Colonialismo 2.0 in America Latina e nei Caraibi: che fare?

Rosa Miriam Elizalde http://www.cubadebate.cu

Testo integrale dell’intervento al Seminario internazionale America Latina in disputa.

Come proiettiamo un’immagine del futuro della sinistra in queste cittadinanze eteree che produce il colonialismo 2.0, capaci di mobilitarsi per il miagolio di un gatto, ma anestetizzate di fronte alla morte o alla fame di milioni di esseri umani? Come comunichiamo con i giovani che hanno incorporato nel loro DNA la cultura digitale? Come comunichiamo la politica in modo che non sia un’astrazione o uno sbadiglio?

Dagli anni ’90 del secolo scorso, Herbert I. Schiller ha dato per assodata l’esistenza di un “Impero Nordamericano Emergente”, i cui missionari vivono ad Hollywood. “È un impero con un minimo di sostanza morale, ma Hollywood è solo la zona più visibile di questo impero. Esiste già una vasta ed attiva coalizione di interessi governativi, militari ed imprenditoriali che comprendono le industrie informatica, dell’informazione e dei media. La percezione del mondo che hanno questi attori è decisamente elettronica.”[1]

Nel 1993 si è instaurata negli USA la politica per lo sviluppo dell’infrastruttura dell’informazione nazionale (NII) [2] e da allora l’industria corporativa della comunicazione ha risposto alle promettenti opportunità con un frenetico processo di fusioni e concentrazioni, accumulando risorse e capitali in enormi società. Queste sono state accompagnate da una serie di affrettate aste dello spettro radiofonico, vinte dai giganti delle telecomunicazioni. Una volta assicurate queste condizioni materiali, con i giganti delle comunicazioni del settore privato preparati ed incoraggiati a sfruttare al massimo le appena nate reti digitali, si sono create le condizioni per realizzare ciò che il Capo delle Operazioni dell’Atlantico degli USA, Hugh Pope, ha dichiarato nel 1997: “Il messaggio è che non c’è nazione sulla faccia della terra che non possiamo raggiungere”. [3]

Mai è stato più imperiale, gli USA, di quando si è convertito in zar di Internet e ci ha imposto un modello di connettività dipendente dalle logiche del mercato e dalla depredazione ecologica, che codifica i rapporti umani, li trasforma in dati e, quindi, in merci che producono valore. I dati isolati non dicono nulla, ma l’enorme massa di dati aggregati in una piattaforma acquisisce un valore inusitato e controverso, in una società che transita, acceleratamente, dalla produzione e commercio di beni e servizi fisici verso i servizi digitali.

La nuova ed intensa concentrazione comunicativa e culturale è molto più globale di quella delle industrie culturali transnazionali o nazionali che conoscevamo. Una singola azienda privata USA, per esempio, decide come spende un quarto della popolazione mondiale, circa 50 milioni di ore al giorno [4]. Il suo valore differenziale è che gli utenti crescano a ritmi vertiginosi con tassi giganteschi, non solo in numeri grezzi bensì in densità e portata.

Quattro delle cinque applicazioni più utilizzate nei cellulari del mondo -Facebook, Instagram, Whatsapp e Messenger-, appartengono alla società fondata da Mark Zuckerberg e raccolgono dati monetizzabili in modo permanente. Nel primo trimestre del 2018 e nonostante gli scandali degli ultimi tempi e le esplosioni nella borsa di Wall Street, Facebook ha fatturato 11790 milioni di $, quasi quattro miliardi di più (49%) rispetto ad un anno fa. Di questo totale, circa il 98,5% proviene dalla pubblicità [5].

Google, da parte sua, realizza circa il 92% delle ricerche su Internet, un mercato valutato in oltre 92 miliardi di dollari [6]. Le 10 aziende più potenti e ricche del mondo -cinque delle quali nel settore delle telecomunicazioni- hanno un introito combinato di 3,3 trilioni di dollari, pari al 4,5% del PIL mondiale. La sola Apple equivale al PIL di 43 paesi africani (un trilione di dollari). In effetti, secondo i dati della Banca Mondiale [7], ci sono solo 16 paesi con un PIL pari o superiore all’attuale valore di mercato di Apple.

Al momento, ci sono poche istituzioni pubbliche a livello nazionale o globale che possono affrontare questi mostruosi poteri transnazionali, che hanno drammaticamente alterato la natura della comunicazione pubblica. Non c’è Stato-nazione che possa rimodellare la rete da solo o frenare il colonialismo 2.0, anche quando applichi normative locali di protezione antimonopolistiche ed impeccabili politiche di sostenibilità in ordine sociale, ecologico, economico e tecnologico. Ancora meno può costruire un’alternativa praticabile disconnessa dalla cosiddetta “società dell’informazione” [8], la cui ombra -intangibile, ma non per questo non meno reale- giunge addirittura a coloro che sono fuori da Internet.

Secondo la Commissione Economica per l’America Latina ed i Caraibi (CEPAL), la nostra regione è la più dipendente dagli USA in termini di traffico Internet. L’80% dell’informazione elettronica della regione passa per qualche nodo amministrato direttamente o indirettamente dagli USA, principalmente dal cosiddetto “NAP delle Americhe” di Miami -il doppio dell’Asia e quattro volte la percentuale d’Europa- e si stima che tra l’80 ed il 70% dei dati che sono scambiati internamente dai paesi dell’America Latina e dei Caraibi, vanno anche a città USA, dove si ubicano 10 dei 13 root server che compongono il codice maestro di Internet [9] .

L’America Latina è la più arretrata nella produzione di contenuti locali, tuttavia è leader nella presenza di utenti Internet nelle reti sociali. Dei 100 siti Internet più popolari nella regione, solo 21 corrispondono a contenuti locali, il che significa che, invece di creare ricchezza per la regione, il continente trasferisce ricchezza negli USA, dove sono ospitate le grandi compagnie Internet. Gli esperti assicurano che uno degli aspetti più significativi della cultura digitale latinoamericana è l’uso intensivo delle reti sociali. In effetti, alcuni paesi della regione uguagliano e addirittura superano l’uso delle reti sociali dei paesi sviluppati. Dei dieci paesi con il maggior tempo trascorso nelle reti sociali, cinque di loro erano latinoamericani, ranking (classifica) guidata da utenti brasiliani, argentini e messicani con 4 ore al giorno [10].

Il 28% dei latinoamericani vive in situazione di esclusione sociale nella regione [11], tuttavia, il numero di utenti Internet si è triplicato in quella fascia di popolazione rispetto ai cinque anni precedenti. Nove su dieci latinoamericani possiedono un telefono cellulare. Secondo un’indagine della Banca Inter-Americana di Sviluppo (2017), il 57% delle persone che hanno difficoltà a procurarsi il cibo sono molto attive su Facebook e WhatsApp, il che indica che possiedono uno smartphone nelle loro case. Il 51% di quelle che hanno ammesso di non avere acqua potabile nelle proprie case anche usano frequentemente le reti sociali [12].

Non è lo stesso divario digitale da divario economico. L’accesso ad Internet non è lo stesso che la capacità di collocare le cosiddette Nuove Tecnologie in funzione dello sviluppo di un continente profondamente diseguale. La mancanza di competenze digitali e l’impossibilità di sfruttare il potenziale delle nuove tecnologie contribuisce a perpetuare questo stato di vulnerabilità, anche quando i poveri abbiano nelle loro mani i nuovi dispositivi.

Parlando molto precocemente su questi temi, l’antropologo brasiliano Darcy Ribeiro avvertiva che, per mano di una tecnologia rivoluzionaria, “c’è una vera colonizzazione in corso. Il Nord America sta compiendo il suo ruolo con enorme efficacia nel senso di cercare complementarietà che ci faranno dipendenti, in modo permanente, da loro…” E aggiunge:”Vedendo questa nuova civilizzazione e tutte le sue minacce, ho timore che, ancora una volta, siamo popoli che non evolvano, popoli che nonostante tutte le loro potenzialità rimangono come popoli di seconda classe”. [13]

Gli USA e la sua Operazione di “connettività efficace” per l’America Latina

 

Questa è una prima occhiata al problema. Vediamo una seconda: questo scenario è incatenato ad un più ampio programma, per l’America Latina e Caraibi, di controllo dei contenuti e degli ambienti di partecipazione della cittadinanza che è stato eseguito con totale impunità, senza che la sinistra gli abbia prestato la più minima attenzione Nel 2011, il Comitato per le Relazioni Estere del Senato USA ha approvato ciò che in alcuni ambienti accademici è noto come operazione di “connettività efficace”. Si tratta di un piano, dichiarato in un documento pubblico del Congresso USA, per “espandere” i Nuovi Media Sociali nel continente, incentrati sulla promozione degli interessi USA nella regione.

Il documento spiega qual è l’interesse degli USA nelle cosiddette reti sociali del continente: “Con oltre il 50% della popolazione mondiale al di sotto dei 30 anni, i nuovi social media e le tecnologie associate, così popolari all’interno di questo gruppo demografico, continueranno a rivoluzionare le comunicazioni in futuro. I social media e gli incentivi tecnologici in America Latina sulla base delle realtà politiche, economiche e sociali saranno cruciali per il successo degli sforzi del governo USA nella regione.” [14]

Questo documento riassume la visita di una commissione di esperti in diversi paesi dell’America Latina per conoscere, in situ, le politiche ed i finanziamenti in quest’area, oltre ad interviste con i dirigenti delle principali compagnie Internet e funzionari USA. Si conclude con specifiche raccomandazioni per ciascuno dei nostri paesi, che implicano “aumentare la connettività e ridurre al minimo i rischi critici per gli USA. Per questo, il nostro governo deve essere il leader negli investimenti in infrastrutture” [15]. E aggiunge: “Il numero di utenti dei social media aumenta in modo esponenziale e come la novità si converte nella norma, le possibilità di influire sul discorso politico e nella politica in futuro sono lì” [16]

Cosa c’è dietro questo modello di “connettività efficace” per l’America Latina? La visione strumentale dell’essere umano, suscettibile di essere dominata dalle tecnologie digitali; la certezza che in nessun caso le cosiddette piattaforme sociali sono un servizio neutrale che sfruttano un servizio generico (come un elettrodomestico, una lingua, un cucchiaio …), ma che si fondano su basi tecnologiche ed ideologiche e sono sistemi istituzionalizzati ed automatizzati che, inevitabilmente, progettano e manipolano le connessioni.

Pochi mesi fa, Facebook ha finalmente riconosciuto che è un mezzo di comunicazione, dopo anni col presentarsi come piattaforma di servizi generici [17]. Speriamo che finisca la confusione che ha regnato nei circuiti accademici negando di vedere la multinazionale per ciò che è, cioè il Humpty Dumpty di questi giorni. Come ricorderanno, 153 anni fa in ‘Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie’, Lewis Carroll ha messo sulle labbra di Marc Zuckerberg, di quel tempo, una frase molto attuale: “Quando io uso una parola significa quello che io decido che significhi, né più né meno.”

Ciò che il governo USA calcola con la sua “operazione di connettività efficace” è la possibilità che questi strumenti creino una simulazione di base ed a partire da lì crollino i sistemi politici che non gli sono convenienti. Quale parte dell’operazione di “connettività efficace” ha operato dalle reti sociali nella situazione che oggi vivono Venezuela e Nicaragua, e prima abbiamo visto in Bolivia, Brasile, Ecuador ed Argentina?

Quando la politica è tecno-politica

 

Solo le grandi aziende hanno la capacità di elaborazione per processare le colossali quantità di dati che lasciamo nelle reti sociali, ad ogni clic sui motori di ricerca, telefoni cellulari, schede magnetiche, chat ed e-mail. La sommatoria delle tracce e l’elaborazione dei dati consente loro di creare valore. Più connessioni, più capitale sociale. Ma gli interessi fondamentali dell’apertura dei dati e dell’invito a “condividere”, a dare un “mi piace” o “non mi piace” a “ritweettare”, ecc, non sono quelli degli utenti, ma quelli delle corporazioni.

Questo potere offre ai proprietari un enorme vantaggio sugli utenti nella battaglia per il controllo delle informazioni. Cambridge Analytica, filiale londinese di un’impresa appaltatrice USA dedita ad operazioni militari in rete attiva, da un quarto di secolo, è intervenuta in circa 200 elezioni in metà mondo. Il modus operandi era quello delle “operazioni psicologiche”. Il suo obiettivo era far cambiare l’opinione della gente ed influenzarla, non attraverso la persuasione, ma attraverso il “dominio informativo”. La novità non è l’uso di volantini, Radio Free Europe o TV Martí, ma il Big Date e l’Intelligenza Artificiale che consentono racchiudere ciascun cittadino, che lascia tracce sulla rete, in una bolla osservabile, parametrizzata e prevedibile.

Coloro che seguono questa trama avranno visto che Cambridge Analytica ha riconosciuto di essere stata coinvolta nei processi elettorali contro i leader della sinistra in Argentina, Colombia, Brasile e Messico. In Argentina, ad esempio, ha partecipato alla campagna di Mauricio Macri nel 2015. Si sono denunciati i collegamenti del Capo del Gabinetto del Presidente e dell’attuale Capo della Agenzia Federale d’Intelligence con tale società che ha creato dettagliati profili psicologici ed ha identificato persone permeabili ai cambiamenti di opinione per poi influire attraverso notizie false e selezione parziale dell’informazione. Non appena salito al potere, Macri, tra altri decreti con i quali ha troncato la base giuridica ed istituzionale della comunicazione forgiata nei governi di sinistra in Argentina, ha approvato uno che gli ha permesso di rimanere con i database degli organismi ufficiali per l’utilizzarli in campagne a suo favore [18].

Ciò che dimostra tutto ciò è che anche in America Latina e nei Caraibi la politica si è convertita in tecno-politica, nella sua variante più cinica. Con totale impudenza, i governi di destra che si sono reinseriti negli ultimi anni si vantano di avere squadre di comunicazione assunte a Miami, Colombia e Brasile. Lo stesso Alexander Nix, CEO di Cambridge Analytica, si vantava davanti ai propri clienti latino-americani che per convincere “non importa la verità, è necessario che ciò che si dica sia credibile” e ha sottolineato un fatto empirico indiscutibile: il discredito della pubblicità commerciale di massa è direttamente proporzionale all’aumento della pubblicità sui social media, altamente personalizzata e brutalmente efficace.

Ora, ho l’impressione che con Cambridge Analytica stia accadendo quanto avvenuto con Blackwater, l’esercito delle guerre USA. Cadde in disgrazia per servire, in modo efficiente, all’operazione di rendere invisibile l’industria mercenaria di sub contrattisti dediti ai compiti di sicurezza, intelligence, manutenzione o addestramento, che si è ampliata e continua ad essere molto utile al governo USA ed ai suoi alleati.

Prendetevi la briga di controllare la pagina dei partner di Facebook (Facebook Marketing Partners) e scopriranno centinaia di aziende che si dedicano all’acquisto e vendita di dati e scambiarli con la società del pollice azzurro (FB ndt). Alcune addirittura si sono specializzate in aree geografiche o paesi come Cisneros Interative –del Gruppo Cisneros, naturalmente, lo stesso che ha partecipato al colpo di stato contro Chavez nel 2002- rivenditore di Facebook, che già controlla il mercato della pubblicità digitale in 17 paesi dell’America Latina e dei Caraibi.

Cosa fare contro il Colonialismo 2.0

 

La comunicazione non è una questione di tecnologie, ma anche di esse. Devi stare per la strada, bussare porta a porta come ha appena fatto Morena in Messico, affinché la politica si esprima nelle reti sociali e faccia fronte alla restaurazione conservatrice e all’offensiva imperiale. Ma lo scenario digitale è solo un modo, per nulla trascurabile, per la riconnessione della sinistra con le sue basi, in particolare con i giovani. Come ha recentemente dichiarato a L’Avana il cineasta argentino Tristan Bauer, “le reti non sono decisive per vincere, ma sì restano sempre molto utili al momento che perdiamo le elezioni” [19].

Questi temi, purtroppo, sono ancora lontani dai dibattiti professionali e dai programmi dei movimenti progressisti del continente. Eccedono i discorsi demonizzanti o , al contrario, ipnotizzati, che ci descrivono la nuova civilizzazione tecnologica -per usare il termine di Darcy Ribeiro-, ma mancano strategie e programmi che ci permettano sfidare ed intervenire nelle politiche pubbliche e generare linee di azione e lavoro definite per costruire un modello veramente sovrano dell’informazione e della comunicazione nel nostro continente.

Mettiamo all’orizzonte compiti concreti. Ancora non si è ottenuto concretare nella regione un canale proprio di fibra ottica, che era un sogno di UNASUR e rimane un problema in sospeso in America Latina [20]. Non abbiamo una strategia sistemica né un quadro giuridico omogeneo ed affidabile che riduca al minimo il controllo USA, assicuri che il traffico della rete si interscambi tra paesi vicini, incoraggi l’uso di tecnologie che garantiscono la riservatezza delle comunicazioni, preservi le risorse umane nella regione e sopprima gli ostacoli alla commercializzazione degli strumenti digitali, contenuti e servizi digitali prodotti nel nostro intorno.

Sfortunatamente, non sono stati fatti progressi in un’agenda comunicativa comune, sovranazionale. Se parliamo di comunicazioni, di governance di Internet, di copyright, di temi che sono strategici per il futuro come la sovranità tecnologica, l’innovazione, lo sviluppo della nostra industria culturale, l’importanza di incorporare le estetiche contemporanee nella nostra narrazione politica, necessariamente avremo da mettere insieme un’agenda comune e spazi in cui questa si concretizzi.

Abbiamo bisogno di reti di osservatori che, oltre a fornire indicatori di base e avvisi sulla colonizzazione del nostro spazio digitale, permettano di recuperare e socializzare le buone pratiche nell’uso di queste tecnologie e delle azioni di resistenza nella regione, a partire dalla comprensione che il successo o il fallimento di fronte a queste nuove disuguaglianze dipende da decisioni politiche.

È improbabile che un paese del sud da solo -ed ancor meno un’organizzazione isolata- possa trovare risorse per sfidare il potere della destra che si mobilita alla velocità di un clic, ma un blocco di professionisti, organizzazioni, movimenti e governi di sinistra avranno maggiore capacità di sviluppare livelli di risposta, per lo meno per affermare la sovranità regionale in alcune aree critiche. Consentirebbe più potere di negoziazione di fronte alle potenze dell’Intelligenza Artificiale e Big Data e delle loro società, oltre a sfidare le istanze globali in cui sono definite le politiche di governance. Dobbiamo appropriarci dei big data, compagni.

Costa molto meno organizzare un comando centrale comunicativo piuttosto che finanziare un canale televisivo. Pertanto, dovrebbe essere una questione chiave nei dibattiti politici e professionali sulla comunicazione ed, in particolare, in quelli in cui si discutono l’equità e lo sviluppo, la creazione di una scuola di comunicazione politica della sinistra dell’America Latina e dei Caraibi, che ci permetta condividere conoscenze sulle trame di potere dietro ai media, della necessità di democratizzarli e delle opportunità offerte dalle nuove tecnologie dell’informazione.

Perché ci sono opportunità e ci sono specialisti molto preparati con i loro piccoli cuori a sinistra, debitamente condannati dagli eretici -come diceva Roque Dalton. Ci sono, come ci sono esperienze paradigmatiche della sinistra nell’articolazione delle reti, ma a volte passano come comete solitarie per le nostre vite e non istituiscono nulla o quasi nulla.

Mi sono fermato nelle lacune del dibattito per stimolare tra di noi la percezione del rischio. Quel dibattito su apocalittici ed integrati alla cultura di massa è stato superato da un pò. Quel mondo stabile che descriveva Umberto Eco già non esiste più. Ci sono diversi mondi all’orizzonte e uno può essere quello in cui arriviamo a creare i nostri stessi strumenti di liberazione. Ma la ricerca e la costruzione di alternative non è un problema tecnico-scientifico, dipende come ho detto prima dall’ “agire collettivo” a breve e medio termine, con prospettive tattiche e strategiche nella comunicazione faccia a faccia e virtuale, che facilitino il cambio delle relazioni sociali e delle strutture tecniche a favore dei nostri popoli.

Facciamolo, perché non abbiamo molto tempo.


Colonialismo 2.0 en América Latina y el Caribe: ¿Qué hacer?

Por: Rosa Miriam Elizalde

Texto íntegro de la intervención en el Seminario internacional América Latina en disputa.

¿Cómo proyectamos una imagen de futuro de la izquierda en estas ciudadanías etéreas que produce el colonialismo 2.0, capaces de movilizarse por el maullido de un gato pero anestesiadas frente a la muerte o el hambre de millones de seres humanos? ¿Cómo nos comunicamos con los jóvenes que tienen incorporados en su ADN la cultura digital? ¿Cómo comunicamos la política para que no sea una abstracción o un bostezo?

Desde la década del 90 del siglo pasado, Herbert I. Schiller daba por sentado la existencia de un “Imperio Norteamericano Emergente”, cuyos misioneros viven en Hollywood. “Es un imperio con un mínimo de substancia moral, pero Hollywood es solo la zona más visible de ese imperio. Existe ya una amplia y activa coalición de intereses gubernamentales, militares y empresariales que abarcan las industrias informática, de la información y de medios de comunicación. La percepción del mundo que tienen estos actores es decididamente electrónica.”[1]

En 1993 se instauró en Estados Unidos la política para el desarrollo de la infraestructura de la información nacional (NII)[2] y desde ese momento la industria corporativa de la comunicación respondió́ a las prometedoras oportunidades con un frenético proceso de fusiones y concentraciones, acumulando recursos y capital en enormes compañías. Estas fueron acompañadas por una serie de subastas precipitadas del espectro radiofónico, ganadas por los gigantes de las telecomunicaciones. Una vez aseguradas estas condiciones materiales, con los gigantes de la comunicación del sector privado preparados y alentados para explotar al máximo las recién nacidas redes digitales, se crearon las condiciones para cumplir lo que el jefe de Operaciones del Atlántico de los Estados Unidos, Hugh Pope declaró en 1997: “El mensaje es que no hay nación sobre la faz de la tierra a la que no podamos llegar”.[3]

Nunca fue más imperial Estados Unidos que cuando se convirtió en zar de Internet y nos impuso un modelo de conectividad dependiente de las lógicas del mercado y la depredación ecológica, que codifica las relaciones humanas, las transforma en datos y, por tanto, en mercancías que producen valor. Los datos aislados no dicen nada, pero la enorme masa de datos agregados en una plataforma adquiere un valor inusitado y controversial, en una sociedad que transita aceleradamente de la producción y comercio de bienes y servicios físicos hacia los servicios digitales.

La nueva e intensa concentración comunicativa y cultural es mucho más global que la de las industrias culturales transnacionales o nacionales que conocíamos. Una sola empresa privada de Estados Unidos, por ejemplo, decide cómo gasta un cuarto de la población mundial cerca de 50 millones de horas diarias[4]. Su valor diferencial es que crecen los usuarios a ritmos vertiginosos con tasas gigantescas, no solo en números brutos sino en densidad y alcance.

Cuatro de las cinco aplicaciones más usadas en los celulares del mundo –Facebook, Instagram, Whatsapp y Messenger– pertenecen a la empresa fundada por Mark Zuckerberg y recaban datos monetizables permanentemente. En el primer trimestre de 2018 y a pesar de los escándalos de los últimos tiempos y los explotes en la bolsa de Wall Street, Facebook facturó 11790 millones de dólares, casi cuatro mil millones más (un 49 por ciento) que hace un año. De ese total, cerca del 98,5 por ciento proviene de la publicidad[5].

Google, por su parte, realiza cerca del 92 por ciento de las búsquedas en Internet, un mercado valorado en más de 92 000 millones de dólares[6]. Las 10 empresas más poderosas y ricas del mundo -cinco de ellas en el negocio de las telecomunicaciones- tienen unos ingresos conjuntos que suman 3,3 billones de dólares, lo que equivale al 4,5 % del PIB mundial. Apple sola equivale al PIB de 43 países africanos (un billón de dólares). De hecho, solo hay 16 países con un PIB igual o superior al valor del mercado actual de Apple, según datos del Banco Mundial[7].

En la actualidad hay pocas instituciones públicas a nivel nacional o global que puedan enfrentar estos monstruosos poderes transnacionales, que han alterado dramáticamente la naturaleza de la comunicación pública. No existe Estado-nación que pueda remodelar la red por sí solo ni frenar el colonialismo 2.0, aún cuando ejecute normativas locales de protección antimonopólicas e impecables políticas de sostenibilidad en el orden social, ecológico, económico y tecnológico. Todavía menos puede construir una alternativa viable desconectado de la llamada “sociedad informacional”[8], cuya sombra –intangible, pero por eso no menos real-, alcanza incluso a quienes están fuera de la Internet.

Según la Comisión Económica para Latinoamérica y el Caribe (Cepal), nuestra región es la más dependiente de los EEUU en términos del tráfico de Internet. El 80 por ciento de la información electrónica de la región pasa por algún nodo administrado directa o indirectamente por Estados Unidos, fundamentalmente por el llamado “NAP de las Américas”, en Miami -el doble que Asia y cuatro veces el porcentaje de Europa-, y se calcula que entre un 80 y un 70 por ciento de los datos que intercambian internamente los países latinoamericanos y caribeños, también van a ciudades estadounidenses, donde se ubican 10 de los 13 servidores raíces que conforman el código maestro de la Internet[9].

América Latina es la más atrasada en la producción de contenidos locales, sin embargo, es líder en presencia de internautas en las redes sociales. De los 100 sitios de Internet más populares en la región, sólo 21 corresponden a contenido local, lo que significa que, en vez de crear riqueza para la región, el continente transfiere riqueza a Estados Unidos donde están alojadas las grandes empresas de Internet. Los expertos aseguran que uno de los aspectos más significativos de la cultura digital latinoamericana es el uso intensivo de las redes sociales. De hecho, algunos países de la región igualan e incluso superan el uso de redes sociales de países desarrollados. De los diez países con mayor tiempo utilizado en redes sociales, cinco de ellos fueron latinoamericanos, ranking que fue liderado por usuarios brasileños, argentinos y mexicanos con 4 horas al día[10].

El 28 por ciento de los latinoamericanos viven en situación de exclusión social en la región[11], sin embargo, la cantidad de usuarios de internet se ha triplicado en esa franja poblacional con respecto a los cinco años precedentes. Nueve de cada diez latinoamericanos posee un teléfono móvil. Según una investigación del Banco Interamericano de Desarrollo (2017), el 57 por ciento de las personas que tienen dificultades para conseguir comida, son muy activas en Facebook y WhatsApp, lo que indica que poseen algún teléfono inteligente en sus hogares. El 51 por ciento de aquellos que admitieron no tener agua potable en sus viviendas, también utilizan frecuentemente las redes sociales[12].

No es lo mismo brecha digital que brecha económica. Acceso a Internet no es lo mismo que capacidad para poner las llamadas Nuevas Tecnologías en función del desarrollo de un continente profundamente desigual. La falta de habilidades digitales y la imposibilidad de aprovechar el potencial de las nuevas tecnologías contribuye a perpetuar ese estado de vulnerabilidad, aun cuando los pobres tengan en sus manos los nuevos artefactos.

Hablando muy tempranamente sobre estos temas, el antropólogo brasileño Darcy Ribeiro alertaba que, de la mano de una tecnología revolucionaria, “hay una verdadera colonización en curso. Norteamérica está cumpliendo su papel con enorme eficacia en el sentido de buscar complementaridades que nos harán dependientes permanentemente de ellos…” Y añade: “Viendo esta nueva civilización y todas sus amenazas, tengo temor de que otra vez seamos pueblos que no cuajen, pueblos que a pesar de todas sus potencialidades se queden como pueblos de segunda.”[13]

Estados Unidos y su Operación de “conectividad efectiva” para Latinoamérica

Ese es una primera mirada del problema. Veamos una segunda: tal escenario está encadenado con un programa más amplio para América Latina y el Caribe de control de los contenidos y de los entornos de participación de la ciudadanía que se ha ejecutado con total impunidad, sin que la izquierda le haya prestado la más mínima atención. En el 2011 el Comité de Relaciones Exteriores del Senado de Estados Unidos aprobó lo que en algunos círculos académicos se conoce como operación de “conectividad efectiva”. Se trata de un plan, declarado en un documento público del Congreso estadounidense, para “expandir” los Nuevos Medios Sociales en el continente, enfocados en la promoción de los intereses norteamericanos en la región.

El documento explica cuál es el interés de los Estados Unidos en las llamadas redes sociales del continente: “Con más del 50% de la población del mundo menor de 30 años de edad, los nuevos medios sociales y las tecnologías asociadas, que son tan populares dentro de este grupo demográfico, seguirán revolucionando las comunicaciones en el futuro. Los medios sociales y los incentivos tecnológicos en América Latina sobre la base de las realidades políticas, económicas y sociales serán cruciales para el éxito de los esfuerzos gubernamentales de EE.UU. en la región.”[14]

Este documento resume la visita de una comisión de expertos a varios países de América Latina para conocer in situ las políticas y financiamientos en esta área, además de entrevistas con directivos de las principales empresas de Internet y funcionarios norteamericanos. Concluye con recomendaciones específicas para cada uno de nuestros países, que implican “aumentar la conectividad y reducir al mínimo los riesgos críticos para EEUU. Para eso, nuestro gobierno debe ser el líder en la inversión de infraestructura”[15]. Y añade: “El número de usuarios de los medios sociales se incrementa exponencialmente y como la novedad se convierte en la norma, las posibilidades de influir en el discurso político y la política en el futuro están ahí.”[16]

¿Qué hay detrás de este modelo de “conectividad efectiva” para América Latina? La visión instrumental del ser humano, susceptible a ser dominado por las tecnologías digitales; la certeza de que en ningún caso las llamadas plataformas sociales son un servicio neutral que explotan un servicio genérico (como un electrodoméstico, un idioma, una cuchara…), sino que se fundan en cimientos tecnológicos e ideológicos, y son sistemas institucionalizados y automatizados que inevitablemente diseñan y manipulan las conexiones.

Hace unos pocos meses Facebook reconoció, finalmente, que es un medio de comunicación, después de años de presentarse como una plataforma de servicios genéricos[17]. Esperemos que termine la confusión que ha reinado en los circuitos académicos negados a ver la multinacional como lo que es, es decir, el Humpty Dumpty de estos días. Como recordarán, hace 153 años en Las aventuras de Alicia en el país de las maravillas, Lewis Carroll puso en labios del Marc Zuckerberg de aquella época un parlamento sumamente actual: “Cuando yo uso una palabra significa lo que yo decido que signifique: ni más ni menos.”

Lo que calcula el gobierno de Estados Unidos con su “operación de conectividad efectiva” es la posibilidad de que esas herramientas creen una simulación de base y a partir de ahí se derrumben sistemas políticos que no les resulten convenientes. ¿Qué parte de la operación de “conectividad efectiva” ha operado desde las redes sociales en la situación que viven hoy Venezuela y Nicaragua, y antes vimos en Bolivia, Brasil, Ecuador y Argentina?

Cuando la política es tecno-política

Solo las grandes empresas tienen la capacidad de cómputo para procesar las colosales cantidades de datos que dejamos en las redes sociales, en cada clic en los buscadores, los móviles, las tarjetas magnéticas, los chats y correos electrónicos. La sumatoria de trazas y el procesamiento de datos les permite crear valor. Cuantas más conexiones, más capital social. Pero los intereses fundamentales de la apertura de los datos y de la invitación a “compartir”, a dar un “me gusta” o “no me gusta”, a “retuiear”, etc., no son los de los usuarios, sino los de las corporaciones.

Este poder da a los propietarios una enorme ventaja sobre los usuarios en la batalla por el control de la información. Cambridge Analytica, rama londinense de una empresa contratista estadounidense dedicada a operaciones militares en red activa desde hace un cuarto de siglo, intervino en unas 200 elecciones en medio mundo. El modus operandi era el de las “operaciones psicológicas”. Su objetivo era hacer cambiar la opinión de la gente e influirla, no mediante la persuasión, sino a través del “dominio informativo”. La novedad no es el uso de volantes, Radio Europa Libre o TV Martí, sino el Big Data y la Inteligencia Artificial que permiten encerrar a cada ciudadano que deja rastros en la red en una burbuja observable, parametrizada y previsible.

Los que siguen esta trama habrán visto que Cambridge Analytica ha reconocido que se involucró en procesos electorales contra los líderes de la izquierda en Argentina, Colombia, Brasil y México. En Argentina, por ejemplo, participaron en la campaña Mauricio Macri en el 2015. ​Se han denunciado los vínculos del Jefe de Gabinete del Presidente y del actual titular de la Agencia Federal de Inteligencia con esta empresa, que creó perfiles psicológicos detallados e identificó a personas permeables a los cambios de opinión para luego influir a través de noticias falsas y selección parcial de la información. Apenas accedió al poder, Macri, entre otros decretos con los que cercenó la base jurídica e institucional de la comunicación forjada en los gobiernos de izquierda en Argentina, aprobó uno que le permitió quedarse con las bases de datos de los organismos oficiales para utilizarlos en campañas a su favor[18].

Lo que demuestra todo esto es que también en América Latina y el Caribe la política se ha convertido en tecnopolítica, en su variante más cínica. Con total impudicia, los gobiernos de derecha que se han reenchufado en los últimos años alardean de contar con equipos de comunicación contratados en Miami, Colombia y Brasil. El propio Alexander Nix, CEO de Cambridge Analytica, se enorgullecía ante sus clientes latinoamericanos de que para convencer “no importa la verdad, hace falta que lo que se diga sea creíble”, y subrayaba un hecho empírico incuestionable: el descrédito de la publicidad comercial masiva es directamente proporcional al aumento de la publicidad en los medios sociales, altamente personalizada y brutalmente efectiva.

Ahora bien, tengo la impresión de que con Cambridge Analytica está ocurriendo lo que con Blackwater, el ejército de las guerras de Estados Unidos. Cayó en desgracia para servir eficientemente a la operación de invisibilizar la industria mercenaria de subcontratistas dedicados a las tareas de seguridad, inteligencia, mantenimiento o entrenamientos, que se ha expandido y sigue siendo muy útil al gobierno estadounidense y a sus aliados.

Tómense el trabajo de revisar la página de los socios de Facebook (Facebook Marketing Partners) y descubrirán cientos de empresas que se dedican a comprar y vender datos, e intercambiarlos con la compañía del pulgar azul. Algunas, incluso, se han especializado en áreas geográficas o países, como Cisneros Interative -del Grupo Cisneros, por supuesto, el mismo que participó en el Golpe de Estado contra Chávez en el 2002-, revendedor de Facebook que ya controla el mercado de la publicidad digital en 17 países de América Latina y el Caribe.

Qué hacer frente al Colonialismo 2.0

La comunicación no es asunto de tecnologías, aunque también. Hay que estar en la calle, tocar puerta a puerta como acaba de hacer Morena en México, para que la política se exprese en las redes sociales y haga frente a la restauración conservadora y la ofensiva imperial. Pero el escenario digital es una vía nada desdeñable para la reconexión de la izquierda con sus bases, particularmente con los jóvenes. Como expresara recientemente en La Habana el realizador argentino Tristan Bauer, “las redes no son determinantes para ganar, pero sí están siendo muy útiles a la hora de que perdamos las elecciones”[19].

Estos temas, desgraciadamente, todavía están lejos de los debates profesionales y de los programas de los movimientos progresistas del continente. Sobran los discursos satanizadores o, por el contrario, hipnotizados, que nos describen la nueva civilización tecnológica -para utilizar el término de Darcy Ribeiro-, pero faltan estrategias y programas que nos permitan desafiar e intervenir las políticas públicas y generar líneas de acción y trabajo definidas para construir un modelo verdaderamente soberano de la información y la comunicación en nuestro continente.

Pongamos en el horizonte tareas concretas. Todavía no se ha logrado concretar en la región un canal propio de fibra óptica, que fue un sueño de la Unasur y sigue siendo una asignatura pendiente en América Latina[20]. No tenemos una estrategia sistémica ni un marco jurídico homogéneo y fiable que minimice el control norteamericano, asegure que el trafico de la red se intercambie entre países vecinos, fomente el uso de tecnologías que garanticen la confidencialidad de las comunicaciones, preserve los recursos humanos en la región y suprima los obstáculos a la comercialización de los instrumentos, contenidos y servicios digitales producidos en nuestro patio.

Desafortunadamente no se ha avanzado en una agenda comunicacional común, supranacional. Si hablamos de comunicaciones, de gobernanza de Internet, de copyright, de temas que son estratégicos para el futuro como la soberanía tecnológica, la innovación, el desarrollo de nuestra industria cultural, la trascendencia de incorporar las estéticas contemporáneas en nuestra narrativa política, necesariamente tendremos que armar una agenda común y espacios donde esta se concrete.

Necesitamos redes de observatorios que, además de ofrecer indicadores básicos y alertas sobre la colonización de nuestro espacio digital, permitan recuperar y socializar las buenas prácticas de uso de estas tecnologías y las acciones de resistencia en la región, a partir de la comprensión de que él éxito o el fracaso frente a estas nuevas desigualdades depende de decisiones políticas.

Es improbable que un país del Sur por sí solo -y mucho menos una organización aislada- pueda encontrar recursos para desafiar el poder de la derecha que se moviliza a la velocidad de un clic, pero un bloque de profesionales, organizaciones, movimientos y gobiernos de izquierda tendría mayor capacidad de desarrollar niveles de respuesta, por lo menos para afirmar soberanía regional en algunas áreas críticas. Permitiría más poder de negociación frente a las potencias en Inteligencia Artificial y Big Data y sus empresas, además de desafiar la instancias globales donde se definen la políticas de gobernanza. Tenemos que apropiarnos de la big data, compañeros.

Cuesta mucho menos organizar un comando central comunicacional que financiar un canal de televisión. Po tanto, debería ser una cuestión clave en los debates políticos y profesionales sobre comunicación, y particularmente, en aquellos donde se discutan la equidad y el desarrollo, la creación de una escuela de comunicación política de la izquierda latinoamericana y caribeña, que nos permita compartir conocimientos sobre las tramas de poder detrás de los medios, la necesidad de democratizarlos y las oportunidades propiciadas por las nuevas tecnologías de la información.

Porque hay oportunidades y hay especialistas muy preparados con su corazoncito a la izquierda, debidamente condenados por herejes -como decía Roque Dalton. Los hay, como también existen experiencias paradigmáticas de la izquierda en la articulación de redes, pero a veces pasan como cometas solitarios por nuestras vidas y no instituyen nada o casi nada.

Me he detenido en los vacíos del debate para estimular entre nosotros la percepción de riesgo. Aquel debate sobre apocalípticos e integrados a la cultura de masas ha sido trascendido hace rato. Ese mundo estable que describía Umberto Eco ya no existe. Hay varios mundos en el horizonte y uno puede ser aquel en el que lleguemos a crear nuestras propias herramientas liberadoras. Pero la búsqueda y construcción de alternativas no es un problema tecnocientífico, depende como dije antes del “actuar colectivo” a corto y mediano plazo, con perspectivas tácticas y estratégicas en la comunicación cara a cara y virtual, que faciliten el cambio de las relaciones sociales y los entramados técnicos a favor de nuestros pueblos.

Hagámoslo, porque no tenemos mucho tiempo.

Notas

[1] Schiller, H. 2006 “Augurios de supremacía electrónica global”. CIC Cuadernos de Información y Comunicación 2006, vol. 11, 167-178 .

[2] Chapman, G; Rotenberg, M. 1993. “The National Information Infrastructure: A Public Interest Opportunity”, Computer Professionals For Social Responsibility, Vol 11, No. 2, Summer 1993.

[3] Pope, H. 1997. “U.S. Plays High-Stakes War Games in Kazakstan”, Wall Street Journal, 16 de septiembre de 1997, p. A-16.

[4] Wagner, K; Molla, R. 2018. “People spent 50 million hours less per day on Facebook last quarter”. Recode.net. Jan 31, 2018. Consultado el 5 de agosto de 2018 en:https://www.recode.net/2018/1/31/16956826/facebook-mark-zuckerberg-q4-earnings-2018-tax-bill-trump

[5] Ibidem.

[6] Mangles, C. 2018. Search Engine Statistics 2018. Smartinsights.com, Jan 30, 2018. Consultado el 5 de agosto de 2018 en:https://www.samartinsights.com/search-engine-marketing/search-engine-statistics/

[7] Alini, E. 2018. “Apple hits $1 trillion in value. Only 16 countries are worth more”. Globalnews.ca, August 2, 2018. Consultado el 5 de agosto de 2018 en:https://globalnews.ca/news/4367056/apple-1-trillion-market-cap/

[8] Adoptamos la definición de Manuel Castells que utiliza esta denominación para contraponer la actual era dominada por las redes informacionales a la sociedad industrial cuyo corazón tecnológico fue la máquina de vapor.

[9] Comisión Económica para América Latina y el Caribe (CEPAL), 2018. La ineficiencia de la desigualdad. Informe en el Trigésimo Séptimo período de sesiones de la CEPAL. La Habana, 7 al 11 de mayo de 2018.

[10] Comisión Económica para América Latina y el Caribe (CEPAL), Datos, algoritmos y políticas: la redefinición del mundo digital (LC/CMSI.6/4), Santiago, 2018. Consultado el 5 de agosto de 2018 en:https://repositorio.cepal.org/bitstream/handle/11362/43477/7/S1800053_es.pdf

[11] “Más de 172,5 millones de afectados por exclusión en América Latina”. El Siglo, Guatemala, 8 de noviembre de 2017. Consultado el 5 de agosto de 2018:http://s21.gt/2017/11/08/mas-de-172-5-millones-de-afectados-por-exclusion-social-en-america-latina-y-el-caribe/

[12] Basco, A. 2017. La tecno-integración de América Latina: instituciones, comercio exponencial y equidad en la era de los algoritmos. Banco Interamericano de Desarrollo (BID).

[13] Rebeiro, D. 1998. “Amerindia hacia el Tercer Milenio”. Oralidad. Lenguas, Identidad y Memoria de América, N° 9, La Habana, mayo, 1998, p. 9.

[14] United States Senate Committee on Foreign Relations. 2011. Latin American Governments Need to “Friend” Social Media and Technology. Committee On Foreign Relations, United States Senate. One Hundred Twelfth Congress. First Session. October 5, 2011. Consultado el 5 de agosto de 2018 en:https://www.gpo.gov/fdsys/pkg/CPRT-112SPRT70501/html/CPRT-112SPRT70501.htm

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] Martínez, A. “Zuckerberg recula: Facebook sí es un medio de comunicación”, ABC, España, 25 de septiembre de 2017. Consultado en:https://www.abc.es/tecnologia/redes/abci-zuckerberg-recula-facebook-si-medio-comunicacion-201612222024_noticia.html

[18] Canal Abierto. 2018 “Cambridge Analytica y ejército de trolls: confirman la manipulación en las elecciones 2015”. Canal Abierto, Argentina, 31 de julio de 2018. Consultado el 5 de agosto de 2018 en:http://canalabierto.com.ar/2018/07/31/cambridge-analytica-y-ejercito-de-trolls-confirman-la-manipulacion-en-las-elecciones-2015/

[19] Bauer, T. 2018. Intervención de Tristan Bauer en el Taller “Comunicación política y medios”, del XXIV Encuentro del Foro de Sao Paulo. La Habana, 16 de julio de 2018. Notas de la autora.

[20] Unasur. “Conectividad y fibra óptica es otro de los objetivos de UNASUR”. s/f. Consultado el 5 de agosto de 2018 enhttp://www.unasursg.org/es/node/152

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