La storia dell’unica sopravvissuta all’incidente aereo a Cuba

José Alejandro Rodríguez http://www.cubadebate.cu

Dopo oltre 70 giorni di una fiera battaglia per la sua vita, Mailén Díaz Almaguer esce dall’ospedale Calixto García, dove ha lasciato un prima e un dopo. Il più difficile è già passato. L’hanno salvata da imprevedibili zampate della morte ed ora inizierà una nuova fase di stabilizzazione e riabilitazione nell’Hermanos Ameijeiras.

Mentre viene trasportata su una barella all’ambulanza, la giovane lancia baci in giro, come solo si può fare a 19 anni. E piange nell’intimo, silenziosamente, con una precoce nostalgia. Da questo lato, piangono anche i primi “guaritori” dell’unica sopravvissuta all’incidente aereo del 18 maggio scorso a L’Avana: medici, infermieri, psicologi ed altri lavoratori del Calixto, contagiati, per sempre, dalla sindrome affettiva che ha lasciato in eredità Mailen. Sentono la sua assenza dopo tante giornate senza orologi né pause per salvarla.

L’ospedale Calixto Garcia, il più esperto e saggio nel trattamento dei pazienti politraumatizzati, ha ricevuto quel pomeriggio di venerdì Mailen, Gretell Landrove Font e Emiley Sanchez De la O. Sarebbe cominciata così un’insolita battaglia, che ha implicato unire una squadra multidisciplinari di medicina, con esperti anche di altre istituzioni sanitarie. Talento e coraggio per prendersi cura dei lesionati di un aereo che si schianta poco dopo il decollo. Sono pochi quelli che si salvano da queste tragedie aeree, ma rimangono dislocate nel corpo e nell’anima di tanta fierezza. E solo Mailén è sopravvissuta.

Il Dr. Esteban Reyes, primario di Medicina Intensiva ed Emergenza, sente anch’egli il trasferimento della paziente al Hermanos Ameijeiras come se fosse qualcosa dal profondo. Non è da poco. Lui ha accompagnato l’eminente Armando González, capo della sala di terapia intensiva del Calixto, nella grande confabulazione per la vita di Mailen, insieme a molti importanti ed esperti medici di diverse discipline ed istituzioni mediche riunite lì.

La sua voce si rompe quando parla della ragazza, ad un professionista che ha visto e trattato così tanta sofferenza umana. Ma ritorna all’equilibrio per spiegare la complessità del caso: lesioni a livello della colonna vertebrale, cervicale, toracica, dorsale, alle estremità, tibia, perone, bacino, ustioni, lesioni a livello del gluteo che hanno richiesto cure e drenaggi frequenti. A causa del coinvolgimento spinale, è rimasta paraplegica ed il suo organismo ha drenato da vari siti, ciò che ha portato complicazioni.

Ci sono stati interventi chirurgici, stabilizzazioni e destabilizzazioni, progressi e battute d’arresto nel suo sistema emodinamico. L’evoluzione non è stata per nulla lineare in una paziente in stato così critico, con costante pericolo per la sua vita e le malattie opportunistiche che compromettono ed immunodeprimono.

Dalla fase di emergenza ed urgenza, mentre si trattava la ragazza con audacia ed approcci medici sistemici, è stata dapprima prestata particolare attenzione ai membri della famiglia, che all’inizio erano in stato di shock e non si muovevano da un locale assegnato nell’ospedale. L’informazione accurata e costante, con prudenza e tatto, ma sempre con la verità in mano. Era una specie di equilibrio tra aspettative reali e speranze. Ciò, oltre alle attenzioni che hanno avuto dai più alti livelli decisionali del paese.

Forza, bisogna continuare a lottare

Tutti nel team multidisciplinare concordano sul fatto che si tratta di una famiglia semplice del popolo, molto collaborativa e unita, con valori umani, cooperazione e ricettività, al di là delle loro pene ed incertezze. Ma, soprattutto, la nonna è stato il pilastro. Una signora di grande sensibilità, forza e fiducia che la sua nipote si sarebbe salvata. Con lo spirito sempre alto. Nei momenti più difficili è state lei che sollevava il resto e diceva: “Forza, bisogna continuare a lottare”.

Tra la squadra e Mailén è andato germinando un dare ed avere, una retroalimentazione bi-univoca che hanno rafforzato gli stoicismi e le rispettive speranze. Non era una paziente comune. Sì, ascoltava e manteneva comunicazione. Anche con una tracheotomia, ed incapace di parlare, parlava, annuiva o negava con i suoi occhi intensi e belli. Rifletteva dolore o gioia. Tutti quelli che l’hanno curata lì confessano che lei è una ragazza molto bella, all’esterno, e in ciò che c’è internamente e la chiamano anima. Lanciava baci ai medici ed infermiere e gli manifestava che gli voleva bene, con i suoi codici emergenti.

Nelle strategie di comunicazione con la paziente e la sua famiglia, ha avuto speciale protagonismo la squadra di psicologi, guidato da Jesús Efraín Ajuria Lauzurique, responsabile di questi servizi al Calixto García. Gli specialisti si sono resi conto che la ragazza era disorientata da un punto di vista temporale e spaziale ed aveva sviluppato una reazione al trauma.

Con grande attenzione, costretti a ristudiare la psicologia dei disastri, sono andati assumendo la problematica di quella che viene chiamata “memoria frammentata”, poiché non esiste ancora un processo di sintesi e di integrazione. Un esempio di questo è che Mailén insisteva che aveva avuto un incidente stradale. E quando gli fu spiegato che era d’aviazione, apriva gli occhi smisuratamente e scuoteva la testa in segno di diniego. A lungo andare, col tempo, lei deve ricostruire il ricordo degli eventi accaduti.

Amputata la gamba, non la speranza

Un momento molto difficile è stata la preparazione per l’amputazione della gamba sinistra, a livello del ginocchio, che nonostante tutti gli sforzi, già comprometteva la sua vita. Prima il trattamento è stato con la famiglia, ma alla paziente, in quella situazione, immunodepressa, non si poteva anticipare nulla di ciò che era essenziale.

Dopo l’operazione, la ragazza indagava sulla sua gamba, come se intuisse qualcosa. E per pulirla le mettevano un separé nel centro del corpo. Le infermiere arrotolavano una coperta sul sito. Ma lei sospettava … E al momento giusto le è stato detto, con molti argomenti ed attenzioni.

Un’altra situazione critica si è verificata due settimane prima che partisse per l’Hermanos Ameijeiras: un peggioramento respiratorio e cardiocircolatorio causato dalla lesione a livello cervicale. E da questo sono usciti progressivamente grazie alla strategia multidisciplinare, fino a quando si è potuta trasferire con il minimo di antibiotici e con la prospettiva, alla fine, di sospenderli.

Fin dall’inizio la comunicazione è stata decisiva. Sono stati ideati molti stratagemmi. In primo luogo, una sorta di alfabeto su un foglio, e chi l’assisteva andava scivolando le sue dita su di esso, lettera per lettera, come in una tavola spiritica fino a che Mailen assentisse con gli occhi a quella indicata. Così, lentamente, si creava una sua frase. Più tardi ha articolato le parole benché non le pronunciasse, ed i suoi interlocutori hanno appreso a leggere i movimenti delle sue labbra.

Una paziente eccezionale

L’eccezionalità di Mailén come paziente è andata rivelandosi con i giorni. Ha notevolmente facilitato il trattamento perché ha espresso il suo consenso e comprensione ad ogni passo, benché avesse dubbi ed incertezze. Sempre la salvava la sua sensibilità, la sua alta componente affettiva, il suo affetto espansivo ed uno stoicismo a tutta prova che è emerso nelle dolorose e cruente cure delle sue lesioni, tra le carezze delle sue infermiere, che nascondevano qualche lacrima.

Loro, che si sono presi cura di lei le 24 ore, si inteneriscono a parlarne. Tutti hanno agito in consonanza con le strategie e gli ordini della squadra medica, ma le hanno insufflato il loro personale respiro. Erano lì, al suo capezzale, vigilandola e curandola come una principessa. E poiché Mailén è dolce e giocherellona, persino presuntuosa, le cambiavano la pettinatura ogni giorno, le mettevano il rossetto, le mettevano le cremine sul viso. Le mettevano forcine nei capelli, le lavavano i capelli con un buono shampoo che portavano dalle loro case.

Tutti la compiacevano. C’erano dottori che le portavano cioccolatini. E persino si è andato a prendere ad Holguin un peluche che l’accompagnava dalla sua infanzia. Le hanno messo un altoparlante per la musica. L’infermiera Evelyn le cantava la canzone Chiquita mía, di Álvaro Torres, che è stato il tema della celebrazione dei 15 anni di Mailén.

Il collettivo può di più

Sono stati più di 70 giorni eccezionali ed una lezione finale: il lavoro collettivo e multidisciplinare può molto di più, rafforza l’esperienza di ciascuno e la sua visione sistemica della medicina, mentre nei momenti più difficili, sviluppa rapporti affettivi non solo con il paziente ed i suoi parenti, ma tra gli stessi membri della squadra. È anche un guadagno umanistico.

Ci sono coincidenze nella vita: Onelia Solano Basulto, psicologa della sala di Terapia Intensiva, con solo 26 anni, aveva iniziato a lavorare lì, al Calixto, poche settimane prima. E la holguinera è stata la sua prova di fuoco, poiché l’ha aiutata a credere, per sempre, che il suo posto è quello, di fronte al difficile ed al teso. Il Dr. Armando Gonzalez, per molti anni capo della Terapia Intensiva, è stato il timoniere di questa rischiosa spedizione per Mailen, prima del pensionamento a 70 anni, e dopo aver visto ed affrontato tutto o quasi tutto. Enigmi quasi genetici della medicina cubana, tra uno che va e un altro che arriva.

Al menzionare Mailen e il suo passaggio verso un’altra fase del recupero e della riabilitazione, tutti quelli che ho intervistato, dal più noto specialista al lavoratore più umile dell’ospedale, hanno confessato che gli manca e sentono come un vuoto da quando li ha lasciati.

Chiedo al professor Ajuria se pensa che un giorno questa singolare paziente apparirà al Callisto. E risponde con un luccichio nei suoi occhi: “Più che apparire qui, la cosa più importante è che Mailén sia una ragazza molto felice senza una gamba. Lei lo merita”.

Confessioni di un dottore

“Lavoro da 30 anni nell’ospedale Calixto García. Ho iniziato come infermiera ed in seguito ho studiato medicina. Mi sono specializzato in Angiologia.

“Il caso di Mailén mi ha costretto e continuerà a costringermi ad essere più integrale come medico, ma anche a elevare la mia sensibilità umana come professionista.

“Ho molta esperienza con gli amputati nella mia specialità. Pensavo che lei sarebbe crollata, perché è una ragazza di soli 19 anni. La maggior parte delle persone si deprime in queste circostanze; tuttavia, lei non è crollata.

“Questa paziente ha portato forti discussioni, e belle allo stesso tempo, nel gruppo multidisciplinare, nonché dibattiti tra le diverse specialità. Avevamo un desiderio feroce di salvarla e nessuno voleva fallire nella sua specialità. Abbiamo imparato più medicina in queste discussioni, perché abbiamo dovuto ricordare e rispolverare conoscenze.

“Anche i professori di Riabilitazione hanno svolto un ruolo vitale. Era uno scambio prezioso, sempre guidato dalla professoressa Olguita, nominata dal Ministero della salute pubblica, e dal nostro direttore dell’epoca, il dott. Carlos Alberto Martínez Blanco.

“Martinez era come l’arbitro, il moderatore. Ci tranquillizzava ed esortava, e sempre ci diceva: “Senza fretta, ma senza pausa”.

La cosa positiva, ora che Mailén è nell’Hermanos Ameijeiras, è che il Professor Pardo, responsabile della Terapia Intensiva di quell’ospedale, faceva parte della nostra squadra sin dall’inizio. E lui conosce questa storia tanto quanto noi. Con lui abbiamo imparato come si discute un caso. Io rispetto molto con quale carisma e tecnica questo professore dà un giudizio.

Il giorno in cui hanno trasferito Mailén è stato molto triste. È che non eravamo più pazienti e professionisti sanitari. Eravamo più che famiglia. Non l’abbiamo più vista.

Se me lo chiedono, direi che ci sarebbe piaciuto che la guarigione si fosse conclusa al Calixto, ma abbiamo anche capito che l’ospedale aveva già adempiuto alla sua missione, che era quella di preservare la sua vita. Molti di noi vorrebbero tornare a prenderci cura di lei. La cosa più importante è la soddisfazione di aver apportato il nostro nella sua evoluzione”. (Dott. Ifrán Martínez Gálvez, vicedirettore dell’ospedale Calixto García)

Ospedale di riferimento

L’ospedale Calixto García è l’istituzione medico-docente più antica e di maggior tradizione del nostro paese, che ha formato, in oltre 120 anni, migliaia di professionisti e tecnici sanitari di riconosciuto prestigio.

Conta su una avanzata tecnologia e un gruppo multidisciplinare di medici, professionisti della salute e personale paramedico altamente qualificato ed esperto. Nel corso della sua storia, questo ospedale è stato un pioniere nello sviluppo e nella realizzazione di tecniche diverse ed innovative, ciò che ci ha reso l’ospedale universitario per eccellenza.

Spesso si tiene un congresso per commemorare l’anniversario della sua fondazione, in modo che i ricercatori, operatori sanitari e personale legati alle scienze biomediche provenienti da tutto il paese e da altre parti del mondo possano riunirsi e condividere esperienze.

La storia del centro risale al gennaio 1896. Si riconosce che ai tempi della colonia svolse un ruolo importante nella sanità militare. La costruzione dell’edificio originale era affidata all’ingegnere Carlos E. Cadalso. All’apertura, aveva solo nove padiglioni e 200 letti.

Secondo le informazioni fornite sul sito web dell’istituzione, attualmente l’ospedale centenario fornisce servizi sanitari in più di 30 specialità e mezzi diagnostici, con un totale approssimativo di oltre 2280 lavoratori di tutte le categorie professionali.

nota:

Questo testo è stato preparato sulla base delle testimonianze dei seguenti membri del collettivo ospedaliero Calixto García: Dr. Ifrán Martínez Gálvez, vicedirettore del centro e angiologo; Dr. Esteban Reyes, specialista in medicina intensiva e di emergenza; Dr. Jorge Ernesto Ruiz, responsabile di Anestesiologia; medico Luis Garcés, nutrizionista; Jesús Efraín Ajuria, capo dei servizi di psicologia; Orlando Castellanos Santiesteban, psicologo di Neurochirurgia, Neurologia itus e Pneumologia; Hary Aguilera Cárdenas, psicologo dell’unità di intervento in caso di crisi; Onelia Solano Basulto, psicologa del reparto terapia intensiva; Alicia Sende Oduardo, responsabile infermieristica dell’ospedale; Grisel Díaz Bacallao, capo del reparto infermieristico della terapia intensiva; Marlene Hernández, infermiera supervisore; Yarisleidy Cobas, capo infermieristica del reparto di nefrologia; Evelyn Sotomayor, infermiera della stanza di Terapia Intermedia, e Dora Álvarez, responsabile Infermia della sala Ustionati.

Aspiriamo, in una seconda puntata, a intervistare i parenti di Mailén. E sogniamo, che un giorno, quando saranno create le condizioni, possiamo intervistarla.

Ringraziamo anche la nostra assistente di redazione Mercedes del Risco, per la sua costanza e generosità nel trascrivere così tante ore di interviste in modo che questa storia potesse essere scritta e pubblicata.

(Tratto da Juventud Rebelde)


La historia de la única sobreviviente del accidente aéreo en Cuba

Por: José Alejandro Rodríguez

Tras más de 70 días de una fiera batalla por su vida, Mailén Díaz Almaguer parte del hospital Calixto García, donde ha dejado un antes y un después. Ya lo más duro ha pasado. La rescataron de impredecibles zarpazos de la muerte, y ahora comenzará una nueva fase de estabilización y rehabilitación en el Hermanos Ameijeiras.

Mientras la trasladan en camilla hacia la ambulancia, la joven lanza besos al aire como solo puede hacerse a los 19 años. Y llora hacia adentro, silenciosamente, con una precoz nostalgia. Del lado de acá, también lloran los “sanadores” primeros de la única sobreviviente del accidente aéreo del 18 de mayo pasado en La Habana: médicos, enfermeras, sicólogos y demás trabajadores del Calixto, contagiados para siempre del síndrome afectivo que les ha legado Mailén. Sienten su ausencia luego de tantas jornadas sin relojes ni descansos por salvarla.

El hospital Calixto García, el más experto y sabio en el tratamiento a pacientes politraumatizados, recibió aquella tarde de viernes a Mailén, a Gretell Landrove Font y a Emiley Sánchez De la O. Comenzaría así un insólito combate, que implicó aunar equipos multidisciplinarios de la medicina, con expertos también de otras instituciones de salud. Talento y agallas para atender a lesionados de un avión que se estrella poco después de despegar. Son pocos los que se salvan de esas tragedias aéreas, pero quedan dislocados en cuerpo y alma de tanta fiereza. Y solo sobrevivió Mailén.

El doctor Esteban Reyes, profesor principal de Medicina Intensiva y Emergencia, también siente el traslado de la paciente hacia el Hermanos Ameijeiras como si se le fuera algo de muy adentro. No es para menos. El acompañó al eminente Armando González, jefe de la sala de Terapia Intensiva del Calixto, en la gran confabulación por la vida de Mailén, junto a tantos notables y expertos galenos de distintas disciplinas e instituciones médicas reunidos allí.

Se le quiebra la voz cuando habla de la muchacha a un profesional que ha visto y tratado tanto sufrimiento humano. Pero retorna al equilibrio para explicar la complejidad del caso: lesiones a nivel de columna, cervical, torácica, dorsal, en extremidades, tibia, peroné, pelvis, quemaduras, lesiones a nivel de glúteo, que requirieron de curas y drenajes frecuentemente. Por la afectación medular, quedó parapléjica, y su organismo drenó por diversos sitios, lo que trajo complicaciones.

Hubo intervenciones quirúrgicas, estabilizaciones y desestabilizaciones, avances y retrocesos en su sistema hemodinámico. La evolución no fue nada lineal en una paciente en estado tan crítico, con constantes peligros para su vida y las enfermedades oportunistas que comprometen e inmunodeprimen.

Desde la fase de emergencia y urgencia, mientras se trataba a la joven con denuedo y enfoques médicos sistémicos, se priorizó la atención esmerada a los familiares, que al principio estaban en estado de shock y no se movían de un local asignado en el hospital. La información precisa y constante, con prudencia y tacto, pero siempre con la verdad en la mano. Era una especie de equilibrio entre expectativas reales y esperanzas. Eso, además de las atenciones que tuvieron desde los más altos niveles de decisión del país.

Vamos, hay que seguir luchando

Todos en el equipo multidisciplinario coinciden en que es una familia sencilla de pueblo, muy colaborativa y unida, con valores humanos, cooperación y receptividad, por encima de sus penas e incertidumbres. Pero, especialmente, la abuela fue el pilar. Una señora de gran sensibilidad, fortaleza y confianza en que su nieta se salvaría. Con el ánimo siempre arriba. En los momentos más difíciles era quien levantaba al resto, y decía: “Vamos, hay que seguir luchando”.

Entre el equipo y Mailén fue germinando un toma y daca, una retroalimentación biunívoca que fortalecieron los estoicismos y esperanzas respectivos. No era una paciente común. Sí escuchaba, y mantenía comunicación. Aún con una traqueotomía, y sin poder hablar, hablaba, asentía o negaba con sus ojos intensos y bellos. Reflejaba pena o alegría. Todos los que la atendieron allí confiesan que es una muchacha muy hermosa, en lo externo, y en eso que va por dentro y le dicen alma. Tiraba besos a médicos y enfermeras, y les manifestaba que los quería, con sus códigos emergentes.

En las estrategias de comunicación con la paciente y su familia tuvo especial protagonismo el equipo de sicólogos, liderado por Jesús Efraín Ajuria Lauzurique, jefe de esos servicios en el Calixto García. Los especialistas fueron percatándose de que la joven estaba desorientada desde el punto de vista temporal y espacial, y había desarrollado una reacción al trauma.

Con sumo cuidado, obligados a restudiar la sicología de desastres, fueron asumiendo la problemática de lo que se denomina “memoria fragmentada”, pues todavía no hay un proceso de síntesis e integración. Un ejemplo de esto es que Mailén insistía en que había tenido un accidente de carretera. Y cuando se le explicó que era de aviación, abría los ojos desmesuradamente, movía la cabeza en signo de negación. A la larga, con el tiempo, ella debe reconstruir la memoria de los hechos acaecidos.

Amputada la pierna, no la esperanza.

Un momento muy difícil fue la preparación para la amputación de la pierna izquierda, al nivel de la rodilla, que a pesar de todos los esfuerzos, ya comprometía su vida. Primero el tratamiento fue con la familia, pero a la paciente, en esa situación que tenía, inmunodeprimida, no se le podía anticipar nada sobre lo que resultaba imprescindible.

Después de la operación, la muchacha indagaba por su pierna, como que intuía algo. Y para asearla le ponían un parabán en la mitad del cuerpo. Las enfermeras le enrollaban una colcha en el sitio. Pero ella sospechaba… Y en el momento indicado fue que se le comunicó, con muchos argumentos y cuidados.

Otra situación crítica se dio dos semanas antes de que marchara hacia el Hermanos Ameijeiras: un empeoramiento respiratorio y cardiocirculatorio producto de la lesión a nivel cervical. Y de este fueron saliendo de forma progresiva gracias a la estrategia multidisciplinaria, hasta que se pudo marchar con el mínimo de antibióticos y con la perspectiva de suspenderlos al final.

Desde un principio la comunicación fue decisiva. Se idearon muchos artilugios. Primero, una especie de alfabeto en una hoja, y quien la atendía iba deslizando sus dedos sobre este, letra a letra, como en una güija, hasta que Mailén asintiera con los ojos en la indicada. Así, lentamente, se armaba una frase de ella. Ya después articulaba las palabras aunque no las pronunciara, y sus interlocutores aprendieron a leer los movimientos de sus labios.

Una paciente excepcional.

La excepcionalidad de Mailén como paciente fue revelándose con los días. Ella facilitó sobremanera el tratamiento porque expresaba su consentimiento y comprensión de cada paso, aunque tuviera dudas e incertidumbres. Siempre la salvaba su sensibilidad, su elevado componente afectivo, su cariño expansivo y una estoicidad a toda prueba, que emergió en las dolorosas y cruentas curas de sus lesiones, entre las caricias de sus enfermeras, que ocultaban una que otra lágrima.

Ellas, que la cuidaban las 24 horas, se enternecen al mencionarla. Todas actuaban en consonancia con las estrategias y órdenes del equipo médico, pero le insuflaban su aliento muy personal. Estaban allí, a su cabecera, velándola y atendiéndola como a una princesa. Y como Mailén es dulce y juguetona, hasta presumida, le cambiaban todos los días de peinado, le pintaban los labios, le echaban cremitas en el rostro. Le ponían hebillas en el pelo, le lavaban el cabello con buen champú que traían de sus casas.

Todo el mundo la complacía. Hubo médicos que le traían bombones. Y hasta se mandó a buscar a Holguín un muñeco de peluche que le acompañaba desde su infancia. Le pusieron una bocinita de música. La seño Evelyn le cantaba la canción Chiquita mía, de Álvaro Torres, que fue tema de la celebración de los 15 de Mailén.

Lo colectivo puede más

Fueron más de 70 días excepcionales y una lección final: el trabajo colectivo y multidisciplinario puede mucho más, fortalece la experiencia de cada quien y su visión sistémica de la medicina, al tiempo que, en los momentos más difíciles, desarrolla las relaciones afectivas no solo con el paciente y sus familiares, sino entre los propios miembros del equipo. Es una ganancia humanista también.

Hay curiosas coincidencias en la vida: Onelia Solano Basulto, sicóloga de la sala de Terapia Intensiva, con apenas 26 años, había comenzado a trabajar allí en el Calixto solo unas semanas antes. Y la holguinera fue su prueba de fuego, pues le ayudó a creer para siempre que su lugar es ese, de cara a lo difícil y tenso. El doctor Armando González, durante muchos años jefe de Terapia Intensiva, fue el timonel de esta expedición arriesgada por Mailén, antes de jubilarse ya con 70 años, y habiéndolo visto y enfrentado todo, o casi todo. Enigmas cuasi genéticos de la medicina cubana, entre uno que parte y otra que llega.

Al mencionar a Mailén y su ida en pos de otra etapa de recuperación y rehabilitación, todos los que encuesté, desde el más encumbrado especialista hasta la trabajadora más humilde del hospital, confesaron que la extrañan y que sienten como un vacío desde que se fue.

Le pregunto al profesor Ajuria si cree que algún día esta singular paciente se aparecerá en el Calixto. Y responde con un brillo en los ojos: “Más que aparecerse por aquí, lo más importante es que Mailén sea una muchacha muy feliz sin su pierna. Ella se lo merece”.

Confesiones de un médico.

“Llevo laborando 30 años en el hospital Calixto García. Comencé de enfermero, y después estudié Medicina. Me especialicé en Angiología.

“El caso de Mailén me obligó y me va a seguir obligando a ser más integral como médico, pero también a elevar mi sensibilidad humana como profesional.

“Tengo mucha experiencia con amputados en mi especialidad. Pensé que ella se iba a desplomar, pues es una muchacha de apenas 19 años. La mayoría de las personas se deprimen en esas circunstancias; sin embargo, ella no se derrumbó.

“Esta paciente trajo discusiones fuertes, y al mismo tiempo hermosas, en el equipo multidisciplinario, así como debates entre las distintas especialidades. Teníamos un afán feroz por salvarla y nadie quería fallar en su especialidad. Aprendimos más medicina en estas discusiones, porque tuvimos que recordar y desempolvar conocimientos.

“Los profesores de Rehabilitación también jugaron un papel vital. Era un intercambio valioso, siempre liderado por la profesora Olguita, designada por el Ministerio de Salud Pública, y por nuestro director entonces, el doctor Carlos Alberto Martínez Blanco.

“Martínez era como el árbitro, el moderador. Él nos calmaba y nos exhortaba, y siempre nos decía: “Sin prisa, pero sin pausa””.

Lo positivo, ahora que Mailén está en el Hermanos Ameijeiras, es que el profesor Pardo, jefe de Terapia Intensiva de ese hospital, fue parte de nuestro equipo desde el comienzo. Y conoce esta historia tanto como nosotros. Con él aprendimos cómo se discute un caso. Yo respeto mucho con qué carisma y técnica este profesor da un criterio.

El día que trasladaron a Mailén fue muy triste. Es que ya no éramos paciente y profesionales de la salud. Éramos más que familia. No la hemos visto más.

Si me preguntan diría que hubiésemos querido que la recuperación hubiera concluido en el Calixto, pero también entendimos que ya el hospital había cumplido su misión, que era preservarle la vida. Muchos de nosotros desearíamos volver a atenderla. Lo más importante es la satisfacción de haber aportado lo nuestro en su evolución”. (Doctor Ifrán Martínez Gálvez, subdirector del hospital Calixto García)

Hospital de referencia.

El hospital Calixto García es la institución médico-docente más antigua y de mayor tradición de nuestro país, en la que se han formado, en sus ya más de 120 años, miles de profesionales y técnicos de la salud de reconocido prestigio.

Cuenta con una tecnología de avanzada y un equipo multidisciplinario de médicos, profesionales de la salud y personal paramédico de alta calificación y experiencia. A lo largo de su historia, este hospital ha sido pionero en el desarrollo e implementación de diversas y novedosas técnicas, lo que nos ha hecho ser el hospital universitario por excelencia.

Con frecuencia se celebra un congreso para conmemorar el aniversario de su fundación, para que los investigadores, trabajadores de la salud y personal afín a las ciencias biomédicas de todo el país y de otras partes del mundo, puedan unirse y compartir experiencias.

Los antecedentes del centro datan de enero de 1896. Se reconoce que en tiempos de la colonia jugó un papel importante en la sanidad militar. La construcción del inmueble original estuvo a cargo del ingeniero Carlos E. Cadalso. Al inaugurarse solo tenía nueve pabellones y 200 camas.

De acuerdo con información ofrecida en el sitio web de la institución, en la actualidad el centenario hospital presta servicios asistenciales en más de 30 especialidades y medios de diagnóstico, con un total aproximado de más de 2 280 trabajadores de todas las categorías ocupacionales.

Nota:

Este texto fue elaborado a partir de los testimonios de los siguientes integrantes del colectivo del hospital Calixto García: doctor Ifrán Martínez Gálvez, subdirector del centro y angiólogo; doctor Esteban Reyes, especialista en Medicina Intensiva y Emergencia; doctor Jorge Ernesto Ruiz, jefe de Anestesiología; doctor Luis Garcés, nutriólogo; Jesús Efraín Ajuria, jefe de los Servicios de Sicología; Orlando Castellanos Santiesteban, sicólogo de Neurocirugía, Neurología Ictus y Neumología; Hary Aguilera Cárdenas, sicólogo de la Unidad de Intervención en Crisis; Onelia Solano Basulto, sicóloga de la sala de Terapia Intensiva; Alicia Sende Oduardo, jefa de Enfermería del hospital; Grisel Díaz Bacallao, jefa de Enfermería de la sala de Terapia Intensiva; Marlene Hernández, enfermera supervisora; Yarisleidy Cobas, jefa de Enfermería de la sala de Nefrología; Evelyn Sotomayor, enfermera de la sala de Terapia Intermedia, y Dora Álvarez, jefa de Enfermería de la sala de Quemados.

Aspiramos, en una segunda entrega, a entrevistar a los familiares de Mailén. Y soñamos con que algún día, cuando estén creadas las condiciones, podamos entrevistarla a ella.

Agradecemos también a nuestra asistente de Redacción Mercedes del Risco, por su constancia y generosidad en transcribir tantas horas de entrevistas para que pudiera redactarse y publicarse esta historia.

(Tomado de Juventud Rebelde)

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