Il Venezuela ricorda a Trump che “a ogni 11 segue il suo 13”

di Geraldina Colotti

L’11 aprile del 2002, un colpo di Stato a guida Cia, realizzato dall’oligarchia venezuelana, dalle gerarchie ecclesiastiche e dai grandi media privati, depose il presidente Hugo Chavez, eletto nel 1998 con una larghissima maggioranza di voti. Il governo fantoccio del capo della locale Confindustria (Fedecamara), Carmon Estanga, durò però solo 48 ore. Il tempo di sospendere tutte le garanzie costituzionali e di procedere a una selvaggia repressione.

Nonostante l’assordante silenzio dei media privati, il potere popolare organizzato sfidò le armi dei golpisti e riportò a Miraflores il presidente legittimo. Scesero in piazza tutti quei settori del popolo, della sinistra radicale e dei militari progressisti, che avevano mandato in soffitta l’assetto di potere della IV Repubblica, a cui apparteneva Estanga e a cui si erano alleate le confederazioni sindacali, gran tempo passate dalla parte del capitale.

Da lì il proceso bolivariano ha coniato il seguente slogan: “A ogni 11 segue il suo 13”. Uno slogan che viene ricordato ogni anno, a ogni nuovo attacco che la rivoluzione bolivariana riesce a sconfiggere o a schivare, affinando le armi per rinnovare il rapporto tra aumento della coscienza di classe e aumento del consenso.

Di attacchi e trappole, la rivoluzione bolivariana ha dovuto schivarne molti, di vario livello e di vario tipo, sia internamente che sul piano internazionale. Tanto da diventare un vero e proprio laboratorio, i cui insegnamenti trascendono il continente latinoamericano e indicano a tutti i popoli che decidano di essere liberi quali costi si debbano assumere se intendono procedere a riforme strutturali del sistema capitalista.

Attacchi che hanno subito una escalation dopo la morte di Chavez e la vittoria elettorale di Nicolas Maduro. Ora, al culmine di un accerchiamento economico-finanziario, politico, diplomatico, accompagnato da numerosi tentativi di destabilizzazione interni, gli Stati Uniti hanno messo una taglia sulla testa di Maduro e dei massimi dirigenti del governo bolivariano. Trump la rispolverato la “formula Noriega”, alludendo all’invasione di Panama del dicembre 1989. E molti adesso si chiedono se sia prossima un’invasione del Venezuela.

Intervistato dai media internazionali, il vecchio Carmona Estanda, che fa l’economista in Colombia, ha dichiarato che il socialismo bolivariano è un concentrato di tutti i mali del mondo e che benissimo ha fatto Trump ad adottare misure “mai viste prima”. Qui in Colombia – ha detto – c’è un proverbio che dice: “Si sentono i passi di un grosso animale”. Un pericolo, dunque, incombente da cui Carmona e i suoi si aspettano molto.

Per distogliere l’attenzione dal fallimento delle sue politiche pubbliche, deflagrato insieme al Covid-19, il cowboy del Pentagono potrebbe mandare le truppe in Venezuela? Non che non ci abbia provato, sia con il Brasile che con la Colombia.

Ma il realismo di quelle forze armate che, persino nel Brasile di Bolsonaro che nella Colombia di Duke valutano concretamente i costi di una guerra per procura (gli USA si guardano bene dal compiere invasioni di terra, dai tempi della sconfitta in Vietnam), lo hanno finora evitato.

Chi legge la politica oltre l’alternanza di comunicati dell’amministrazione USA, ha infatti notato come, pur essendo la Colombia la Israele del Latinoamerica, dopo quel rifiuto abbia ricevuto dal Pentagono uno strano schiaffo: il governo Duke – hanno detto allora i portavoce di Trump – ha fallito nella sua politica di lotta al narcotraffico…

Ora, Trump ha mandato una flotta armata alla quale si sono aggregate Olanda e Gran Bretagna nelle operazioni militari più imponenti da trent’anni nella regione. Ufficialmente manovre contro il narcotraffico, di fronte alle coste messicane e venezuelane. Di sicuro un anticipo di quel blocco navale che, già per il livello di “sanzioni” esistenti ora contro il Venezuela, mira a impedire l’arrivo di rifornimenti in piena pandemia.

Intanto, l’opposizione golpista che quel blocco ha richiesto e continua a richiedere, intossica l’informazione internazionale con immagini sulla scarsità di benzina in un paese che custodisce le prime riserve al mondo di petrolio. Guaidó e compari non dicono che, proprio la presenza degli USA e le criminali pressioni sulle aziende che commerciano con il Venezuela, impediscono da tempo l’invio diretto dei prodotti che servono a raffinare il petrolio venezuelano, dopo aver sequestrato le raffinerie esistenti negli Stati Uniti e in Colombia.

Ancor più criminale appare allora l’atteggiamento subalterno dell’Unione Europea che, dopo essersi accodata alle nuove misure di Trump contro il Venezuela, adesso ipocritamente parla di un nuovo invio di “aiuto umanitario”. Di quale natura sia il sistema di potere che guida le scelte della UE è ben evidente nella lotta di tutti contro tutti che vediamo scatenarsi in questi giorni di pandemia.

Al contrario, il piccolo Venezuela, sulla scia di quanto ha fatto Cuba e prima di tutti la Cina, sta dando un’eroica prova di solidarietà e di efficienza. Per aver adottato una “quarantena sociale radicale” è l’unico paese dell’America Latina, dopo Cuba, che sta contenendo efficacemente il virus: attraverso una politica di tamponi casa per casa, di coperture sociali e dispiegando l’esperienza accumulata in questi anni di guerra asimmetrica e sabotaggi di ogni tipo.

A differenza dei governi europei, quello bolivariano non è infatti ostaggio degli industriali e dei banchieri, e ha saputo organizzarsi per tempo. Ha anche aperto le porte a tutti quei concittadini che se n’erano andati per varie ragioni dal paese, soprattutto perché vittime della propaganda di guerra contro il governo bolivariano. In compenso, di tutto il denaro ricevuto dagli USA a fini destabilizzanti, né l’opposizione golpista venezuelana, né i suoi padrini latinoamericani hanno messo a disposizione un centesimo per aiutare quei venezuelani a cui avevano promesso ponti d’oro e ai quali hanno invece riservato solo miseria e xenofobia.

Maduro ha fatto appello all’umanità dei governanti statunitensi affinché sospendano le sanzioni, anche solo per il tempo che la compagnia aerea Conviasa possa andare a riprendersi i venezuelani che vogliono rientrare dagli Stati Uniti.

Hanno ottenuto solo di poter arrivare fino in Messico. Per l’occasione, è stato attrezzato un airbus di Conviasa con cabine di isolamento provviste di ossigeno, che può trasportare 12 passeggeri per volta, mentre alle frontiere tutti quelli che arrivano a piedi dai paesi limitrofi dell’America latina vengono controllati, rifocillati e, se risultano positivi al virus, messi in quarantena.

Per quella via, ha tentato di entrare anche un gruppo di paramilitari, attirato dalla taglia sulla testa di Maduro. Intanto, le destre cercano di approfittare della situazione. Scendono in campo anche i “dinosauri della chiesa cattolica”, come li ha definiti il parroco progressista Numa Molina. Sfidando le consegne di quarantena, il Cardinal Porras ha svolto funzioni religiose e processioni per la settimana santa. Maduro ha ricordato che “il Cristo non è venuto sulla terra in forma di oligarca, ma di povero fra i poveri e di rivoluzionario”.

Ai golpisti di oggi, che hanno le stesse facce dei golpisti del 2002 con qualche nuova aggiunta, il popolo venezuelano contrappone la “furia bolivariana”, avvertendo gli invasori che potrebbero finire come in Vietnam. In allerta nelle case, il chavismo si prepara a festeggiare “un nuovo aprile di vittoria”. Contro il coronavirus, e contro il “coronagringos”.

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One thought on “Il Venezuela ricorda a Trump che “a ogni 11 segue il suo 13””

  1. Vi invito ad approfondire i rapporti mafiosi che legano buona parte dei generali ad aziende che operano a stretto legame col governo venezuelano. Una mafia grazie alla quale si è creata una cupola di malavita che sta mandando in rovina il paese mentre, ovviamente, contunua a riempire le proprie tasche. Ma con quale coraggio continuate a difendere questa pagliacciata ??

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