USA dispiegano terzo tentativo destabilizzatore contro Evo

Hugo Moldiz Mercado http://www.cubadebate.cu

Le elezioni del 2019 sono il pretesto. Gli USA, attraverso diversi media ed attori, stanno attivando il loro terzo piano per destabilizzare il governo di Evo Morales, bloccare il progetto di continuità politico-elettorale del leader indigeno ed interrompere il processo di cambio.

Tuttavia, lungi dal rappresentare la forza, queste azioni esterne contro il processo di cambio in Bolivia evidenziano, piuttosto, la profonda debolezza dell’opposizione interna, che pretende vincere dall’esterno del paese ciò che non ha ancora potuto vincere dall’interno.

Il piano interventista USA era annunciato. Non vi è alcun motivo per cui l’imperialismo USA non attivi piani e misure per intromettersi negli affari interni della Bolivia, alla stessa maniera come già lo ha fatto contro tutti i governi progressisti e di sinistra dell’America Latina.

Con alcuni, con i più deboli, all’inizio, come sono i casi di Honduras e Paraguay, ha effettuato colpi di stato di un nuovo tipo, per poi applicare la formula contro il più forte: il Brasile, dove si produsse un colpo di stato in due tempi. Il primo, golpe parlamentare contro Dilma Rousseff ed il secondo, giudiziario, contro Ignacio Lula. Contro altri, il cui tratto comune è quello di aver realizzato cambi più profondi attraverso l’Assemblea Costituente, come nei casi di Venezuela, Bolivia ed Ecuador, fallì nel suo tentativo di rovesciarli con la violenza, sebbene nel caso dell’ultimo paese, già senza Rafael Correa, è riuscito ad attivare, finora con successo, una rivoluzione passiva con Lenin Moreno come presidente.

Infatti, come bene s’incarica di segnalare il Consenso di Nostra America, approvato dal XXIII Incontro del Forum di Sao Paulo, che si è tenuto a Managua nel 2017, e ratificato al XXIV Incontro dello stesso forum, all’Avana nel luglio di quest’anno, la sinistra è stata sconfitta per via elettorale solo in Argentina. Nel resto, come indicato sopra, lo ha fatto con metodi non democratici, come si sta ancora tentando contro il Venezuela.

La controffensiva controrivoluzionaria e restauratrice è iniziata durante l’amministrazione Obama e continua, in maniera più perversa, con il governo di Donald Trump, che cerca di evitare che gli USA smettano di essere la potenza egemone mondiale e, ovviamente, perdano il controllo dell’America Latina. In realtà, per essere più precisi, cerca di ristabilire il suo dominio ed egemonia in quella parte del pianeta che, dalla Monroe, viene considerato il suo “cortile”. Il fatto che paesi come Bolivia, Cuba, Venezuela e altri siano stati i principali forgiatori di nuovi criteri di integrazione ed unità latinoamericana, attraverso l’ALBA, UNASUR e la CELAC, è qualcosa che gli USA non erano disposti a tollerare.

Questo suo progetto di restaurazione conservatrice incontra attiva resistenza, in maggior o minore grado, nei processi rivoluzionari di Cuba -che Evo Morales ha qualificato, all’Avana, come la madre di tutte le rivoluzioni-, Venezuela e Bolivia, ma anche di El Salvador . A questa lista dobbiamo aggiungere il Messico che, dal prossimo dicembre, sarà governato da Manuel López Obrador, che ha ottenuto una a storica vittoria all’inizio di luglio.

Bolivia non è l’eccezione

 

Bene, Bolivia non è l’eccezione. Da ragioni ideologiche sino a fattori geopolitici, gli USA vogliono porre fine ai governi di paesi in cui si portano avanti rivoluzioni, nelle condizioni del XXI secolo. Dei governi progressisti, già se ne è occupato quasi di tutti, rimangono solo Uruguay ed El Salvador. E Bolivia, ribadiamo, non è l’eccezione.

Contro il processo di cambio boliviano, guidato dal leader indigeno Evo Morales, si sono sviluppate, sin dall’inizio, tutte le azioni di destabilizzazione oligarchica ed imperiale. Senza timore di sbagliarci, possiamo osservare tre grandi tentativi di interrompere il processo politico più profondo di tutta la storia di questo paese situato nel cuore del Sud America.

Il primo tentativo di rovesciare Morales ebbe luogo all’inizio del periodo 2006-2009. Preoccupato da un governo, che appena investito, nazionalizzò il petrolio, recuperò le risorse naturali e le imprese a favore dello Stato, convocò un’Assemblea Costituente, iniziò a esercitare la sovranità statale in tutti i campi, scommise sul carattere multilaterale delle relazioni internazionali e promosse, insieme ad altri paesi della regione, innovativi meccanismi di integrazione e concertazione politica (Alba e Unasur), gli USA mantennero la loro linea cospirativa. A tale scopo utilizzarono la DEA -che si dedicò allo spionaggio politico insieme alla CIA- e ed alla capacità installata della sua ambasciata a La Paz, per organizzare e fomentare i piani di divisione territoriale, che fu la forma concreta con cui si pretendeva rovesciare il governo di sinistra.

Il tentativo golpista fu sconfitto dalla capacità di mobilitazione del governo e dei movimenti sociali più che dalle azioni istituzionali della Polizia e delle Forze Armate. L’effetto di tale sconfitta sarebbe stato pesante per gli USA: l’ambasciatore Philip Golberg fu espulso e anche la DEA. Mesi dopo, già indebolita, l’estrema destra boliviana avrebbe sperimentato una nuova sconfitta con lo smantellarsi di una cellula terroristica, con membri stranieri, che cercava riprendere la debilitata bandiera del separatismo e addirittura assassinare il presidente Evo Morales.

Il secondo tentativo si effettuò tra il dicembre 2015 ed il febbraio 2016. A fronte del progetto governativo di modificare, via referendum, l’articolo 168 della Costituzione Politica dello Stato, per consentire il binomio Evo Morales-García Linera Alvaro, per le elezioni del 2019, una cospirazione politica-mediatica, attivata degli USA, mediante Carlos Valverde -ex direttore nazionale dell’intelligence del governo Paz Zamora (1989-1993) e una fonte permanente per gli USA come lo confermano i Wikileaks-, ottenne rompere il vincolo emotivo di una percentuale della popolazione che fino ad allora aveva sempre votato per Morales (2005, 2009 e 2014). Il presidente boliviano denunciò il giorno e l’ora in cui l’incaricato d’affari, Peter Brennan, e Valverde si erano riuniti a Santa Cruz per perfezionare il piano che metteva in dubbio l’autorità morale del massimo conduttore della rivoluzione boliviana. Diversi errori commessi nello sforzo di chiarire la denuncia -che alla fine si rivelò falsa- contribuirono alla confusione e facilitarono il rovescio elettorale per i governativi.

Ma gli USA e la destra non raggiunsero pienamente quello che volevano. Lo stretto margine per cui il SI’ perse impedì che gli appelli affinché Morales rinunciasse potessero materializzarsi. Tuttavia, questa fu la prima volta in cui i partiti di opposizione si inserirono nelle cosiddette “piattaforme cittadine” e nell’azione destabilizzatrice di un gruppo di media, nonché nel movimento attivo delle reti sociali.

Impossibilitati a rifiutare il successo del modello economico boliviano, che per la quarta volta consecutiva realizzò, nel 2017, la maggior crescita della regione e che in questo 2018 tornerà a ratificare tale posizione, e con una buona gestione nonostante affrontare alcuni problemi, come la diminuzione del prezzo delle materie prime, gli USA e la destra boliviana stanno ora dispiegando il loro terzo gran tentativo di ribaltare la rivoluzione boliviana.

Il motivo utilizzato, questa volta, è la difesa del risultato del referendum del 21 febbraio 2016 e, pertanto, il rifiuto all’annunciata candidatura di Evo Morales per le elezioni del 2019. La ragione di fondo è interrompere la continuità del processo di cambio. Gli strumenti utilizzati sono le “piattaforme cittadine”, il cui spostamento all’interno e all’esterno del paese hanno il sostegno finanziario dei partiti di opposizione e di agenzie USA come il NDI, IRI e NED, e a seconda degli indizi anche da parte di alcune europee.

Questo terzo grande tentativo destabilizzatore è anche incamminato a strutturare un fronte internazionale interventista, attraverso l’OSA e la CIDH, il governo ed il Congresso USA. Quindi non è un caso che a fine novembre dello scorso anno l’amministrazione Trump e la congressista repubblicana Ileana Ros-Lehtinen si siano espressi contro la sentenza costituzionale che, sulla base della Costituzione e della Convenzione Americana, abilita tutte le autorità elette, nazionali e subnazionali, a candidarsi per una rielezione indefinita. Il segretario generale dell’OSA, Luis Almagro, un attivo militante contro la rivoluzione venezuelana ed i governi di sinistra, si è anche pronunciato contro la sentenza del TCP.

“In realtà, l’articolo 23 della Convenzione Americana dei Diritti Umani citata nella sentenza del #TCP della #Bolivia non contempla il diritto a perpetuarsi al potere. Inoltre, la rielezione presidenziale è stata respinta in un referendum per volontà popolare il #21F del 2016”, ha scritto sul suo account Twitter il segretario dell’organismo.

La preparazione di un rapporto da parte della Commissione di Vienna su richiesta dell’OSA, in cui si afferma che la rielezione non è un diritto umano, forma parte delle condizioni su cui la destra boliviana cerca di appoggiarsi.

Ciò che richiama l’attenzione è che, dal 2006, questa è la prima volta che il Dipartimento di Stato rende noto un comunicato, in cui invita Morales a desistere dall’essere candidato nel 2019. “Il popolo della Bolivia ha parlato chiaro. Gli USA lo sostiene e sollecita l’attuale Governo della Bolivia a rispettare l’esito di quei referendum”, dice testualmente l’amministrazione Trump, affermando che c’è un “passo indietro nella democrazia” boliviana.

Nella stessa direzione, si è pronunciata la congressista repubblicana Ros-Lehtinen che ha segnalato che gli USA non devono rimanere in silenzio e che devono “inviare un chiaro messaggio di sostegno al popolo” boliviano. La legislatrice USA si è pronunciata quasi con le stesse parole d’ingerenza il 7 dicembre 2017 ed il 21 luglio di quest’anno.

Pertanto, il pronunciamento del Dipartimento di Stato USA, le posizioni del Segretario generale dell’OSA ed il movimento nel Congresso USA rappresentano, senza dubbio, azioni di uno stesso piano contro il processo di cambio. Questo è solo l’inizio.


EEUU despliega su tercer gran intento desestabilizador contra Evo

Por: Hugo Moldiz Mercado

Las elecciones de 2019 son el pretexto. Estados Unidos, a través de distintos medios y actores, está activando su tercer gran plan para desestabilizar al gobierno de Evo Morales, bloquear el proyecto de continuidad político-electoral del líder indígena e interrumpir el proceso de cambio.

Empero, lejos de representar fortaleza, estas acciones externas contra el proceso de cambio en Bolivia más bien ponen en evidencia la profunda debilidad de la oposición interna, que pretende ganar desde fuera del país lo que no ha podido todavía ganar desde dentro.

El plan intervencionista de Estados Unidos estaba cantado. No hay ninguna razón para que el imperialismo estadounidense no active planes y medidas para entrometerse en asuntos internos de Bolivia, de la misma manera como ya lo hizo contra todos los gobiernos progresistas y de izquierda de América Latina.

Con unos, con los más débiles al inicio, como son los casos de Honduras y Paraguay, llevó adelante golpes de nuevo tipo, para luego aplicar la fórmula contra el más fuerte: el Brasil, donde se produjo un golpe en dos tiempos. El primero, golpe parlamentario contra Dilma Rousseff, y el segundo, judicial, contra Ignacio Lula. Contra otros, cuyo rasgo común es haber llevado adelante cambios más profundos por la vía de la Asamblea Constituyente, como son los casos de Venezuela, Bolivia y Ecuador, fracasó en su intento de derrocarlos por la vía de la violencia, aunque en el caso del último país, ya sin Rafael Correa, ha logrado activar hasta ahora de manera exitosa una revolución pasiva con Lenin Moreno como presidente.

De hecho, como bien se encarga de apuntar el Consenso de Nuestra América, aprobado por el XXIII Encuentro del Foro de Sao Paulo que se llevó a cabo en Managua en 2017 y ratificado en el XXIV Encuentro del mismo foro en La Habana, en julio de este año, la izquierda solo ha sido derrotada por la vía electoral en Argentina. En el resto, como se señala líneas arriba, lo hizo por métodos no democráticos, tal como se continúa intentando contra Venezuela.

La contraofensiva contrarrevolucionaria y restauradora empezó en la administración Obama y continúa, de forma más perversa, con el gobierno de Donald Trump, quien pretende evitar que Estados Unidos deje de ser el hegemón mundial y obviamente pierda el control de América Latina. En realidad, para ser más preciso, busca restablecer su dominación y hegemonía en ese lugar del planeta que desde la doctrina Monroe lo considera su “patio trasero”. El hecho de que países como Bolivia, Cuba, Venezuela y otros hayan sido los principales forjadores de novedosos criterios de integración y unidad latinoamericana a través del ALBA, UNASUR y la CELAC es algo que Estados Unidos no estaba dispuesto a tolerar.

Este su proyecto de restauración conservadora encuentra activa resistencia, en mayor o menor grado, de los procesos revolucionarios de Cuba –a la que Evo Morales calificó en La Habana como la madre de todas las revoluciones-, Venezuela y Bolivia, pero también de El Salvador. A esta lista hay que sumar a México, que desde diciembre próximo será gobernado por Manuel López Obrador, quien obtuvo una histórica victoria a principios de julio.

Bolivia no es la excepción

Pues bien, Bolivia no es la excepción. Desde razones ideológicas hasta factores geopolíticos, Estados Unidos requiere acabar con los gobiernos de países donde se llevan adelante revoluciones en las condiciones del siglo XXI. De los gobiernos progresistas ya se hizo cargo casi de todos, solo le quedan Uruguay y El Salvador. Y Bolivia, reiteramos no es la excepción.

Contra el proceso de cambio boliviano, encabezado por el líder indígena Evo Morales, se han desarrollado desde el principio todas las acciones de desestabilización oligárquica e imperial. Sin temor a equivocarnos, podemos observar tres grandes intentos de interrumpir el proceso político más profundo de toda la historia de este país ubicado en el corazón de Sudamérica.

El primer intento por derrocar a Morales se llevó delante de manera temprana en el período 2006-2009. Preocupado por un gobierno que de entrada nacionalizó el petróleo, recuperó los recursos naturales y las empresas para el Estado, convocó a una Asamblea Constituyente, empezó a ejercer soberanía estatal en todos los campos, apostó al carácter multilateral de las relaciones internacionales e impulsó, junto a otros países de la región, novedosos mecanismos de integración y concertación política (Alba y Unasur), Estados Unidos mantuvo su línea conspirativa. Para ello utilizó a la DEA –que se dedicó al espionaje político junto a la CIA- y a la capacidad instalada de su embajada en La Paz, para organizar y fomentar los planes de división territorial, que fue la forma concreta con la que se pretendía derrocar al gobierno de izquierda.

La intentona golpista fue derrotada por la capacidad de movilización del gobierno y de los movimientos sociales más que por el accionar institucional de la Policía y las Fuerzas Armadas. El efecto de esa derrota sería duro para los Estados Unidos: el embajador Philip Golberg fue expulsado y también la DEA. Meses después, ya debilitada, la ultraderecha boliviana experimentaría otra nueva derrota al desmontarse una célula terrorista, con integrantes extranjeros, que pretendía retomar la debilitada bandera del separatismo e incluso asesinar al presidente Evo Morales.

El segundo intento se llevó adelante entre diciembre de 2015 y febrero de 2016. Frente al proyecto gubernamental de modificar vía referéndum el artículo 168 de la Constitución Política del Estado, para habilitar el binomio Evo Morales-Álvaro García Linera, para las elecciones de 2019, una conspiración político-mediática activada por los Estados Unidos a través de Carlos Valverde –ex director nacional de inteligencia del gobierno de Paz Zamora (1989-1993) y una fuente de consulta permanente para los EEUU según lo confirman los WikiLeaks-, logró romper el vínculo emocional de un porcentaje de la población que hasta ese momento siempre había votado por Morales (2005, 2009 y 2014). El presidente boliviano denunció el día y la hora en que el encargado de Negocios, Peter Brennan, y Valverde se habían reunido en Santa Cruz para afinar el plan que ponía en duda la autoridad moral del máximo conductor de la revolución boliviana. Varios errores cometidos en el afán de aclarar la denuncia –que finalmente resultó siendo falsa-, contribuyeron a la confusión y facilitaron el revés electoral para el oficialismo.

Pero Estados Unidos y la derecha no lograron completamente lo que querían. El estrecho margen por el que perdió el SI impidió que los llamados a que Morales renunciara pudieran materializarse. Empero, esta fue la primera vez que los partidos opositores se subsumieron en las llamadas “plataformas ciudadanas” y el accionar desestabilizador de un grupo de medios de comunicación, así como en el movimiento activo de las redes sociales.

Imposibilitados por refutar el éxito del modelo económico boliviano, que por cuarta vez consecutiva alcanzó en 2017 el mayor crecimiento de la región y que este 2018 volvería a ratificar ese sitial, y con una buena gestión a pesar de enfrentar algunos problemas, como la disminución del precio de las materias primas, Estados Unidos y la derecha boliviana se encuentran desplegando ahora su tercer gran intento de revertir la revolución boliviana.

El motivo empleado esta vez es la defensa del resultado del referéndum del 21 de febrero de 2016 y, por tanto, el rechazo a la anunciada candidatura de Evo Morales para las elecciones de 2019. La razón de fondo es interrumpir la continuidad del proceso de cambio. Las herramientas empleadas son las “plataformas ciudadanas”, cuyo desplazamiento dentro y fuera del país cuentan con el apoyo financiero de partidos opositores y de agencias estadounidenses como el NDI, IRI y la NED, y según hay indicios también de algunas europeas.

Este tercer gran intento desestabilizador también está camino a estructurar un frente internacional injerencista, a través de la OEA y la CIDH, el gobierno y el congreso de los Estados Unidos. Por eso no es casual que a fines de noviembre del pasado año la administración Trump y la congresista republicana Ileana Ros-Lehtinen se hayan pronunciado en contra de la sentencia constitucional que, sobre la base de la Constitución y la Convención Americana, habilita a todas las autoridades electas, nacionales y subnacionales, a postularse para la reelección indefinida. El Secretario General de la OEA, Luis Almagro, un activo militante contra la revolución venezolana y los gobiernos de izquierda, también se ha pronunciado contra la sentencia del TCP.

En realidad, el artículo 23 de la Convención Americana de DDHH citado en sentencia del #TCP de #Bolivia no contempla el derecho a perpetuarse en el poder. Además, la reelección presidencial fue rechazada en referendo por voluntad popular en #21F de 2016”, escribió en su cuenta de Twitter el secretario del organismo.

La elaboración de un informe por parte de la Comisión de Viena a pedido de la OEA, donde se afirma que la reelección no es un derecho humano, forma parte de las condiciones en las que busca apoyarse lam derecha boliviana.

Lo que si llama la atención es que desde 2006, esta es la primera vez que el Departamento de Estado hace conocer un comunicado en la que insta a Morales a desistir de ser candidato en 2019. “El pueblo de Bolivia ha hablado claro. Estados Unidos les apoya e insta al actual Gobierno de Bolivia a que respete el resultado de esos referendos”, dice textualmente la administración Trump, al afirmar que hay un “paso atrás en la democracia” boliviana.

En la misma dirección se pronunció la congresista republicana Ros-Lehtinen, quien señaló que Estados Unidos no debe quedarse callado y que debe ” enviar un mensaje claro de apoyo al pueblo” boliviano. La legisladora estadounidense se pronunció casi con las mismas palabras injerencistas el 7 de diciembre de 2017 y el 21 de julio de este año.

Por tanto, el pronunciamiento del Departamento de Estado de los Estados Unidos, las posiciones del Secretario General de la OEA y el movimiento en el Congreso estadounidense representan, sin dudas, acciones de un mismo plan contra el proceso de cambio. Esto recién empieza.

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