanile ed ha trovato il proprio modo di ossigenarsi usando voci ed operazioni di propaganda per ammorbidire le forze di sicurezza ed indurre maggiore instabilità.

È così che si sono aggregate espressioni musicali giovanili e fronti di studenti universitari come avanguardia ideologica e morale, e soprattutto come coperture corporative, dell’operazione di cambio di regime. Sensibilizzare l’opinione pubblica e utilizzare i social network per glorificare la violenza, tutte le volte che sul terreno gli agenti criminali fanno il lavoro sporco, fa parte del manuale globale delle rivoluzioni colorate. Niente di nuovo, tranne l’adattamento dei suoi fini in ambito locale.

Come metodo di laboratorio, i suoi obiettivi sono molteplici e non si muovono sempre in una direzione lineare, ma si adattano alle condizioni e ai limiti dello Stato-vittima. E’ per questo che le violente manifestazioni non sembrano avere un obiettivo finale in se stesse, piuttosto potrebbero puntare a generare condizioni di instabilità e “rifiuto” interno con sufficiente risonanza per guidare un’operazione di sovvertimento geopolitico.

Per questo motivo sono andati a sostenere il violento scontro per le strade e ad etichettare come “violento” il contenimento, ONG del calibro di (con tanti dollari in bilancio provenienti dagli USA) Amnesty International, Human Rights Watch , entrambi scortati dal Segretariato Generale dell’OSA, dall’Unione Europea e dai governi di USA e Costarica.

Per mezzo di tale persuasione si cerca standardizzare il trattamento riguardo gli scontri di strada, negando le stesse coordinate della personalità nicaraguense che assume la politica con vari decibels d’intensità, mentre glorifica come vittime gli istigatori che dirigono le manifestazioni alla violenza professionale.

È probabile che questa manovra interna possa servire al Senato USA per accelerare l’approvazione del Nica Act, una legge che mira a chiudere i canali di finanziamento del paese nel sistema finanziario internazionale dominato da Washington. Secondo i suoi promotori, i senatori Marco Rubio, Bob Menendez, tra altri, la ragione della sua applicazione è la mancanza di libere elezioni, violazioni della legge, dei diritti umani e della corruzione del governo del Nicaragua.

Ora la ufficializzazione del blocco finanziario contro il paese centroamericano potrebbe venire sotto la scusa di difendere i manifestanti o di evitare “una maggiore repressione” da parte del sandinismo, sfruttando il vantaggio comparativo che gli dà avere l’USAID come atto riflesso sulla “società civile” in “difesa della democrazia”. “Non smetto di difendere la democrazia, ciò è parte della nostra politica e continuerà ad essere parte di essa”: appoggiandosi a tale stessa premessa l’ambasciatore gringo Paul Trivelli si giustificava davanti alla stampa quando, nel 2006, offriva pubblicamente milioni di $ a tutte le organizzazioni che cercavano di fare opposizione, elettorale o meno, al governo di Daniel Ortega.

Lo strato fondamentale di questo nuovo tentativo di cambio di regime in Nicaragua sembra essere attraversato da una condizione immutabile e molto conflittiva: la sua posizione geografica e l’interesse binazionale tra il Nicaragua e Cina per costruire un Canale Interoceanico di 270 chilometri che soppianterebbe quello di Panama, oggi unica arteria commerciale tra i due oceani.

Il completamento e l’entrata in funzione di questo mega progetto, a medio termine, significherebbe una perdita tangibile nel controllo finanziario e commerciale USA, che avrebbe implicazioni sia nella sua posizione di dominio sulla regione, sia nel suo status di rettore commerciale, a livello mondiale, proprio quando si avvia a una guerra finanziaria, a lungo termine, contro la Cina.

Ciò che gli USA si stanno giocando in Nicaragua è, fondamentalmente, il vantaggio geostrategico che, dal primo 900, gli ha dato il Canale di Panama. E l’urgenza geopolitica di impedire il progredire del progetto ha la sua misura nel finanziamento dato, per anni, all’opposizione e l’overdose di violenza armata negli ultimi giorni. È essenziale, per loro, un cambio di governo in Nicaragua per collocare una nuova amministrazione che blocchi il Canale Interoceanico.

Non per nulla uno degli ami narrativi delle dimostrazioni è la ferrea opposizione al progetto, un sostegno politico prefabbricato ma non per questo meno utile per il Nica Act per chiudere i rubinetti del finanziamento verso il Canale.

Ne siamo stati testimoni nella Primavera Araba, durante Maidan in Ucraina, nel contesto delle proteste in Brasile, e nel 2014 e 2017, in particolare, in Venezuela: le operazioni di cambio di regime non culminano quando lo fanno le proteste, ma mutano e assimilano un insieme di fronti che gli danno una continuità più aggressiva dal potere formale.

Quello che è successo negli ultimi giorni può essere strumentalizzato per dar forma a sanzioni economiche, complicare la posizione diplomatica del paese e smobilitare gli obiettivi politici prioritari del governo di Daniel Ortega attraverso le interferenze straniere. E questo è il calcolo iniziale di fabbricare una primavera alla nicaraguense adattata agli strati di criminalità e crimine organizzato che ha vita nel paese e che possono essere impiegati, sì, nell’agenda politica se si presenta redditizia. Parla anche di tale capacità di adattamento il ruolo di agutatori sul terreno che hanno avuto settori della chiesa cattolica.

Mentre questa tappa germinale va prendendo toni sempre più emergenziali, i media locali ed internazionali hanno già commesso i loro rispettivi crimini, portando il bilancio delle vittime a 10, quando in realtà sono morti in cinque -tra questi un poliziotto ed un giornalista di Canale 6, Angelo Gahona- per poi trasferire la responsabilità di tutti i fatti al governo di Daniel Ortega mentre si finge demenza per i danni umani e materiali generati dai gruppi violenti. Nessuna delle vittime partecipava alle proteste.

La fabbrica globalizzata di fake news (notizie false) viene messa alla prova in Nicaragua ed al servizio di gruppi armati professionisti che compiono atti di estrema violenza. E la prossima manovra mediatica è in pieno sviluppo: creare un martire che eviti la smobilitazione della violenza e conferisca una carica simbolica per mantenere l’agenda a galla in caso di un riflusso. Sembra che Angel Gahona soddisfi le caratteristiche necessarie nel mezzo dell’urgenza di una morte politica che dia corpo fisico allo scontro.

Le classe imprenditoriale da parte sua fa sua la violenza nelle strade e opera in funzione di ottenere una concessione governativa che poi sia venduta come una “vittoria del popolo”. Questo ci lascia una fotografia abbastanza nitida per descrivere la tecnica politica del golp’e morbido/o rivoluzione colorata. Parafrasando: non si cerca la caduta del regime con metodi diretti, ma a partire dall’uso di strumenti culturali, tecnologici e politici della globalizzazione, nonché dsllo stesso discorso rivendicativo, provocare un cambio politico che non abbia le tracce di un potere straniero.

Lo sappiamo in Venezuela, dove una richiesta rivendicativa (“referendum revocatorio”, “elezioni generali” etc) è utilizzata come una domanda irraggiungibile poiché il tutto tratta di coprire sotto un reclamo vestito di cittadinanza un’agenda di violenza interna de assedio internazionale e finanziario promosso da Washington. Dal 2002-

“Uno Stato e una politica che non li lascia costituirsi come cittadini ed un mercato che non permette loro di realizzarsi come consumatori (…) e se potessero emigrare per migliorare le loro condizioni di vita, lo farebbero”: questo dice una nota pubblicata nel quotidiano locale El Confidencial, che ha provato a fabbricare un carattere giovanile delle proteste. Più che un’affermazione campata in aria, è forse una dimostrazione che la politica marca USAID ha uno strato sociale dove calare culturalmente, poiché incassano le crisi esistenziali della gioventù emergente globalizzata, unicamente preoccupata per lo sviluppo della suo “talento individuale” e stabilirsi in un luogo di “successo” all’interno della società del consumo globale.

È la via del potere morbido da dove avanzano i tratti più peculiari della distruzione della coscienza nazionale, del suo corpo sociale ed etico, il sandinismo de il chavismo sotto la stessa zona di pericolo nell’ambito culturale.

Un altro brutto segnale con il Venezuela, tra l’altro, in cui la base dell’opposizione (centrata sulla classe media), che fu anche vittima della rivoluzione colorata, oggi è divisa tra lasciare il paese, chiedere, a grida, l’intervento straniero o frustrarsi astenendosi nelle prossime elezioni presidenziali. Tutto quel peso, mentre sente sulla sua carne i danni economici dell’agenda successiva che sono risultati dagli appelli a mobilitazione e “sit-in” che ella sosteneva.

Traumi sociali che rimangono irrisolti, poiché serve anche un vantaggio politico per un potere globale demente.

La percentuale di popolazione che ha accesso a Internet nel paese centroamericano è appena del 19%; bisognerà aspettare per vedere se al di là dei social network la crepa che disegnano i media è tale, o se la sua portata è già sufficiente affinché operi per il potere che ha realmente finanziato la violenza.


Aspectos clave de la fallida revolución de colores en Nicaragua

William Serafino

Ya son varios días de manifestaciones violentas en la nación centroamericana. Tanto el perfil del mensaje político como el comportamiento de los medios, además del empleo de métodos insurreccionales de protesta y por la propia historia de un país ocupado e intervenido por Estados Unidos en distintas oportunidades, indican que estamos en la presencia de un nuevo intento de cambio de régimen bajo el formato de revolución de colores. Con respecto a los objetivos y su pragmática global, nada nuevo. Socavar la paz de Nicaragua y fabricar las condiciones internas para una etapa de acoso geopolítico, se dibujan como los propósitos inmediatos de la operación.

Insurgencia 2.0

Roberto López, presidente del Instituto Nicaragüense de Seguridad Social, anunció el lunes 16 de abril una serie de reformas con el fin de aumentar los aportes de trabajadores y empleadores a la seguridad social; también informó sobre la creación de un tributo especial a las pensiones del 5%.

El Consejo Superior de la Empresa Privada (Cosep) fue la primera organización de peso en rechazar los anuncios debido a que generaba “incertidumbre” y limitaba la creación de empleos por parte del sector privado.

Que específicamente este sector haya sido el primer doliente debería decirnos bastante sobre el cuerpo de “demandas” e intereses que inicialmente promovieron las manifestaciones. Un evidente ejercicio de solidaridad de clase. El país todavía hasta ese día estaba en calma total.

Al día siguiente de la información de las reformas surgió una cuenta en Twitter llamada #SOSINSS, el nombre en sí genera dudas sobre la razón particular de vincular la señal internacional de socorro (recurso operativo típico de las revoluciones de colores en redes sociales) con el Instituto de Seguridad Social. Su propio curso de acciones disiparía todas las sospechas 24 horas después.

En principio moldearon el sentido político que promovería la agitación. Las publicaciones iniciales construían una narrativa de cohesión ciudadana frente a las reformas, que por medio de un tratamiento selectivo de los impactos, se colocaba en aparente confrontación con el Estado, razón por la cual tenía un sorpresivo sentido de urgencia salir a protestar.

Este relato configuró un esquema de apoyo público inicial en los sectores medios y bajos a los intereses de la clase empresarial que luego se ampliaría hacia los medios locales (El Confidencial, La Prensa, entre otros) y los internacionales (Reuters, BBC, El País, etc.).

Después saltaron a instrumento de movilización y convocatoria. Apartando cualquier responsabilidad, se volcaron como medios de difusión y convocatorias de “plantones” en edificios gubernamentales, y en específico en las sedes del INSS, los cuales se transformarían en los puntos de partida de un violencia callejera en ascenso. Ahora sí se entendía el uso propagandístico del #SOS. Los conatos de protesta iniciaban y la violencia escalada rápida pero focalmente.

El uso de esta cuenta parece haberle permitido a agitadores profesionales y sus nexos con capas de la criminalidad operar con flexibilidad en el terreno, suprimir la identificación con algún frente político ligado con la oposición nicaragüense y por ende con Estados Unidos, y camuflar bajo el ropaje de una acción ciudadana acciones de violencia extrema contra centros de salud, sedes de patrimonio cultural, centros de acopio y sitios gubernamentales. Ya el jueves y el viernes, el país estaba en tensión y trifulcas callejeras.

Los “plantones” no sólo fueron expandiéndose hacia varios puntos de la geografía nacional (en 8 departamentos aproximadamente), sino que fueron mutando progresivamente a cúmulos de violencia extrema donde resalta el uso de armas de fuego no convencionales para intensificar el choque con las fuerzas de seguridad, la alteración de la tranquilidad pública y la vialidad y el ataque armado contra distintos espacios públicos y la ejecución de saqueos a comercios.

La cuenta #SOSINSS, que ya había cumplido su papel como articulador de las protestas y convocante de primera línea en redes sociales, cambió su orden de prioridad hacia el control y direccionamiento del flujo informativo alrededor de los choques. Esto con el fin de glorificar la violencia, situar como víctimas a los actores que protagonizaban los choques con la fuerza pública y servir de fuente primaria para la prensa internacional, un aspecto fundamental en la posterior cartelización de cifras manipuladas en torno a los hechos.

Protestas marca USAID, criminalidad y el discurso del cambio de régimen

Como parte de la cartilla globalizada que describe una revolución de colores, las protestas en apariencia han sido ciudadanas, protagonizadas por los jóvenes y los sectores de la iglesia católica, antipolíticas (sin nexos con partidos tradicionales) y en principio con fines reivindicativos.

Lo que empezó con algunas manifestaciones dispersas en rechazo a las reformas del INSS, adquirió un esqueleto de movimiento ciudadano con vocación al choque callejero y la violencia armada, la clásica mutación de las revoluciones de color en busca de lograr mayores grados de confrontación que debiliten al Estado y lo coloquen en una situación defensiva.

En lo narrativo parece estar la intención de configurar un frente político (posmoderno) donde puedan articularse un conjunto de “demandas” gremiales prefabricadas por la USAID, lo que a su vez contribuye a reflotar la imagen de la oposición ampliando su base de apoyo político hacia “la juventud” y los “descontentos”. Es por esa razón que las protestas tienen un corte juvenil y universitario, son los extras que necesitan para desviar la atención de los grupos armados que inflingen los ataques más graves.

Porque el signo USAID en este nuevo intento de cambio de régimen en Nicaragua no sólo está en el profuso financiamiento que entrega a organizaciones políticas opositoras y ONGs locales, fondos que pudieron tener como destino probable el adiestramiento en tácticas de subversión y guerra urbana. Un total de 31 millones de dólares entregados nada más en 2016 han recibido bajo la cobertura de “Desarrollar las capacidades para la defensa de la sociedad civil”.

Eslogan que puede ser útil para promocionar foros y actividades académicas, pero también para dar asesoramiento en cómo enfrentar a las fuerzas de seguridad y hacer uso de bandas criminales con una presencia notoria en el país.

Este aspecto representa la porción más grande del financiamiento a estas organizaciones gestionado por la USAID en Nicaragua. Esta institución resalta públicamente que el dinero entregado tiene como finalidad desarrollar la gobernanza civil utilizando los medios de comunicación en el país centroamericano.

En nota del 16 de abril el portal Nicaleaks le daba rostro, nombre y apellido a los organizaciones financiadas que promovieron la violencia en las calles: “Esta mañana, los dirigentes de las ONG opositoras, como el Cenidh, CPDH, Fundación Violeta Barrios de Chamorro y Hagamos Democracia, entre otros, así como grupos políticos (FAD, MRS, etc,.) y medios de comunicación como la misma Prensa y Confidencial, amanecieron con los brazos y bolsillos abiertos en espera que la USAID siga destinando dinero para eternizar el estatus de vida que llevan”.

En esa exposición de motivos se ubica la sustancia política marca USAID en el curso de las protestas violentas. Muestra de ello es el Departamento de Estado de EEUU, que para mantener un clima de tensión permanente en las relaciones de EEUU con Nicaragua, emplea una narrativa de promoción de la libertad de expresión, la democracia y de mayor participación de la sociedad civil como condiciones “naturales” que deben imperar, animando claramente a la oposición a socavar el gobierno de Ortega mediante el uso de los medios de comunicación y con manifestaciones violentas. La utilidad práctica de la “gobernanza” a la que se refiere la USAID.

Como si se tratara de una imagen pasando por una fotocopiadora, los primeros “plantones” que rechazaban las reformas del INSS mutaron hacia un movimiento insurreccional que justifica su existencia en las mismas demandas del Departamento de Estado, agregando por supuesto la agenda “anticorrupción” y la ausencia de libertad de expresión, que también provienen de la oferta de productos políticos de la USAID. De un reclamo en apariencia reivindicativo, la razón política de la movilización se trasladó hacia exigencias de cambio político.

Y es que detrás de esa neolengua presentada como escala de valores indispensable para cualquier sociedad (la democracia liberal, la libertad de expresión, etc.), que pasa por encima del contexto cultural y político de cada país, se camuflan los nuevos atributos del poder global: la ampliación de la zona de control y sometimiento sobre el cuerpo social, político, económico e institucional de la periferia, mediante el uso de estructuras privadas (ONGs, medios de comunicación, programas de cooperación económica privada, etc.) que pujen por subordinar desde adentro al Estado y a la sociedad a las preferencias del capital financiero transnacional.

Lo que llaman el poder “blando”.

Geopolítica: Canal Interoceánico, la Nica Act acelera los motores y el poder del “poder blando”

A diferencia de las protestas también violentas del año 2015, dirigidas a simular un escenario de rechazo generalizado al Canal Interoceánico, éstas de 2018 reflejan un cambio de naturaleza por un lado, y por otro, los frutos tangibles de los últimos años de financiamiento de la USAID: el adiestramiento y proliferación de los medios y las redes sociales en Nicaragua fueron armas utilizadas para alterar la estabilidad política del país, quizás por primera vez con ese nivel de eficacia, capacidad y resonancia.

En aquel momento fue el Movimiento de Renovación Sandinista, que buscaba perfilarse como una opción electoral seria para la oposición, la cara visible que organizó parte de las movilizaciones y asumió una pronunciada direccionalidad política.

Una realidad totalmente contraria a la luz de un movimiento de laboratorio que emergió de las redes sociales, que se organizó en la calle con agitadores con conexiones no visibles, adquirió un barniz juvenil y encontró su propia forma de oxigenarse empleando rumores y operaciones de propaganda para ablandar a las fuerzas de seguridad e inducir mayor inestabilidad.

Es así como se han agregado expresiones musicales juveniles y frentes de estudiantes universitarios como vanguardia ideológica y moral, y sobre todo como coberturas gremiales, de la operación de cambio de régimen. Sensibilizar a la opinión pública y utilizar las redes sociales para glorificar la violencia, toda vez que en el terreno los agentes criminales hacen el trabajo sucio, forma parte del manual global de las revoluciones de color. Nada nuevo, salvo la adaptación de sus fines en lo local.

En tanto método de laboratorio, sus objetivos son múltiples y no caminan siempre en una dirección lineal, sino adaptados a las condiciones y límites del Estado-víctima. Es por eso que las manifestaciones violentas no parecen tener un objetivo final en sí mismo, más bien podrían apuntar a generar condiciones de inestabilidad y “rechazo” interno con la suficiente resonancia para impulsar una operación de acoso geopolítico.

Por esa razón han concurrido a respaldar el choque violento en las calles y a tildar como “violenta” la contención de las manifestaciones, ONGs de la talla (por su presupuesto en dólares proveniente de EEUU, nada más) de Amnistía Internacional, de Human Rights Watch, ambas escoltadas por la Secretaría General de la OEA, la Unión Europea y los gobiernos de EUU y Costa Rica.

Por medio de esa persuasión se intenta estandarizar el tratamiento en torno a los choques callejeros, negando las propias coordenadas de la personalidad nicaragüense que asume la política con varios decibeles de intensidad, a su vez que glorifica como víctimas a los instigadores que dirigieron las manifestaciones a la violencia profesional.

Es probable que esta maniobra interna pueda servirle al Senado de los EEUU para acelerar la aprobación de la Nica Act, una ley dirigida a cerrar los canales de financiamiento del país en el sistema financiero internacional dominado por Washington. Según sus promotores, los senadores Marco Rubio, Bob Menendez, entre otros, la razón de su aplicación es la falta de elecciones libres, violaciones a la Ley, los derechos humanos y la corrupción del gobierno nicaragüense.

Ahora la oficialización del bloqueo financiero contra el país centroamericano podría venir bajo la excusa de defender a los manifestantes o para evitar una “mayor represión” por parte del sandinismo, haciendo uso de la ventaja comparativa que le da tener a la USAID como acto reflejo de la “sociedad civil” en “defensa de la democracia”.

“No voy a dejar de defender la democracia, eso es parte de nuestra política y seguirá siendo parte de nuestra política”: apoyándose esa misma premisa el embajador gringo Paul Trivelli se justificaba ante la prensa cuando, en 2006, ofrecía públicamente millones de dólares a todas las organizaciones que buscaran hacerle oposición, electoral o no, al gobierno de Daniel Ortega.

La capa fundamental de este nuevo intento de cambio de régimen en Nicaragua parece estar atravesado por una condición inalterable y sumamente conflictiva: su ubicación geográfica y el interés binacional entre Nicaragua y China por construir un Canal Interoceánico de 270 kilómetros que desplace al de Panamá como única arteria comercial entre los dos océanos.

La culminación y entrada en funcionamiento de este mega proyecto en el mediano plazo significaría una pérdida tangible en el control financiero y comercial de EEUU, lo que tendría implicaciones tanto en su posición de dominio sobre la región, como también en su estatus de rector comercial a nivel mundial, justo cuando emprende una guerra financiera de larga duración contra China.

Lo que se está jugando EEUU en Nicaragua es fundamentalmente la ventaja geoestratégica que desde principios de siglo XX le ha dado el Canal de Panamá. Y la urgencia geopolítica por impedir que el proyecto avance tiene su medida en el financiamiento entregado a la oposición durtante años y la sobredosis de violencia armada en los últimos días. Es indispensable para ellos un cambio de gobierno en Nicaragua para colocar una nueva administración que desista del Canal Interoceánico.

No en balde uno de los ganchos narrativos de las manifestaciones es la oposición férrea al proyecto, un aval político prefabricado pero no por eso menos útil para que la Nica Act cierre los grifos de financiamiento hacia el Canal.

Lo atestiguamos en la Primavera Árabe, durante el Maidán ucraniano, en el marco de la protestas en Brasil, y en 2014 y 2017 específicamente en Venezuela: las operaciones de cambio de régimen no culminan cuando lo hacen las protestas, sino que mutan y asimilan un conjunto de frentes que le dan una continuidad más agresiva desde el poder formal.

Lo ocurrido en los últimos días puede ser instrumentado para dar forma a sanciones económicas, complicar el posicionamiento diplomático del país y desmovilizar los objetivos políticos prioritarios del gobierno de Daniel Ortega mediante el acoso foráneo. Y ese es el cálculo inicial de fabricar una primavera a la nicaragüense adaptada a las capas de criminalidad y crimen organizado que tienen vida en el país y que pueden ser empleados si la agenda política propuesta se presenta como rentable. Habla también de esa capacidad de adaptación el rol de agitadores en el terreno que han tenido sectores de la iglesia católica. 

Mientras esta etapa germinal va agarrando una tonalidad más sobresaliente, los medios locales e internacionales ya cometieron sus respectivos crímenes elevando la cifra de muertes a 10, cuando en realidad murieron cinco -entre ellos un efectivo policial y el periodista del Canal 6, Ángel Gahona- para luego trasladar la responsabilidad de todos los hechos al gobierno de Daniel Ortega mientras se finge demencia por los daños humanos y materiales generados por los grupos violentos. Ninguna de las víctimas participaba en las protestas.

La fábrica globalizada de fake news se pone a prueba en Nicaragua y al servicio de grupos armados profesionales que ejecutan actos de violencia extrema. Y la siguiente maniobra de los medios está en pleno desarrollo: crear un mártir que evite una desmovilización de la violencia y otorgue una carga simbólica para mantener la agenda a flote en caso de un reflujo. Pareciera que Ángel Gahona cumple con las características necesarias en medio de la urgencia por una muerte política que le dé cuerpo físico a la confrontación.

La clase empresarial por su parte hace suya la violencia en las calles y opera en función de lograr una concesión del gobierno que luego sea vendida como una “victoria del pueblo”. Esto nos deja una fotografía lo bastante nítida para describir la técnica política del golpe blando y/o revolución de colores. Parafraseando: no se busca la caída del régimen por métodos directos, sino a partir del uso de las herramientas culturales, tecnológicas y políticas de la globalización, así como su propio discurso reinvindicativo, para provocar un cambio político que no tenga las huellas de un poder extranjero.

Lo sabemos en Venezuela, donde una exigencia reivindicativa (“referendo revocatorio”, “elecciones generales”, etc.) es utilizada como una demanda inalcanzable, pues todo se trata de encubrir bajo un reclamo vestido de ciudadano una agenda de violencia interna y cerco internacional y financiero promovida por Washington. Desde el año 2002.

“Un Estado y una política que no los deja constituirse como ciudadanos y un mercado que no les permite realizarse como consumidores (…) y si pudieran emigrar para mejorar sus condiciones de vida, lo harían”: esto dice una notapublicada en el medio local El Confidencial, quien ha intentado manufacturar un carácter juvenil de las protestas. Más que una acotación al aire, es quizás una demostración de que la política marca USAID tiene una capa social dónde calar culturalmente, pues cobran políticamente las crisis existenciales de la juventud emergente y globalizada, únicamente preocupada por el desarrollo de su “talento individual”, y acomodarse en un lugar de “éxito” dentro de la sociedad de consumo global.

Es la vía del poder blando por donde avanzan los rasgos más distintivos de la destrucción de la conciencia nacional, de su cuerpo social y ético, el sandinismo y el chavismo bajo la misma zona de peligro en lo cultural.

Otro desagradable guiño con Venezuela, por cierto, donde la base opositora (centrada en la clase media) que también fue víctima de la revolución de colores, hoy se debate entre irse del país, pedir una intervención extranjera a gritos o frustrarse a sí misma absteniéndose en las próximas elecciones presidenciales. Todo ese peso mientras siente en carne viva los daños económicos de la agenda posterior que resultó de las convocatorias de movilización y “plantones” que ella respaldó.

Traumas sociales que quedan sin resolver, toda vez que también sirve un activo político para un poder global igual de demente.

El porcentaje de poblaciones de acceso a Internet en el país centroamericano roza apenas el 19%; quedará esperar a ver si más allá de las redes sociales la grieta que dibujan los medios es tal, o si su alcance ya es suficiente para que opere el poder que de verdad financió la violencia.

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