Venezuela. Intervista a Iris Varela, ministra de Poder popular por el Servicio Penitenciario

di Geraldina Colotti

Iris Varela, ministra del Poder popular por el Servicio Penitenciario, ci riceve nel suo ufficio al Ministero, efficiente e vulcanica. Sta esaminando le richieste di alcuni grandi media internazionali che chiedono l’ingresso nelle carceri. La ministra è propensa ad accoglierle, pur sapendo che, nella migliore delle ipotesi, verranno pubblicate poche righe, situate in un contesto che non rende ragione della realtà. Spera, evidentemente, che la forza dei fatti s’imponga.

Contro i ritardi, l’inefficienza e la burocrazia, il presidente Maduro ha annunciato che vi sarà una rivoluzione nel settore giudiziario. Che significa questo per il tuo ministero?

Siamo sempre stati convinti che esista ancora un debito della rivoluzione nei confronti del sistema di giustizia, ossia che siano ancora necessari importanti cambiamenti. L’annuncio di Maduro è quindi quanto mai opportuno, atteso da tutti quanti lavorano in ambito penitenziario nell’ottica contemplata dalla nostra costituzione, una delle migliori al mondo. Un testo che offre tanti strumenti per garantire la sovranità del paese, per l’inclusione sociale e per far avanzare i diritti fondamentali. Diritti che nel capitalismo vengono considerati merce per nutrire la voracità del sistema capitalismo a scapito della stragrande maggioranza, mentre da noi sono parte della politica di stato. La casa, per esempio, è un diritto umano inalienabile, e così la salute pubblica, l’educazione, per non citare che tre ambiti fondamentali. La rivoluzione ha chiaro che si tratta di diritti umani che non si possono commercializzare, che devono essere garantiti in modo gratuito e di qualità. Questo vale anche per la giustizia. Da noi, se qualcuno non si può pagare l’avvocato, è lo Stato a farlo per garantire il diritto alla difesa. La riforma approvata durante la Quarta repubblica, prima della costituzione del 1999, non si adattava alla domanda di giustizia rapida, opportuna, gratuita e di qualità che merita il popolo venezuelano, e ora, sulla base dell’esperienza, vi sono ancora molte cose da migliorare. Dopo questo annuncio, ho inviato alcune idee al presidente. Tra queste, la proposta di revisione del sistema dei giudici. Ce ne sono di tre tipi: un giudice di controllo, uno giudicante e uno di esecuzione. Quest’ultimo dovrebbe presiedere all’esecuzione della pena, cioè visitare i privati di libertà nelle carceri, negli ospedali giudiziari, avere contatti con le famiglie – tutte cose che non fa. Questa figura giuridica si è venuta perciò configurando come una sorta di doppione rispetto alla funzione del nostro ministero, e rappresenta uno spreco di risorse. Di fatto, è lo Stato a occuparsi di tutto. Siamo noi che organizziamo il reinserimento, dentro e fuori dal carcere, che lavoriamo alla costruzione dell’uomo e della donna nuova.

Come avvocata e considerando il rispetto per l’indipendenza dei poteri, quali potrebbero essere i cardini della riforma della giustizia?

Penso si dovrebbe proporre all’Assemblea Nazionale Costituente l’approvazione di un nuovo codice penale. Quando facevo parte della commissione di politica interna, in Parlamento stavamo portando avanti questo progetto, era quasi pronto, ma poi sono arrivati altri personaggi che avevano altre finalità. Si tratterebbe di riprendere quel testo, per superare il codice penale che viene della Quarta repubblica e adeguare il nuovo progetto alla nostra costituzione. Mi sembra uno dei compiti più urgenti. Inoltre, occorre riconsiderare il quadro dei delitti. Purtroppo, ve ne sono alcuni che non smetteranno di esistere per incanto: il furto, il narcotraffico, le aggressioni. Ma ve ne sono altri che stanno sorgendo in funzione della dinamica sociale e politica e le cui pene sono obsolete. Pensiamo ai brutali delitti compiuti dall’estrema destra contro il nostro popolo, alla cospirazione bestiale di chi vuole consegnare la nostra sovranità al nemico. Delitti rivendicati pubblicamente dai vari Julio Borges o Juan Guaidó. Negli Stati uniti sarebbero stati condannati a morte. Da noi, il massimo della pena è trent’anni e si prevede un ampio sistema di benefici. Io credo che su queste persone dovrebbe ricadere tutto il peso della legge. Oltre a essere condannati al massimo della pena, dovrebbero essere esclusi dai benefici e, una volta finito di scontare la condanna, dovrebbero essere espulsi dal paese.

Come si affrontano i femminicidi e la violenza di genere nell’ottica della costruzione di un nuovo essere umano, maschile e femminile? Il personale è formato per questo?

Lo Stato offre garanzie e attenzione sia al reo che alla vittima, che alle famiglie. Ci comportiamo così anche con i privati di libertà per i diritti di femminicidio. Sì, il personale ha una formazione di genere. Si può discutere se, in certe circostanze, la pena serva all’obiettivo per il quale è stata pensata, ma questo è un grande dibattito. Intanto, in un paese in cui si garantiscono i diritti umani e ci sono tanti meccanismi per realizzare un percorso di inclusione, perché non farlo anche in carcere? Da noi le pene non sono molto lunghe, e qui prepariamo i privati di libertà a tornare nella società come persone diverse da prima, dopo aver compiuto una riflessione sul delitto commesso.  Facciamo in modo che riflettano sulla gravità di togliere la vita a un essere umano, il delitto più grave che si possa compiere. Se non cambiano e tornano a delinquere verranno rifiutati dalla comunità e dall’opinione pubblica. Questo vale anche per i femminicidi.

Tutti i rapporti sullo stato delle carceri in Venezuela usano i dati dell’Osservatorio venezuelano sulle prigioni, che vanno in senso inverso a quanto si può constatare visitando il circuito penitenziario. Da dove arrivano questi dati?

Dalle agenzie nordamericane, che li commissionano a un individuo che, in 8 anni di applicazione del nuovo sistema penitenziario non si è mai visto una sola volta. Si vedono di più gli emissari della Bachelet, che dopo aver lodato il nostro lavoro hanno firmato un rapporto preconfezionato. Si vedono di più gli operatori della Croce rossa internazionale, che sono qui da quattro anni e che stanno svolgendo con correttezza il loro lavoro. Si vedono di più alcuni deputati di opposizione, che hanno libero accesso. Da dove nascono certi dati? Dall’immaginazione di questi agenti della Cia che, come Guaidó e la sua banda, hanno il loro prezzo.

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