Cuba, il coronavirus e il dinosauro

di Carlos Lage Codorniu, da La Tizza, www.medium.com/la-tiza

Il coronavirus è arrivato, ma avrebbe potuto essere una catastrofe meteorologica, un meteorite piovuto dallo spazio o qualsiasi altro buon tema per un film di fantascienza. È venuto a ricordarci la nostra fragilità come specie. E quando ci siamo svegliati, come il dinosauro del Monterroso*, il capitalismo era ancora lì.

Improvvisamente, i media hanno scoperto che lo smantellamento dei sistemi sanitari pubblici ha avuto un costo enorme e che lo avrebbero pagato gli stessi di sempre: quelli che non vanno dal medico perché non possono permettersi l’assicurazione, quelli che non possono smettere di lavorare, quelli che si ammalano di più e hanno un sistema immunitario depresso perché conducono una vita di totale stress fisico e mentale, quelli che sono senza casa o vivono in condizioni igieniche deplorevoli.

Ma questa storia, dura e difficile, è la storia dei paesi ricchi. Il coronavirus riserverà questo e molto altro ai paesi poveri; perché anche quelli che dovessero riuscire a contenere la malattia, non avranno poi modo di contenere il danno economico. L’effetto sui paesi sottosviluppati sarà di molte volte più forte.

In questi giorni si è discusso molto di come il virus abbia messo in stand-by ‒ e in dubbio ‒ il segno distintivo dell’economia mondiale degli ultimi decenni: la globalizzazione. La globalizzazione ha un cognome: è neoliberista. I processi accelerati di interconnessione del commercio, della produzione e della finanza mondiale sono stati articolati sulla base di criteri di redditività per le grandi imprese transnazionali.

I paesi poveri, che tanto si sono sacrificati per ottenere la loro sovranità politica, l’hanno scambiata con la sovranità economica. Ora hanno una bandiera, presidenti, parlamenti, processi elettorali e dibattiti televisivi; ma da un giorno all’altro, grazie alla tanto applaudita liberalizzazione finanziaria, i principali attori dei mercati finanziari possono portare tutto il loro denaro fuori dal paese e, con un tratto di penna, mandare in frantumi l’economia. Nel regno della libera mobilità dei capitali, i piccoli paesi subordinano tutto – politiche sociali, protezione delle risorse naturali e umane, trasformazione economica – all’“attrazione di capitali”. I mercati governano. I governi obbediscono.

In questa crisi non sarà diverso. L’Europa e gli Stati Uniti hanno tirato fuori i loro famosi bazooka di risorse per intervenire nell’economia. Sia i governi che le banche centrali hanno detto che faranno “tutto ciò che deve essere fatto”. Il diavolo è nei dettagli, perché la maggior parte di quel denaro andrà a finire, come nella precedente crisi, alle grandi banche e alle grandi imprese. E quando tutto sarà passato, il debito contratto dai governi per attivare i loro bazooka dovrà essere pagato con le tasse. Il capitale viene salvato. Gli altri pagano i costi.

Ma i paesi poveri non possono fare neanche questo. Anche se avrebbero bisogno di più soldi – i loro sistemi sanitari, di welfare e tutela rispetto alla disoccupazione sono molto più fragili – hanno livelli di debito pubblico enormi, per cui non sarebbero in grado di destinare le risorse per sostenere il sistema sanitario e recuperare l’economia che le grandi nazioni stanziano.

Non hanno una valuta di riserva internazionale, per cui le loro banche centrali non possono iniettare denaro a livelli sproporzionati[1]. Inoltre, la fuga di capitali porterà alla svalutazione delle valute nazionali, complicando al contempo i problemi di indebitamento e compromettendo le riserve di valuta estera. In nessun caso i paesi poveri potranno fare “tutto ciò che è necessario”.

Cosa lascia l’attuale ordine economico ai paesi poveri? La cooperazione internazionale. Da diversi decenni i problemi di circa 200 nazioni vengono decisi in riunioni di appena 8 o 20 paesi. I leader del G20 si sono incontrati in videoconferenza alla fine di marzo, quando il virus aveva già infettato più di mezzo milione di persone in tutto il mondo.[2]

Anche se c’è stato un impegno per immettere fondi e inviare un “messaggio forte” alla comunità internazionale, c’è poco da conciliare quando quello che predomina è salvare il capitale. Tanto meno quando alcune delle maggiori economie mondiali sono governate da personaggi che non sono solo estremisti, nazionalisti, razzisti e xenofobi, ma anche incompetenti: Trump e Bolsonaro in testa.

Il governo degli Stati Uniti ha inasprito le sanzioni contro il Venezuela, Cuba e l’Iran nel bel mezzo della pandemia globale e del caos totale sul piano interno.[3] Intende inoltre limitare l’esportazione di mascherine e dispositivi medici necessari per la gestione delle crisi in altri paesi[4], ed è stata denunciata la sua intenzione di cercare di ottenere l’esclusiva per gli Stati Uniti su un possibile vaccino contro il virus.[5]

Come se non bastasse, il 1 aprile Trump ha annunciato una presunta manovra per combattere il traffico di droga con la più grande mobilitazione di truppe navali dal 1989 nei Caraibi, aumentando la pressione sul Venezuela.[6] Cooperazione? No, “America first”.

Men che meno reagiranno le organizzazioni finanziarie internazionali, di dubbia prestigio nell’aiutare le nazioni sottosviluppate. Il Fondo Monetario Internazionale ha annunciato che sta valutando la creazione di una linea di finanziamenti a breve termine per i paesi in difficoltà.[7] Al momento ha negato un finanziamento al Venezuela a causa della messa in discussione della legittimità delle autorità bolivariane[8], mentre il governo statunitense sta cercando di bloccare un finanziamento all’Iran.[9]

E mentre accade tutto questo, i mercati finanziari rimangono aperti. Money never sleep, Il denaro non dorme mai. Sebbene si sente parlare di grandi cadute o di alta volatilità nei mercati azionari, questo è tutto l’insieme del mercato. Al suo interno ci sono vincitori e vinti: il capitale si ricompone e si concentra, sempre di più. E cosa sta facendo Wall Street? Sta finanziando gli sforzi per uscire dalla pandemia? No, fa la stessa cosa di sempre, speculare, giocare d’azzardo, trarre vantaggio, nel grande casinò globale, mentre i suoi investimenti non redditizi sono presi in carico dalle grandi banche centrali nel tentativo di salvare l’economia.

Non è difficile rendersi conto di come siamo arrivati fin qui. Stiamo raccogliendo il risultato dell’offensiva neoliberista. Si è aperto il camino, nel giro di decenni, ad ampi processi di privatizzazione e di deregolamentazione dell’attività privata, soprattutto nei paesi del Sud. Allo stesso tempo, sono state rimosse le barriere fondamentali alla circolazione di beni, servizi, capitali e valuta tra i paesi.

Come il peggiore dei virus, libero da restrizioni, il capitale si è appropriato di tutto ciò che lo circonda: beni pubblici, brevetti su prodotti che salvano la vita, la formazione delle generazioni future, la creazione artistica, il sapere scientifico, la parola, la politica, gli ideali, i sogni, tutto.

Il coronavirus ha finito di mettere a nudo il capitalismo, un sistema che non entra in crisi adesso. L’economia mondiale non si era ancora ripresa dalla crisi del 2008, sopravvivendo nell’ultimo decennio col respiratore artificiale, grazie a sproporzionate iniezioni di liquidità da parte delle principali banche centrali. Quella crisi l’hanno definita finanziaria, ma era un riflesso del fallimento del modello di accumulazione del capitalismo, del suo modello di consumo, una crisi ecologica, politica, di valori, sistemica.

Ma il capitalismo è una costruzione sociale. Il coronavirus ci ha anche messi a nudo come specie; ha mostrato la nostra capacità di autodistruzione e le nostre migliori espressioni di solidarietà che, purtroppo, emergono in modo diffuso solo in momenti estremi.

Non è il coronavirus. È il capitalismo. Siamo noi.

Lo scenario è cupo e va detto in tutta chiarezza. La crisi sanitaria non ha una fine chiara, soprattutto di fronte all’irresponsabilità e all’incompetenza del governo Trump. I contaggiati, i decessi e le curve continuano a crescere a livello mondiale. Ed è troppo presto per sapere quanto dureranno le condizioni atipiche, sia per la necessità di attendere un vaccino, sia per il pericolo di nuovi virus.

Poi arriverà il contraccolpo economico, che si comincia a sentire, ma che avrà il suo impatto più visibile una volta rimosse le principali misure di distanziamento sociale. Molti analisti prevedono che sarà una crisi peggiore di quella del 2008, con probabili conseguenze a tutte le latitudini del pianeta.

Il FMI prevede che 170 paesi entreranno in recessione nel 2020.[10] Un rapporto della Bloomberg avverte che la crisi potrebbe procurare una perdita all’economia mondiale di quasi 5.000 miliardi di dollari nei prossimi due anni, un volume superiore al PIL annuo del Giappone.[11] I suoi effetti asimmetrici, con costi elevati per il Sud, possono essere molto duri.

È stata enorme l’impressione in tutto il mondo per il numero delle morti e per le storie a esse associate: corpi abbandonati nelle strade o in attesa per giorni prima di essere prelevati da una casa, sistemi sanitari e funerari collassati, il ministero della Salute italiano che ha dato istruzione di lasciar vivere coloro che hanno la più lunga aspettativa di vita. Le manifestazioni di solidarietà e la condanna dell’inettitudine dei governi non si sono fatte attendere sui social network. Molti credono, con speranza in un miglioramento dell’essere umano, che quando tutto finirà le cose saranno diverse.

Il capitalismo non può essere ucciso da un virus. Forse vedremo un po’ più di investimenti nell’assistenza sanitaria e manifestazioni simboliche di filantropia multimilionaria da un Bill Gates o un’Alibaba. Ma nulla lascia intuire che la pandemia o i suoi effetti modificheranno le condizioni di riproduzione del capitale. Al contrario, le crisi sono una fonte di rigenerazione del capitale, soprattutto se la loro causa visibile è un “agente esterno” su cui si può scaricare tutta la colpa. Il sistema e le sue istituzioni potranno vacillare o mutare, ma saranno ancora lì, come il dinosauro.

Solo il “pobretariato”**, di fronte alla ripugnanza per la situazione sociale, può condurre un processo che pretenda una società post-capitalista. Nel periodo immediatamente precedente alla crisi, le rivolte sociali si sono fatte notare con forza a varie latitudini del pianeta. Tuttavia, non sono state capitalizzate da movimenti che potessero trasformare l’insoddisfazione in aspirazione a sviluppare un progetto alternativo a partire dalla messa in discussione del potere politico.

Il mondo si dibatterà tra la ristrutturazione del capitalismo che, ferito a morte, mostrerà il suo volto peggiore per uscire dalla crisi o un’opportunità per una rinascita dei movimenti sociali che possono trasformarsi in progetti politici concreti. Più di ogni altra volta, il paradosso di Rosa Luxemburg sarà reale: socialismo o barbarie.

Cuba ha le condizioni per essere meno colpita dalla crisi sanitaria, data l’unicità e l’universalità del suo sistema sanitario. Colpita dagli anni di crisi e dalla mancanza di risorse, molti hanno denigrato “ciò che è rimasto” di quel sistema, paragonando la qualità del servizio o la pulizia degli ospedali a quella di altri paesi. Abbiamo anche scoperto che, pur con molte cose da risolvere, il suo segno distintivo è nel livello dei suoi professionisti, nel sistema sanitario primario e nello sviluppo dell’industria biofarmaceutica.

Ma il sistema sanitario pubblico cubano non è una causa, piuttosto una conseguenza. È il risultato di un progetto sociale che, con tutti i suoi errori e le sue battute d’arresto, e contro molti, moltissimi demoni, ha sempre dimostrato un’etica e un umanesimo profondi, ovvero le sue radici martiane***.

Ci costa molto far avanzare l’economia, ma ci è del tutto chiaro che di fronte a un uragano, a una pandemia o a un malato di cancro, a Cuba o in qualsiasi altro luogo lontano, le poche risorse che abbiamo saranno disponibili, prima di tutto, per salvare vite umane. Non è solo una questione di priorità del governo, o dell’indiscussa ispirazione di Fidel, ma di formazione di un diverso soggetto sociale.

Il contesto socio-culturale della nostra storia di liberazione e, soprattutto, il profondo sconvolgimento sociale e politico degli ultimi sessant’anni ci hanno modellato in modo unico, con una sensibilità per il prossimo, per il bene comune, che produce “valorosi” da tutte le parti: nell’Africa subsahariana, in Andorra e in Amazzonia, in Angola e nella dura vita quotidiana del nostro popolo qui.

Anche molti di coloro che emigrano, in ambienti di estrema competizione e culture molto diverse, mantengono reti di solidarietà tra gli emigranti e con le loro famiglie che meriterebbero il massimo approfondimento.

È il momento di essere orgogliosi di ciò che siamo e di ciò che abbiamo costruito, con grande sacrificio. Per quelli che sono capaci di grandi gesti sul “fronte”, ma anche per molti altri, meno visibili, come Roxanne Castellanos, la psicologa che ha promosso una chiamata spontanea per applaudire lo sforzo con il “Cannone delle 9”**** e ha sentito il bisogno di aumentare la propria responsabilità con i bambini in momenti come questo.

È anche il momento di essere umili. L’orgoglio non può trasformarsi in arroganza, perché non abbiamo la migliore società del mondo: piuttosto, quella che siamo riusciti a costruire in mezzo alle aggressioni e alle difficoltà di tutta una opera fatto a mano, senza un manuale, da uomini e donne. Alcune delle sue virtù più notevoli sono la nostra capacità di proteggerci oggi e la nostra capacità di aiutare gli altri, ma non deve essere un gingillo politico per ostentare la superiorità del socialismo.

La superiorità del socialismo sta nella costruzione di un’alternativa alla logica del capitale, che dovrà essere dimostrata ancor di più. Al momento la situazione è altrettanto difficile per noi. Siamo cittadini del villaggio globale e saremo colpiti duramente dagli effetti della crisi economica, come paese povero e sottoposto a blocco,.

Dovremo unire tutte le forze per avanzare, perché quello che sta arrivando è difficile. Abbiamo esperienza nella gestione delle epidemie e nella amministrazione delle crisi economiche, ma poi dovremo recuperarci e riprendere in mano le trasformazioni economiche e politiche di un modello che, per quanto molti dibattiti, documenti e congressi abbiano detto che avremmo “aggiornato”, ha preso l’impegno di vincere.

Nei momenti in cui il sistema capitalista mostra ovunque le sue debolezze, Cuba non può salvarsi solo con il suo esempio e la sua solidarietà. Costruire un’alternativa è un obbligo, rimanere bloccati in trasformazioni minori è un suicidio. C’è ancora molto da provare, con il pragmatismo sì, ma senza perdere la rotta martiana e marxista.

Oggi la cosa necessaria è salvare vite umane, senza perdere di vista il salvare e dare impulso al progetto.

Note:

* Augusto Monterroso scrittore guatemalteco autore di un micro-racconto che ha per soggetto un Dinosauro (n.d.t.).

** “pobretariato” costruzione semantica dell’autore da probres, poveri e proletariato, (ndt).

*** Si riferisca a José Martì pensatore, politico rivoluzionario del XIX secolo, padre della patria cubana, (ndt).

**** Applauso per sostenere il personale della salute che ha luogo in tutta Cuba allo sparo del cannone delle nove dell’ Avana, (ndt).

[1] Per affrontare la crisi del 2008, la Federal Reserve, la banca centrale statunitense, ha quadruplicato la quantità di dollari in circolazione.

[2] «En su cumbre virtual líderes del G20 se compromete a dar fondos, esfuerzo y valentía contra el COVIV-19». 26 marzo 2020, www.vanguardia.com.mx.

[3] «¿Cómo las sanciones de Estados Unidos afectan a países con coronavirus?». 22 marzo 2020, www.razonesdecuba.cu.

[4] «Se desata feroz lucha entre países por hacerse con equipos médicos». 7 aprile 2020, www.m.lacapital.com.ar.

[5] «Trump busca exclusividad para EEUU de posible vacuna alemana contra COVID-19». 15 marzo 2020, www.dw.com.

[6] «¿Por qué EEUU despliega ahora su operación militar antidroga?». 4 aprile 2020, www.mundo.sputniknews.com.

[7] «IMF says world recession will be ´way worse¨ than 2008 crisis». 3 aprile 2020, www.globalnews.ca.

[8] «FMI niega a Venezuela los 5 mil millones de dólares solicitados para enfrentar el nuevo coronavirus». 18 marzo 2020, www.cubadebate.cu.

[9] «US to block Iran´s request to IMF for 5 billion loan to fight coronavirus». 7 aprile 2020, www.wsj.com.

[10] «El FMI prevé que 170 países entren en recesión este año en la peor crisis desde la Gran Depresión». 9 aprile 2020, www.lavanguardia.com.

[11] «World economy faces 5 trillion hit that´s like losing Japan». 8 aprile 2020, www.bloomberg.com.


Cuba, el coronavirus y el dinosaurio

Por Carlos Lage Codorniu

 

El coronavirus llegó, pero pudo ser una catástrofe meteorológica, un meteorito venido del espacio o cualquier otro buen tema para una película de ciencia ficción. Vino para recordarnos nuestra fragilidad como especie. Y cuando despertamos, como el dinosaurio de Monterroso, el capitalismo todavía estaba ahí.

De pronto, los medios descubrieron que desmontar los sistemas de sanidad pública tenía un costo enorme y que lo pagarían los de siempre: los que no van al médico porque no pueden pagar el seguro, los que no pueden dejar de trabajar, los que más se enferman y tienen su sistema inmunológico deprimido por llevar una vida de total stress físico y mental, los que no tienen casa o viven en condiciones higiénicas deplorables.

Pero ese relato, duro, difícil, es el relato de los países ricos. El coronavirus reservará eso y más a los países pobres; porque incluso aquellos que logren contener la enfermedad, no tendrán luego como contener el daño económico. El efecto en los países subdesarrollados será varias veces más fuerte.

En estos días se ha discutido mucho como el virus puso en stand by — y en duda — el sello de la economía mundial de las últimas décadas: la globalización. La globalización tiene apellido: es neoliberal. Los acelerados procesos de interconexión del comercio, la producción y las finanzas mundiales se articularon sobre la base de criterios de rentabilidad para las grandes empresas trasnacionales.

Los países pobres, que mucho sacrificaron por la obtención de su soberanía política, la intercambiaron por soberanía económica. Ahora tienen bandera, presidentes, parlamentos, procesos electorales y debates televisados; pero de la noche a la mañana, gracias a la tan aplaudida liberalización financiera, los principales jugadores de los mercados financieros pueden sacar todo su dinero del país y, de un plumazo, hacer trizas la economía. En el reino de la libre movilidad de capitales, los países pequeños subordinan todo — políticas sociales, protección de recursos naturales y humanos, transformación económica — a «atraer capitales». Los mercados gobiernan. Los gobiernos obedecen.

En esta crisis no será diferente. Europa y Estados Unidos han sacado sus famosas bazucas de recursos para intervenir en la economía. Tanto los gobiernos como los bancos centrales han dicho que harán «todo lo que haya que hacer». El diablo está en los detalles, porque la mayor parte de ese dinero irá a parar, al igual que en la crisis anterior, a los grandes bancos y las grandes empresas. Y cuando todo pase, habrá que pagar con impuestos la deuda en que incurrieron los gobiernos para activar sus bazucas. El capital se salva. Los demás pagan los costos.

Pero los países pobres tampoco podrían hacer eso. Aunque necesitarían más dinero — sus sistemas de sanidad, asistencia social y protección al desempleo son mucho más frágiles — , tienen enormes niveles de deuda gubernamental, por lo que no estarían en condiciones de destinarlos recursos que asignan las grandes naciones a sostener el sistema de salud y recuperar la economía.

No tienen una moneda de reserva internacional, por lo que sus bancos centrales no pueden inyectar dinero en niveles desproporcionados.[1] En adición, la salida de capitales conducirá a la depreciación de las monedas nacionales, al tiempo que complicará los problemas de la deuda y comprometerá las reservas de divisas. En ninguna circunstancia, los países pobres podrán hacer «todo lo que haya hacer».

¿Qué les deja a los países pobres el orden económico actual? La cooperación internacional. Desde hace varias décadas los problemas de cerca de 200 naciones se deciden en reuniones de apenas 8 o 20 países. Los líderes del G20 se reunieron por videoconferencia a finales de marzo, cuando ya el virus había infectado a más de medio millón de personas en el mundo.[2]

Aunque hubo un compromiso para inyectar fondos y enviar un «mensaje fuerte» a la comunidad internacional, poco se puede conciliar cuando lo que prima es salvar al capital. Menos aun cuando algunas de las principales economías del mundo están gobernadas por personajes no solo extremistas, nacionalistas, racistas y xenófobos, sino incompetentes: Trump y Bolsonaro a la cabeza.

El gobierno norteamericano ha endurecido las sanciones contra Venezuela, Cuba e Irán en medio de la pandemia mundial y un caos total a nivel interno.[3] También pretende limitar la exportación de mascarillas y utensilios médicos necesarios para la gestión de la crisis a otros países[4] y fue denunciada su intención de buscar exclusividad para Estados Unidos de una posible vacuna contra el virus.[5]

Para colmo, el 1º de abril Trump anunció una supuesta maniobra para combatir el narcotráfico con la mayor movilización de tropas navales desde 1989 en el Caribe, aumentando la presión sobre Venezuela.[6] ¿Cooperación? No, America first.

Tampoco reaccionarán los organismos financieros internacionales, de dudoso prestigio en el auxilio a las naciones subdesarrolladas. El Fondo Monetario Internacional anunció que evalúa la creación de una línea de financiamientos de corto plazo para los países en problemas.[7] De momento, le negó un financiamiento a Venezuela en virtud de cuestionar la legitimidad de las autoridades bolivarianas,[8] mientras el gobierno norteamericano intenta bloquear un financiamiento a Irán.[9]

Y mientras todo eso ocurre, los mercados financieros siguen abiertos. Money never sleep. Aunque se oye hablar de grandes caídas o de elevada volatilidad de las bolsas, ese es el conjunto del mercado. A su interior hay ganadores y perdedores: el capital se recompone y se centraliza, aún más. ¿Y qué hace Wall Street? ¿Financiar los esfuerzos para salir de la pandemia? No, hace lo mismo de siempre, especular, apostar, tomar ventaja, en el gran casino global, mientras sus inversiones irrentables son asumidas por los grandes bancos centrales en el esfuerzo por salvar la economía.

No es difícil percatarse de cómo llegamos hasta aquí. Estamos recogiendo el resultado de la ofensiva neoliberal. Se ha dado paso, en cuestión de décadas a amplios procesos de privatización y desregulación de la actividad privada, en especial en los países del Sur. Mientras, se eliminaron las barreras fundamentales a los movimientos de bienes, servicios, capital y monedas entre países.

Como el peor de los virus, libre de restricciones, el capital se apropió de todo a su alrededor: bienes públicos, patentes de productos que salvan vidas, la formación de las generaciones futuras, la creación artística, el conocimiento científico, el discurso, la política, los ideales, los sueños, todo.

El coronavirus terminó de desnudar al capitalismo, un sistema que no entra en crisis ahora. La economía mundial aún no se recuperaba de la crisis de 2008, sobreviviendo la última década con respiración artificial, gracias a las desproporcionadas inyecciones de liquidez de los principales bancos centrales. A aquella crisis le llamaron financiera, pero era un reflejo del quiebre del patrón de acumulación del capitalismo, de su patrón de consumo, una crisis ecológica, política, de valores, sistémica.

Pero el capitalismo es una construcción social. El coronavirus nos desnudó también como especie; mostró nuestra capacidad de autodestrucción y nuestras mejores expresiones de solidaridad que, por desgracia, solo afloran de manera extendida en momentos extremos.

El escenario es sombrío y hay que decirlo con todas sus letras. La crisis sanitaria no tiene un final claro, en especial ante la irresponsabilidad y la incompetencia del gobierno de Trump. Los infectados, las muertes y las curvas siguen creciendo a nivel mundial. Y es pronto para saber cuánto tiempo durarán las condiciones atípicas, ya sea por la necesidad de esperar a una vacuna o por el peligro de aparición de nuevos virus.

Luego, vendrá el golpe económico, que empieza a sentirse, pero tendrá sus impactos más visibles una vez que se levanten las principales medidas de distanciamiento social. Muchos analistas auguran que será una crisis peor que la de 2008, con consecuencias probables en todas las latitudes del planeta.

El FMI prevé que 170 países entrarán en recesión en2020.[10] Un reporte de Bloomberg indica que la crisis podría suponer una pérdida para la economía mundial de cerca de 5 millones de millones de dólares en los próximos dos años, un volumen superior al PIB anual de Japón.[11] Sus efectos asimétricos, con grandes costos para el Sur, pueden ser muy duros.

Ha sido enorme la sensibilidad a nivel mundial ante el número de muertes y las historias asociadas: cuerpos abandonados en las calles o esperando días para ser recogidos en una casa, sistemas sanitarios y funerarios colapsados, el ministerio de salud de Italia instruyendo dejar vivir a los de mayor esperanza de vida. Las muestras de solidaridad y la condena a la ineptitud de los gobiernos no se han hecho esperar en las redes sociales. Muchos creen, con esperanza en el mejoramiento humano, que cuando todo acabe las cosas serán diferentes.

Al capitalismo no lo puede matar un virus. Quizás observemos un poco más de inversión en sanidad y muestras simbólicas de filantropismo multimillonario a lo Bill Gates o Alibaba. Pero nada indica que la pandemia o sus impactos modificarán las condiciones de reproducción del capital. Al contrario, las crisis son fuente de regeneración del capital, más si su causante visible es un «agente externo» que puede cargar con todas las culpas. El sistema y sus instituciones podrían tambalearse o mutar, pero seguirán ahí, como el dinosaurio.

Solo el «pobretariado», ante el hastío por la situación social, puede conducir a un proceso que pretenda una sociedad postcapitalista. En el preámbulo de la crisis, los estallidos sociales se hicieron notar con fuerza en varias latitudes del planeta. Sin embargo, no fueron capitalizados por movimientos que pudieran transformar la insatisfacción en aspiración a desarrollar un proyecto alternativo a partir de la discusión del poder político.

Cuba tiene condiciones para salir menos afectada por la crisis sanitaria, dada la singularidad y universalidad de su sistema de salud. Golpeado por los años de crisis y la falta de recursos, muchos denigraban «lo que quedaba» de ese sistema, comparando la calidad con otros países por el servicio o la limpieza de los hospitales. Descubrimos, nosotros también, que con muchas cosas por resolver, su sello está en el nivel de sus profesionales, el sistema de atención primaria de salud y el desarrollo de la industria biofarmacéutica.

Pero el sistema de salud pública cubano no es causa, sino consecuencia. Es el resultado de un proyecto social que, con todos sus errores y tropiezos, y contra muchos, muchísimos demonios, demostró siempre una profunda eticidad y humanismo, su raíz martiana.

Nos cuesta mucho echar adelante la economía, pero tenemos meridiana claridad de que ante un ciclón, una pandemia o un enfermo de cáncer, en Cuba o en cualquier remoto lugar, los pocos recursos que tenemos se dispondrán para salvar vidas, en primera instancia. No solo es una cuestión de prioridad del gobierno, o del incuestionable liderazgo de Fidel, sino de la formación de un sujeto social diferente.

Incluso muchos de los que emigran, en ambientes de competencia extrema y culturas muy diferentes, mantienen redes de solidaridad entre emigrados y con sus familias que merecerían el más profundo estudio.

Es el momento de sentir orgullo por lo que somos y lo que hemos construido, a mucho sacrifico. Por aquellos que son capaces de grandes desprendimientos en el «frente», pero también por muchos otros, menos visibles, como Roxanne Castellanos, la psicóloga que promovió un llamado espontáneo a aplaudir el esfuerzo con el «Cañonazo de las 9» y sintió la necesidad de reforzar su responsabilidad con los niños en momentos como este.

También es el momento de ser humildes. El orgullo no puede convertirse en arrogancia, porque no tenemos la mejor sociedad del mundo: apenas, la que hemos podido construir en medio de agresiones y las complejidades de toda obra hecha a mano, sin manual, por hombres y mujeres. Algunas de sus más notables virtudes son nuestra protección de hoy y nuestra posibilidad de ayudar a otros, pero no debe ser baratija política para ostentar la superioridad del socialismo.

La superioridad del socialismo está en la construcción de una alternativa a la lógica del capital, que habrá de demostrarse aún. De momento, la coyuntura es igual de difícil para nosotros. Somos ciudadanos de la aldea global y seremos golpeados con dureza, como país pobre y bloqueado, por los efectos de la crisis económica.

Habrá que aunar todas las fuerzas para salir adelante, porque lo que viene es duro. Tenemos experiencia en la gestión de epidemias y en la administración de crisis económicas, pero luego habrá que recuperarse y retomar las transformaciones económicas y políticas de un modelo que, no importa cuántos debates, documentos y congresos hayan dicho que «actualizaríamos», se ha empeñado en prevalecer.

Preciso hoy es salvar vidas, sin perder la vista en salvar e impulsar el proyecto.


Notas:

 

[1] Para hacer frente la crisis de 2008 la Reserva Federal, el banco central norteamericano, multiplicó por cuatro la emisión de dólares en circulación.

[2] «En su cumbre virtual líderes del G20 se compromete a dar fondos, esfuerzo y valentía contra el COVIV-19». 26 de marzo de 2020, www.vanguardia.com.mx.

[3] «¿Cómo las sanciones de Estados Unidos afectan a países con coronavirus?». 22 de marzo de 2020, www.razonesdecuba.cu.

[4]«Se desata feroz lucha entre países por hacerse con equipos médicos». 7 de abril de 2020, www.m.lacapital.com.ar.

[5] «Trump busca exclusividad para EEUU de posible vacuna alemana contra COVID-19». 15 de marzo de 2020, www.dw.com.

[6] «¿Por qué EEUU despliega ahora su operación militar antidroga?». 4 de abril de 2020, www.mundo.sputniknews.com.

[7] «IMF says world recession will be ´way worse¨ than 2008 crisis». 3 de abril de 2020, www.globalnews.ca.

[8] «FMI niega a Venezuela los 5 mil millones de dólares solicitados para enfrentar el nuevo coronavirus». 18 de marzo de 2020, www.cubadebate.cu.

[9] «US to block Iran´s request to IMF for 5 billion loan to fight coronavirus». 7 de abril de 2020. www.wsj.com.

[10] «El FMI prevé que 170 países entren en recesión este año en la peor crisis desde la Gran Depresión ». 9 de abril de 2020, www.lavanguardia.com.

[11] «World economy faces 5 trillion hit that´s like losing Japan». 8 de abril de 2020. www.bloomberg.com.

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