Venezuela. Donne a congresso disegnano la mappa di un nuovo mondo

di Geraldina Colotti

A Caracas, il piazzale antistante il Pantheon trabocca di donne, palloncini e bandiere. Le più giovani aiutano le anziane a sedersi per terra, le bambine guardano affascinate il drone che volteggia sulle teste per catturare le immagini. Questa volta, non si tratta di un drone di guerra come quello caricato di esplosivo che, il 4 agosto dell’anno scorso, avrebbe potuto uccidere il presidente Nicolas Maduro e decapitare la direzione del proceso bolivariano, ma che fortunatamente è stato sventato dall’intelligence bolivariana.

Un pennarello passa di mano in mano. Tutte vi scrivono i propri desideri: pace, amicizia tra i popoli, rivoluzione. Poco prima, durante la marcia internazionalista, la vicepresidenta Delcy Rodriguez ha ricevuto le firme raccolte nel paese durante la campagna No+Trump: oltre 13 milioni, che verranno portate all’ONU questa settimana per dire No alla guerra. No all’ingerenza. No al bloqueo criminale. Un pronunciamento forte che è emerso anche dal documento finale approvato dal I Congresso Internazionale delle donne.

Adesso, nell’aria si diffondono le note dell’inno composto da Maria Pinto per il I Congresso internazionale delle donne e approvato dal comitato nazionale preparatorio del Movimento Unamujer. Al suolo, i corpi delle donne disegnano la mappa dei continenti tra i quali viaggia la colomba della pace. Non la pace del sepolcro per le classi popolari, come vorrebbe il capitalismo, ma un diverso modello di sviluppo basato sulla giustizia sociale: il modello della rivoluzione bolivariana, socialista e femminista, argomentato nei momenti di confronto organizzati nel I Congresso Internazionale.

Un acquazzone caraibico accompagna la visita delle delegazioni al Cuartel de la Montaña. Lì riposano i resti di Hugo Chavez, il Comandante “femminista” che ha trasformato nel profondo questo paese. Le delegate internazionali, oltre 700, giunte dai cinque continenti nonostante le tante traversie imposte al Venezuela dal blocco economico-finanziario di Trump e i suoi vassalli, depositano sul monumento una rosa rossa con qualche filo di mimosa.

Sotto il braccio hanno un pacchetto di libri e opuscoli offerti dalla Ministra del Potere popolare per la Donna e l’uguaglianza di genere, Asia Villegas: omaggi alle eroine indigene e afrodiscendenti celebrate dalla rivoluzione bolivariana; una maglietta con la scritta “leali sempre, traditrici mai”; il libro di Rosa Luxemburg “Riforma sociale o rivoluzione?”; alcuni pieghevoli in sui si dettaglia l’ampio ventaglio di diritti ottenuti dalle donne venezuelane e che non sono rimasti sulla carta, altri in cui si danno consigli sulla prevenzione dei tumori e si riassumono le molteplici forme di violenza di genere contemplate dal codice penale.

Il documento finale, discusso in sei tavoli tematici, propone di istituire una Piattaforma internazionale unitaria delle donne che metta in relazione tutte le lotte contro l’imperialismo e il neoliberismo. Indica un’agenda comune che prevede giornate mondiali di mobilitazione, riprende i contenuti generali che, dal Foro di San Paolo, si vanno declinando negli incontri stabiliti in quella sede: il Congresso dei lavoratori e delle lavoratrici, quello delle donne, quello dei popoli indigeni, degli studenti, della comunicazione popolare…

Durante la lettura del documento, gli slogan del movimento Ni una menos, che ha preso forma in America Latina e si è diffuso anche in Europa, si alternano alle consegne anticapitaliste, antimperialiste, ambientaliste. “Senza femminismo, non c’è socialismo”, dice il proceso bolivariano. Lo dice per costituzione e lo dice nei fatti. Gli argomenti, i problemi e gli spigoli, evidenziati nei dibattiti del Congresso non si discostano molto da quelli che si registrano nel movimento Ni una menos a livello internazionale, giacché esistono molti modi di intendere il femminismo. Qui si parte però da una consapevolezza condivisa: senza una vera trasformazione del modello capitalista, la libertà delle donne, la libertà di tutte e tutti, sarà solo formale e non sostanziale.

Senza garanzia dei diritti basici – lavoro, casa, educazione, salute gratuite – i diritti civili rimangono per pochi o vengono disattesi. Come dire: se una coppia di borghesi litiga perché lui è violento, ci sono almeno due case da dividere. In un paese capitalista, se una donna povera e senza lavoro viene maltrattata dal marito, può solo finire nelle grinfie ipocrite della società disciplinare. Come dire: un gay o una lesbica colta, bianca e ricca avranno senz’altro meno problemi di un gay o una lesbica povera, negra o indigena. Questo non significa banalizzare la complessità della questione di genere, che viene prima del capitalismo, ma solo riportare il tema al punto di partenza essenziale.

Senza “decolonizzare” la società e l’immaginario, ha discusso un tavolo del Congresso, anche il femminismo – un femminismo “occidentale e piccolo borghese” – riprodurrà le asimmetrie della società divisa in classi. Visto da un paese del sud globale, il problema assume una prospettiva diretta, non mediata dai “diritti” garantiti alle nuove “schiave” che emigrano nei paesi capitalisti, ma proprio per questo la domanda si proietta con forza oltre i confini latinoamericani.

D’altro canto, le condizioni nelle quali si sviluppa la coscienza, contano. Conta esaminare il dato secondo il quale oltre il 70% delle organizzazioni del potere popolare, in Venezuela, è diretto da donne. Si tratta di donne che erano condannate all’invisibilità e all’analfabetismo anche in un sistema “democratico” come veniva considerato quello venezuelano prima della vittoria di Chavez alle presidenziali del 6 dicembre 1998. Un dato che le figlie e i figli della scolarizzazione di massa che hanno potuto appropriarsi della cultura borghese dopo il ’68 in Italia possono capire, oggi che l’istruzione universitaria è tornata a essere appannaggio di pochi. Essere colte per essere libere, dicono infatti qui. E non è uno slogan.

E così, al tavolo conclusivo del Congresso c’è una pescatrice, che ha ricevuto dal governo socialista gli strumenti per portare avanti quella che è la guerra più difficile da condurre in un paese che possiede le principali riserve di petrolio al mondo e di oro e altri minerali preziosi, ma anche acqua e risorse naturali, e che sta cercando di rendersi autonomo dal punto di vista produttivo, recuperando un ritardo strutturale voluto da quanti ne avevano fatto un rifornitore degli USA.

Non per niente, il divieto di praticare la pesca a strascico per le grandi multinazionali, decisa da Chavez, è stato uno dei motivi del colpo di stato che gli hanno organizzato contro nel 2002.

Anche il profilo delle donne che animano le strutture dirigenti del partito e del governo e che hanno organizzato questo Congresso, indicano la potenza e la radicalità dell’”uragano bolivariano”. Vi sono esponenti di famiglie tradizionalmente di sinistra, eredi di guerriglieri che, come Jorge Rodriguez padre, sono morti per le torture praticate dalle democrazie “camuffate”, o intellettuali che hanno scelto il proprio campo, e che non si sentono scomode pur intendendo perfettamente da quale parte spira il vento per le loro omologhe europee e quali vantaggi potrebbero trarre se passassero sull’altra sponda.

Questa rivoluzione socialista e femminista si alimenta dell’impegno di donne forti e appassionate come Gladys Requena, vicepresidenta de Mujeres del Partito Socialista Unito del Venezuela, o di Carolys Pérez, giovane dirigente politica sempre in prima fila nella formazione e nell’azione di un partito di massa e di quadri con oltre 6 milioni di iscritti – il più grande dell’America Latina- o di Andreina Tarazon.  Le donne, in Venezuela, riconoscono il percorso di Gladys Requena, si identificano nella sua voce stentorea, rauca alla fine di questo importante congresso.

Si riconoscono nell’ironia sottile con la quale Asia Villegas dice “noi, la burocrazia” per indicare il testardo percorso di voler smontare dall’interno la struttura del “vecchio stato borghese” e le contraddizioni che questo implica per un proceso che punta sulla costruzione di uno stato comunale basato sull’autogestione. Una sfida complessa, un laboratorio denso di significati appetibili anche fuori da questo continente.

Vtv, la televisione nazionale, passa costantemente le puntate di Allo presidente, il programma di Chavez, che spesso impartiva lezioni teoriche, alfabetizzazioni del socialismo. Nel numero 6, Chavez, presentando alcuni libri marxisti, tra i quali Oltre il capitale di Ivan Metzaros, dice: “Forse, nel futuro, questo esperimento di transizione al socialismo, potrà servire d’esempio”. Al suo fianco, c’è Nicolas Maduro, attuale presidente del Venezuela, al centro di molteplici attacchi della guerra di quarta e quinta generazione.

Maduro ha ricevuto la delegazione internazionale a Miraflores accompagnato da Cilia Flores, sua moglie, ma soprattutto una dirigente politica di lungo corso. Maduro ha riconosciuto quanto ancora resta da fare per adeguare la pratica al desiderio, alla prospettiva. Pur essendo le donne a dirigere il potere popolare – ha detto – si nota una diminuzione della loro partecipazione alle elezioni: per il rifiuto di meccanismi evidentemente ancora egemonizzati da una logica patriarcale, funzionale al capitalismo. “Siete femministi? Voglio un attestato dalle vostre mogli”, ha scherzato il presidente rivolgendosi ai ministri presenti.

“Il socialista che non sia femminista, ha una visione ristretta”, ha detto Adan Chavez ricordando le dichiarazioni di suo fratello Hugo. Adan ha poi ripercorso le difficoltà affrontate durante l’Assemblea nazionale costituente che ha portato alla costituzione bolivariana. Allora, la battaglia per declinare al femminile gli articoli dell’avanzatissima Carta Magna non fu facile. Molti compagni, anche sinceri, pensavano che il neutro maschile dovesse includere anche il genere femminile. Invece – ha ribadito Adan – il linguaggio è sostanza ed esplicita la battaglia per la libertà delle donne.

Un pensiero condiviso da Diosdado Cabello, vicepresidente del PSUV, che ha raccontato l’impulso ricevuto dalla sua compagna, la ministra Marleny Contreras, come esempio della partecipazione senza riserve delle donne alla lotta. Al femminismo socialista del Venezuela ha fortemente contribuito Maria Leon, che non ha potuto partecipare al Congresso, ma che ha ricevuto l’omaggio forte delle donne presenti. Un femminismo che deve dare battaglia anche sul terreno simbolico e mediatico, e per questo è stato proposto un osservatorio per individuare il sessismo dei media.

Durante l’incontro delle delegazioni internazionali con Maduro, il ministro della Comunicazione Jorge Rodriguez ha sintetizzato l’inchiesta sui nessi criminali tra l’autoproclamato presidente del Venezuela, Juan Guaidó, e i narcotrafficanti colombiani. Un’inchiesta che avrebbe dovuto essere in primo piano in tutti i media internazionali se l’informazione non fosse da tempo una merce al servizio del grande capitale internazionale, ma che è passata sotto silenzio.
Per far fronte alla guerra mediatica, che si dispiega in base alla concentrazione monopolistica dei grandi poli informativi, occorre dunque rafforzare la comunicazione popolare alternativa. Il Consejo Nacional e Internacional de la Comunicacion Popular (Conaicop) ha infatti dato conto di tutte le voci e di tutti i temi che hanno caratterizzato questo Congresso.

Fondamentale è stato l’apporto, sia in termini organizzativi che di contenuto, delle Brics-Psuv, le Brigate internazionali della comunicazione solidale. Una struttura che dipende dalla vicepresidenza di Agitazione propaganda e comunicazione del PSUV, diretta da Tania Diaz. Dice Beverly Serrano, coordinatrice delle BRICS: “La guerra mediatica prende di mira la capacità di discernimento, colpisce la psiche, fa emergere il peggio dell’essere umano. La resistenza delle donne, che dispiegano la loro capacità di unire, condividere, mettere in relazione, è un antidoto tanto prezioso per la nostra lotta quanto pericoloso per l’imperialismo che, non a caso, ci considera una minaccia inusuale e straordinaria per la sua sicurezza”.

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