Bolivia: 12 anni di Evo e sovranità

12 anni di dirigenza storica di forza organizzata del popolo e di progetto alternativo

Hugo Moldiz Mercado http://www.cubadebate.cu/opinion

 

Martedì 14 agosto, il presidente Evo Morales ha compiuto, legalmente e legittimamente, il record di permanenza successiva nella conduzione dell’apparato statale boliviano, che lo converte nel fenomeno politico più rilevante della storia nazionale.

Dal gennaio 2006 fino allo scorso 14 agosto, il dirigente indigeno ha compiuto 4578 giorni come presidente della Bolivia. Tra il 2006 ed il 2009 lo ha fatto guidando il vecchio Stato e ora lo Stato Plurinazionale.

Questo eccezionale dirigente ha superato la guida della rivoluzione del ’52, Victor Paz Estennsoro, che ha accumulato 12 anni alla guida del paese in modo discontinuo (1952-1956, 1960-1964 e 1985-1989). Ora ha anche superato il record in maniera continuativa. Ma non solo lo supera in numero di anni alla testa dello Stato a partire dalla fonte democratica, ma nella natura del progetto che promuove. Questa non è una rivoluzione per installare al potere una proto-borghesia, come accaduto nel 1952, ma per costituire un blocco al potere sotto la dirigenza indigena, contadina, operaia e popolare.

Ma il record non è solo per Morales. In realtà, a differenza di altri tipi di governi civili e militari della storia boliviana, il dirigente indigeno sintetizza l’elevazione, a sua categoria di blocco dominante, del blocco indigeno contadino, operaio e popolare. E questo è precisamente ciò che converte il processo di cambio nella rivoluzione più profonda nella storia nazionale.

Come in ogni rivoluzione degna di essere tale, ci sono tre elementi che convergono in una relazione dialettica: dirigenza storica, forza organizzata del popolo e progetto alternativo. Senza questi tre elementi la rivoluzione è impossibile e se per qualche circostanza speciale o straordinaria trionfasse, il suo tempo di vita sarebbe molto breve.

Questo triangolo vittorioso è presente nella rivoluzione boliviana. Evo dirigente è stato capace di articolare la resistenza al neoliberismo dalla crisi statale dell’aprile 2000, quando si è sviluppata la “Guerra dell’Acqua”. Non è che non ci fossero altri referenti nella rivolta popolare, come Felipe Quispe e altri, ma Morales condensava i sogni e le speranze della più ampia gamma delle classi subalterne. E dopo la sconfitta del neoliberismo, nell’ottobre 2003, e il tentativo, dell’ambasciata USA, di imporre il suo presidente nel giugno 2005, la potente insurrezione indigena contadina, operaia e popolare ha ottenuto una storica vittoria politica elettorale nel dicembre 2005. Nel gennaio 2006 ha assunto la presidenza Evo Morales, sua guida.

Ecco perché non è possibile divorziare Evo dirigente da Evo presidente. Ci sono momenti in cui quel rapporto entra in crisi ma ogni volta che lo ha fatto è uscito rafforzato. Infatti, Evo è deciso a mettersi il suo zaino per darre, ancora una volta, nelle elezioni del 2019, una nuova vittoria ad un popolo che, per la prima volta, sta scrivendo la propria storia con le proprie mani.

E nemmeno è possibile divorziare Evo dirigente da Evo presidente , dal blocco sociale che ha reso possibile la rivoluzione. La costituzione del soggetto storico (classista e nazional-culturale) è stato fatto nella lotta, nella costruzione collettiva di un senso comune che non ha negato, ma sì ha subordinato i suoi particolari interessi a breve termine agli interessi generali. È l’articolazione della memoria lunga (lotta anticoloniale) e della memoria a breve (resistenza antineoliberal) e ciò che ha significato l’esperienza guerrigliera di Ñancahuzú, che è andata costituendo il soggetto che ha reso possibile la rivoluzione boliviana nel XXI secolo. Quando vengono privilegiati gli interessi particolari, il soggetto si debilita e può persino essere sconfitto. Quando si colloca davanti l’interesse comune, il soggetto si rafforza, è indistruttibile e si proietta al futuro.

E sì di triangolo o trinità vittoriosa si parla, bisogna incorporare il progetto alternativo. Questo progetto, che articola la messa in discussione della colonialità del potere ed il sistema capitalista come tale, negli ultimi tempi, per parlare del tempo recente, si è plasmato nel Piano Nazionale di Sviluppo -che ha più che adempiuto alla cosiddetta Agenda di Ottobre (nazionalizzazione del petrolio, Assemblea Costituente, annullamento del neoliberismo ed altre misure)- ed ora si dirige verso la materializzazione dell’Agenda 2025.

Questo triangolo -dirigente storico, forza organizzata del popolo e progetto alternativo- è stata la chiave per la vittoria nelle elezioni del 2005, 2009 e 2014, e nel vincere due referendum (revocatorio e costituzionale). Ma anche per sconfiggere i piani destabilizzanti e controrivoluzionari dell’offensiva restauratrice del 2008-2009.Dalla preservazione di quel triangolo vittorioso dipenderà il superare gli ostacoli che si stanno ponendo per conquistare un nuovo trionfo nelle elezioni del 2019 e con Evo Morales come candidato presidenziale.

La sconfitta dei miti

 

Evo Morales è un leader politico eccezionale. La forza della sua dirigenza, fondata sulla preminenza dei movimenti sociali, si sta incaricando di rompere con diversi miti della storia della Bolivia.

Il primo mito che Evo Morales si è incaricato di smantellare è che la diversità classista e nazional-culturale boliviana impedisce che un qualsiasi candidato ottenga oltre il 50% più uno al primo turno. Il capo politico, dopo un’entrata con successo alle elezioni del 2002 -quando arrivò secondo con il 20,9%- uscì vittorioso con un 54% nel dicembre 2005 e, quattro anni dopo, ottenne il 64% di sostegno, oltre il 67% raggiunto nel referendum revocatorio del 10 agosto 2008. Nel 2014 ha ottenuto il 62% di voti.

Il secondo mito che sfata è che lo Stato è un cattivo amministratore. Morales sta dimostrando che lo Stato, nelle mani di una dirigenza rivoluzionaria, è uno strumento in grado di gestire in modo efficiente i beni comuni per la ricerca del bene comune. Non è che non ci siano problemi specifici ma, in termini generali, c’è una buona gestione.

Lo Stato, quindi, non rimane sussunto alle forze cieche dell’economia di mercato, che in realtà è un mito poiché ciò che fa è sussumersi alle multinazionali in un modello neoliberle, ma che con la titolarità di un nuovo blocco al potere (indigeno contadino operaio e popolare) è in funzione degli interessi della patria e della stragrande maggioranza della popolazione.

Il terzo mito che il capo dello Stato Plurinazionale si è incaricato di sfatare è che “la direzione logora”. Secondo tutti i sondaggi di opinione che sono stati fatti, la media di approvazione in dodici anni di governo supera il 55%. La gente apprezza il lavoro che fa, l’intensità del lavoro che dispiega e l’onestà che dimostra. È vero che, dodici anni dopo, il peso della buona gestione si è relativizzato nella sua incidenza elettorale poiché la gente ora non vede più tanta novità come all’inizio, ma ciò non significa che la gestione abbia zero importanza.

Il quarto mito che sgretola è pensare che la Bolivia richieda dei consigli della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale per avere un buon modello economico. Al contrario, a prendere le distanze da queste raccomandazioni Morales ha ottenuto la prestazione di maggior successo della storia economica della Bolivia: il PIL si è quasi quintuplicato (da 6000 a più di 35 miliardi di $), le esportazioni stagnanti a 1000 milioni di $ all’anno, durante due decenni di neoliberalismo, si sono moltiplicate per 10, il ritmo della sua crescita ha ubicato la Bolivia come prima economia della regione, negli ultimi quattro anni, e anticipa ratificarsi quest’anno. Con questi risultati, prodotto della politica di nazionalizzazioni e l’applicazione di un modello che produce eccedenze e le ridistribuisce, con vari meccanicismi, alla popolazione (provocando un’enfasi nella domanda interna), la maggior parte della popolazione s’inclina a mantenere la stabilità politico, economico e sociale.

Il quinto mito che viene smantellato è che la Bolivia ha bisogno degli USA e dei paesi del capitalismo centrale. Ciò che fa Evo Morales, dopo aver nazionalizzato il governo e le risorse naturali a beneficio di tutti i boliviani, in particolare per i più bisognosi, è confermare quel detto dello scomparso dirigente socialista Marcelo Quiroga Santa Cruz: “non siamo dipendenti per essere poveri, ma poveri per essere dipendenti”. L’attuazione di una politica estera sovrana e diversificata ha collocato, più volte, la Bolivia sulla scena mondiale.

In sesto luogo, si è rotto il mito che “gli indigeni non sanno governare”. Con ciò si è aperto un processo di decolonizzazione delle strutture politiche, materiali e simboliche che consegnavano alla “bianchezza” una superiorità rispetto alla “indianità”. Oggi un presidente indigeno ha fatto più di molti presidenti del passato.

In settimo luogo, per condensare tutto quanto sopra, è dimostrare che un governo di sinistra può essere efficiente. Superato il pregiudizio sulla partecipazione e della dirigenza statale. Evo Morales sta dimostrando che la ricchezza può essere ridistribuita e realizzare opere di grande portata senza mettere a repentaglio la stabilità economica del paese.

Inoltre, ciò che il governo fa, con molta intelligenza, è raggiungere un equilibrio tra l’efficienza economica ed efficienza sociale, una combinazione di due variabili che dimostrano che la politica è l’economia concentrata, come direbbe Lenin. Economia e politica non sono separate come pensano i pensatori liberali.

In ottavo luogo, forse di portata strategica, è dimostrare che un progetto anticapitalista -il socialismo comunitario per il Vivere Bene- è ciò di cui la Bolivia ha bisogno per continuare lungo il sentiero della sovranità politica e dell’indipendenza economica. L’esperienza degli ultimi dodici anni mostra che il progetto socialista e comunitario non ha portato via immobili a nessuno né a preso il controllo della vita di alcuno. Cioè, si è distrutto il mito che il socialismo è cattivo.

Come è ovvio, la rivoluzione boliviana affronta anche momenti di controrivoluzione. Questo è uno di quei momenti. Incoraggiati dalla teoria della fine del ciclo progressivo, la controffensiva imperiale e di restaurazione conservatrice punta a distruggere tutto ciò che è stato fatto in dodici anni. Lo fa supportata dal discorso di chiedere rispetto per il referendum del 21 febbraio 2016, che ha chiuso la possibilità di modificazione dell’articolo 168 della Costituzione. Ma dietro quella “rivendicazione” c’è un nuovo tentativo di tornare ad “sbiancare” lo Stato.


Bolivia: doce años de liderazgo histórico, de fuerza organizada del pueblo y de proyecto alternativo

Por: Hugo Moldiz Mercado

El martes 14 de agosto, el presidente Evo Morales ha cumplido, legal y legítimamente, el récord de permanencia sucesiva en la conducción del aparato estatal boliviano, lo que lo convierte en el fenómeno político más sobresaliente de la historia nacional.

Desde enero de 2006 hasta el pasado 14 de agosto, el líder indígena ha cumplido 4.578 días como presidente de Bolivia. Entre 2006 y 2009 lo hizo conduciendo el viejo Estado y ahora el Estado Plurinacional.

Este líder fuera de serie ha superado al conductor de la revolución del 52, Víctor Paz Estennsoro, quien acumuló 12 años al frente del país de manera discontinua (1952-56, 1960-64 y 1985-89). Ahora también superó el record de manera continua. Pero no solo lo supera en cantidad de años al frente del Estado a partir de la fuente democrática, sino en la naturaleza del proyecto que impulsa. Esta no es una revolución para instalar en el poder a una protoburguesía, como ocurrió en 1952, sino para constituir un bloque en el poder bajo liderazgo indígena campesino, obrero y popular.

Pero el record no es solo para Morales. En realidad, a diferencia de otro tipo de gobiernos civiles y militares de la historia boliviana, el líder indígena sintetiza la elevación a su categoría de bloque dominante del bloque indígena campesino obrero y popular. Y eso es precisamente lo que convierte al proceso de cambio en la revolución más profunda de la historia nacional.

Como en toda revolución que se precie de ser tal, hay tres elementos que confluyen en una relación dialéctica: liderazgo histórico, fuerza organizada del pueblo y proyecto alternativo. Sin esos tres elementos la revolución es imposible y si por alguna circunstancia especial o extraordinaria triunfara, su tiempo de vida sería muy breve.

Este triángulo victorioso está presente en la revolución boliviana. Evo, líder fue capaz de articular la resistencia al neoliberalismo desde la crisis estatal de abril de 2000, cuando se desarrolló la “Guerra del Agua”. No es que no hubo otros referentes en la sublevación popular, como Felipe Quispe y otros, pero Morales condensaba los sueños y las esperanzas de la más amplia gama de las clases subalternas. Y tras la derrota del neoliberalismo en octubre de 2003 y del intento de la embajada de EEUU de imponer su presidente en junio de 2005, la poderosa insurgencia indígena campesina, obrera y popular obtuvo una histórica victoria político-electoral en diciembre de 2005. En enero de 2006 asumió la presidencia Evo Morales, su líder.

Por eso no es posible divorciar a Evo, líder, de Evo, presidente. Hay momentos en que entra en crisis esa relación, pero cada vez que lo ha hecho ha salido fortalecida. De hecho, Evo está decidido a ponerse la mochila para darle, una vez más, en las elecciones de 2019, una nueva victoria a un pueblo que por primera vez está escribiendo su historia con sus propias manos.

Y tampoco es posible divorciar a Evo líder y Evo presidente, del bloque social que hizo posible la revolución. La constitución del sujeto histórico (clasista y nacional-cultural) se fue haciendo en la lucha, en la construcción colectiva de un sentido común que no negaba, pero si subordinaba sus intereses particulares de corto plazo a los intereses generales. Es la articulación de la memoria larga (lucha anticolonial) y la memoria corta (resistencia antineoliberal) y lo que significó la experiencia guerrillera de Ñancahuzú, la que fue constituyendo al sujeto que hizo posible la revolución boliviana en el siglo XXI. Cuando se priorizan los intereses particulares, el sujeto se debilita y pueda incluso ser derrotado. Cuando se coloca el interés común por delante, el sujeto se fortalece, es indestructible y se proyecta al futuro.

Y si de triangulo o trinidad victoriosa se habla, hay que incorporar el proyecto alternativo. Este proyecto, que articula el cuestionamiento a la colonialidad del poder y al sistema capitalista como tal, en el último tiempo, por hablar del tiempo reciente, se plasmó en el Plan Nacional de Desarrollo –que más que cumplió con la llamada Agenda de Octubre (nacionalzación del petróleo, Asamblea Constituyente, anulación del neoliberalismo y otras medidas)- y ahora se enrumba hacia la materialización de la Agenda 2025.

Este triángulo –líder histórico, fuerza organizada del pueblo y proyecto alternativo- ha sido la clave de la victoria en las elecciones de 2005, 2009 y 2014, y en los triunfos de dos referéndums (revocatorio y constitucional). Pero también en derrotar los planes desestabilizadores y contrarrevolucionarios de la ofensiva restauradora de 2008-2009. De la preservación de ese triángulo victorioso dependerá el sortear los obstáculos que se están colocando para conquistar un nuevo triunfo en las elecciones de 2019 y con Evo Morales como candidato presidencial.

La derrota de los mitos

Evo Morales es un líder político fuera de serie. La fuerza de su liderazgo, fundada en el protagonismo de los movimientos sociales, se está encargando de romper con varios mitos de la historia de Bolivia.

El primer mito que Evo Morales se ha encargado de desmontar es que la diversidad clasista y nacional-cultural boliviana impide que cualquier candidato obtenga más del 50% mas uno en la primera vuelta. El líder político, después de una exitosa entrada en las elecciones de 2002 –cuando se ubicó en segundo lugar con un 20,9%-, salió victorioso con un 54% en diciembre de 2005 y cuatro años después conquistó el 64% de respaldo, además del 67% que alcanzó en el referéndum revocatorio del 10 de agosto de 2008. En 2014 obtuvo el 62 por ciento de votación.

El segundo mito que echa abajo es que el Estado es mal administrador. Morales está demostrando que el Estado en manos de una dirección revolucionaria es un instrumento capaz de administrar eficientemente los bienes comunes para la búsqueda del bien común. No es que no haya problemas específicos, pero en términos generales hay una buena gestión.

El Estado, de esta manera, no queda subsumido a las fuerzas ciegas de la economía de mercado, que en realidad es un mito pues lo que hace es subsumirse a empresas transnacionales en un modelo neoliberal, sino que con la titularidad de un nuevo bloque en el poder (indígena campesino obrero y popular) queda en función de los intereses de la patria y de la inmensa mayoría de la población.

El tercer mito que el jefe del Estado Plurinacional se encargó de echar abajo es que “la gestión desgasta”. De acuerdo a todos los sondeos de opinión que se han hecho, el promedio de aprobación de la gestión en doce años de gobierno supera el 55 por ciento. La gente valora las obras que hace, la intensidad del trabajo que despliega y la honestidad que demuestra. Es verdad que doce años después el peso de la buena gestión se ha relativizado en su incidencia electoral pues la gente ya no ve con tanta novedad como al principio, pero eso no significa que la gestión tenga cero importancia.

El cuarto mito que desmorona es pensar que Bolivia requiere de los consejos del BM y el FMI para tener un buen modelo económico. Todo lo contrario, al distanciarse de esas recomendaciones Morales ha logrado el comportamiento más exitoso de la historia económica boliviana: el PIB casi se ha quintuplicado (de 6 mil a más de 35 mil millones de dólares), las exportaciones estancadas en 1.000 millones de dólares al año durante dos décadas de neoliberalismo se han multiplicado por 10, el ritmo de su crecimiento ha ubicado a Bolivia en la primera economía de la región en los últimos cuatro años y anticipa ratificarse este año. Con estos resultados, producto de la política de nacionalizaciones y la aplicación de un modelo que genera excedentes y los redistribuye con distintos mecanismos a la población (provocando un énfasis en la demanda interna), la mayor parte de la población se inclina por mantener la estabilidad política, económica y social.

El quinto mito que se desmonta es que Bolivia necesita de los Estados Unidos y los países del capitalismo central. Lo que hace Evo Morales, después de haber nacionalizado el gobierno y los recursos naturales para beneficio de todos los bolivianos, particularmente para los más necesitados, es confirmar aquel dicho del desaparecido líder socialista Marcelo Quiroga Santa Cruz: “no somos dependientes por ser pobres, sino pobres por ser dependientes”. La puesta en marcha de una política exterior soberana y diversificada ha colocado a Bolivia en la vitrina mundial varias veces.

En sexto lugar, se ha roto el mito de que “los indios no saben gobernar”. Con ello se ha abierto un proceso de descolonización de las estructuras políticas, materiales y simbólicas que le otorgaban a la “blanquitud” una superioridad sobre la “indianitud”. Hoy, un presidente indígena ha hecho más que muchos presidentes del pasado.

En séptimo lugar, a manera de condensar todo lo anterior, es demostrar que un gobierno de izquierda puede ser eficiente. Atrás queda el prejuicio sobre la participación y el liderazgo estatal. Evo Morales está demostrando que se puede redistribuir la riqueza y hacer obras de envergadura sin poner en riesgo la estabilidad económica del país.

Es más, lo que hace el gobierno con bastante inteligencia es lograr un equilibrio entre la eficiencia económica y la eficiencia social, una combinación de dos variables que demuestran que la política es la economía concentrada como diría Lenin. Economía y política no están separadas como piensan los pensadores liberales.

En octavo lugar, quizá de alcance estratégico, es demostrar que un proyecto anti capitalista –el socialismo comunitario para el Vivir Bien- es lo que Bolivia necesita para continuar por el rumbo de la soberanía política y la independencia económica. La experiencia de los últimos doce años demuestra que el proyecto socialista y comunitario no le quitó inmuebles a nadie ni se metió a regir la vida de nadie. Es decir, se destruyó el mito de que el socialismo es malo.

Como es obvio, la revolución boliviana enfrenta también momentos de contrarrevolución. Este es uno de esos momentos. Envalentonados por la teoría del fin del ciclo progresista, la contraofensiva imperial y de restauración conservadora apunta a destruir todo lo que se hizo en doce años. Lo hace apoyada en el discurso de pedir respeto al referéndum del 21 de febrero de 2016, que cerró la posibilidad de la modificación del artículo 168 de la Constitución. Pero detrás de esa “reivindicación” lo que hay es un nuevo intento para volver a “blanquear” el Estado.

La respuesta a esta amenaza está en manos de Evo Morales y del pueblo organizado. Otro momento heroico se acerca para poner a prueba el triángulo victorioso.

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