Colombia come strumento politico della strategia USA contro il Vzla

Martha Ortega  https://medium.com/@misionverdad2012

Dobbiamo intendere la recente storia colombiana dall’avvento della mega industria mondiale del narcotraffico che cavalca sul conflitto armato più lungo della storia contemporanea e che viene spesso messo in secondo piano. Ciò si verifica, tra l’altro, per evitare di spiegarne le sue cause ed evidenziare le debolezze strutturali del quadro istituzionale dello stato colombiano nel suo insieme.

È una realtà innegabile: il traffico di droga è il motore che muove la politica colombiana e la sua stretta relazione con gli USA è stata determinata dall’importanza che questo fattore di primo ordine ha nell’agenda politica.

Ha dato origine al Plan Colombia con ingenti risorse per le forze militari e di polizia per “la lotta contro il traffico di droga e la lotta controinsurrezionale” che in gran parte si trasforma in acquisto di attrezzature ed armi.

Dietro le quinte, la cocaina è il suo principale prodotto di esportazione la cui destinazione sono gli USA.

Gli USA delegano, in Colombia, il lavoro sporco

 

Dall’arrivo di Iván Duque al potere, il 7 agosto 2018, l’élite colombiana ha cercato in tutti i modi di lavarsi la faccia criminalizzando il legittimo governo del presidente Nicolás Maduro.

È interessante notare che durante l’investitura del capo di Nariño, il discorso di Ernesto Macías, all’epoca presidente del Congresso, si prospettasse la presunta preoccupazione per l’aumento del traffico di droga e si ratificasse l’importanza di contare sul sostegno degli USA per combatterlo.

Macías disse testualmente: “Oggi riceve un paese che ha il vergognoso record di essere il primo produttore di cocaina al mondo, più di 210 mila ettari seminati, 921 mila tonnellate metriche di cocaina (…) La Colombia non può rimanere con le scuse che, recentemente, espresse l’ex presidente Santos ad un media, incolpando gli USA per l’aumento delle colture illecite perché i nuovi consumatori di cocaina sono aumentati in quel paese. Al contrario, dobbiamo assumere con decisione l’eradicazione e la sostituzione delle colture illecite, questo sì con il sostegno di quel grande alleato della Colombia, gli USA”.

Un mese dopo l’investitura, The Inter-American Dialogue (un’istituzione del pensiero USA volto a posizionare le percezioni degli USA su questioni in America Latina) ha organizzato un evento con il cancelliere designato da Iván Duque, Carlos Holmes Trujillo, a cui hanno partecipato anche Francisco. Carrión, ambasciatore dell’Ecuador negli USA; Andrew Selee, presidente dell’Istituto per le Politiche Migratorie; e Pedro Burelli, ex direttore esterno di PDVSA.

L’evento si è concentrato sul consolidamento del resoconto di come “la crisi del Venezuela colpisce la regione” e le azioni politiche che dovevano essere intraprese insieme.

Al di là della nota ripetizione della narrativa anti-venezuelana, questa conversazione si è rivelata essere una sorta di ufficializzazione dell’entrata in scena del governo di Iván Duque nel suo ruolo di armatore politico degli USA e del suo piano di intervento contro il Venezuela.

Durante la discussione, il moderatore Michael Schifter (che era anche direttore del programma latino-americano del National Endowment for Democracy) ha sottolineato che il neoeletto presidente Duque stava assumendo il suo mandato con preoccupazione per la “rinarcotizzazione” delle relazioni colombiano-statunitensi, ed ha chiesto a Holmes Trujillo sulla “preoccupante” possibilità che, ancora una volta, la questione della droga fosse la priorità delle relazioni bilaterali, a scapito dell’ affrontare altre questioni, in chiaro riferimento al conflitto venezuelano.

D’altra parte, l’ambasciatore ecuadoriano Francisco Carrión ha affermato che il suo paese è stato generoso con la Colombia accogliendo 300.000 colombiani vittime della violenza e che a causa di questa situazione all’Ecuador risultava quasi impossibile ricevere migranti venezuelani.

La risposta del ministro degli Esteri Holmes Trujillo è stata che erano disposti a discutere con l’Ecuador le migliori soluzioni a queste preoccupazioni, ma ha data per conclusa la discussione, sottolineando che “questo tipo di disaccordo potrebbe danneggiare la coesione politica necessaria tra i loro paesi per coordinare attacchi di diverso tipo contro Venezuela”.

Chiaramente, il ministro degli Esteri colombiano ha fatto sapere che lo scopo di tale evento era pensare ad una coalizione di paesi contro il Venezuela. Le “altre questioni” a cui Schifter si riferiva.

L’immancabile momento “sorpresa” dell’evento si è verificato quando un partecipante anonimo che si è identificato come “abitante colombiano di Chocó” ha comunicato telefonicamente per denunciare che la sua regione “funge da corridoio per il passaggio di cubani e venezuelani che lo usano come ponte per il traffico di stupefacenti verso il Centroamerica e gli USA, il che ha generato, in questa zona, un focus di violenza”.

Una comoda testimonianza adattata alle intenzioni anti-venezuelane di Holmes Trujillo e del Inter-American Dialogue.

Controllo dei danni pensato da Washington

 

Il fallimento dell’Operazione Gedeon, condotta all’inizio di maggio, ha chiarito il ruolo della Colombia e il suo ruolo di avanguardia della “coalizione multilaterale” contro il Venezuela.

Iván Duque e il suo mentore Álvaro Uribe hanno accettato il loro ruolo di armatori della strategia USA, mettendo a nudo la debolezza istituzionale dell’intero stato colombiano quando il suo governo, da un lato, assicura di non avere nulla a che fare con la fallita operazione mercenaria e, dall’altra, denuncia pubblicamente la fuga di informazioni dai suoi apparati di sicurezza che ha finito per confermare la sua diretta partecipazione alla fallita incursione per le coste venezuelane.

Ma la perdita più importante di questa operazione è la legittimità dell’interim immaginario di Juan Guaidó. Come negare i suoi legami con il narcotraffico?

Tuttavia, i tentativi di resuscitare la strategia di Guaidó continuano dal think tank The Inter-American Dialogue.

Il 18 maggio, detta istituzione ha nuovamente organizzato un evento di taglio anti-venezuelano chiamato “Conversazioni con Juan Guaidó”, in cui di nuovo Michael Schifter ha tracciato la linea discorsiva affermando che “cercare un modo per porre fine all’incubo che stanno vivendo i venezuelani è stat eo continua ad essere la priorità più urgente per il dialogo interamericano”.

Il forum organizzato da Schifter ha avuto la partecipazione speciale dell’ex presidentessa del Costarica, Laura Chinchilla, le cui prime parole hanno espresso “il grande onore che pochissimi capi di stato hanno potuto avere” in riferimento all’accoglienza che Donald Trump ha fatto a Juan Guaidó alla Casa Bianca all’inizio di febbraio.

Impossibilitata di eludere il tema della fallita Operazione Gedeon, Chinchilla si è riferita a ciò che è accaduto il 3 maggio come “una situazione da cui il regime ha ottenuto profitto”, suggerendo a Juan Guaidó che questo incidente lo portasse “necessariamente a ripensare o riconsiderare l’uso della forza come uno degli scenari per risolvere la situazione in Venezuela”.

Chinchilla non ha avuto scrupoli nel ripetere il consunto mantra de “è colpa di Maduro” al riferirsi alla situazione nazionale, partecipando come pezzo minore all’impalcatura di controllo dei danni portata avanti dalla mal chiamata “comunità internazionale” dopo il fallimento dell’operazione.

L’ultimo capitolo della summenzionata manovra di controllo dei danni per coprire la forza del fallimento dell’Operazione Gedeon ha avuto luogo con l’organizzazione della cosiddetta “Conferenza dei Donatori“, che si è svolta con il presunto obiettivo di raccogliere 2800 milioni di dollari per i migranti venezuelani nei paesi dell’America Latina.

All’evento, in nessun momento sono state prese in considerazione le migliaia di venezuelani che stanno tornando nel paese, fuggendo dal collasso causato dal Covid-19 in questi paesi, nonché l’emarginazione, xenofobia e stigmatizzazione.

Il ritorno dei venezuelani nel loro paese smonta uno sforzo discorsivo pluriennale, perfettamente fabbricato da questi gruppi di pensiero con sede a Washington.

Vale la pena chiedersi, dopo Gedeon, come si articola di nuovo la cosiddetta “comunità internazionale”? La risposta è chiara: organizzando una conferenza dei donatori in cui ogni paese richiede la propria quota di quel denaro per entrare a far parte della “coesione multilaterale contro il regime”.

Senza sorpresa alcuna durante la conferenza, Iván Duque ha sottolineato che: “… sebbene questa sia una riunione in cui stiamo essenzialmente parlando della assistenza ai rifugiati, questa deve essere un’opportunità per manifestare con forza che se non termina rapidamente tale dittatura in Venezuela la situazione peggiorerà”, dicendo anche che dovrebbe “cessare l’usurpazione, fare un’ampia transizione, elezioni libere e ricostruzione”.

Resta evidente che se Guaidó e Duque hanno qualcosa in comune, è che onorano gli stessi padri fondatori, gli stessi che hanno appena inviato un contingente di oltre 800 militari per la presunta lotta antidroga nel Catatumbo colombiano.

Non è necessario chiarire le reali intenzioni di questo movimento.

La migrazione venezuelana di andata e ritorno, la presunta crisi umanitaria e la “dittatura di Maduro” continueranno ad essere le scuse perfette dell’oligarchia colombiana per non vedersi l’ ombelico, in modo che altri non vedano la sua debolezza istituzionale, la sua guerra e la sua industria del traffico di droga dispiegato per la regione.

Dopotutto, persino le lance che si slegano là finiscono qui nella terra di Bolivar.


Colombia como instrumento político de la estrategia de EEUU contra Venezuela

Por Martha Ortega

La historia colombiana reciente debemos entenderla a partir del auge de la mega industria mundial del narcotráfico que cabalga sobre el conflicto armado más largo de la historia contemporánea, y que con frecuencia es puesto en segundo plano. Esto ocurre, entre otras cosas, para evitar explicar sus causas y evidenciar las debilidades estructurales de la institucionalidad del estado colombiano en su conjunto.

Es una realidad inobjetable: el narcotráfico es el motor que mueve la política colombiana y su estrecha relación con Estados Unidos ha sido determinada por la importancia que este factor de primer orden tiene en la agenda política.

Ha dado origen al Plan Colombia con ingentes recursos a fuerzas militares y policiales para “el combate contra el narcotráfico y la lucha contrainsurgente” que en gran medida se transforma en compra de equipos y armas.

Tras bastidores, la cocaína es su principal producto de exportación cuyo destino es Estados Unidos.

Estados Unidos delega en Colombia el trabajo sucio

Desde la llegada de Iván Duque al poder el 7 de agosto de 2018, la élite colombiana ha intentado por todas las vías lavarse la cara criminalizando al gobierno legítimo del presidente Nicolás Maduro.

Resalta que durante la toma de posesión del jefe de Nariño, el discurso de Ernesto Macías, presidente del Congreso para ese entonces, se planteara la supuesta preocupación por el aumento del narcotráfico y se ratificara la importancia de contar con el apoyo de EEUU para combatirlo.

Dijo textualmente Macías:

“Hoy recibe usted un país que tiene el deshonroso récord de ser el primer productor de cocaína del mundo, más de 210 mil hectáreas sembradas, 921 mil toneladas métricas de cocaína (…) Colombia no puede quedarse con la disculpa que recientemente planteó el ex presidente Santos a un medio de comunicación, culpando a los EEUU del aumento de los cultivos ilícitos porque los nuevos consumidores de cocaína se incrementaron en ese país. Por el contrario, debemos asumir con decisión la erradicación y sustitución de cultivos ilícitos, eso sí con el apoyo de ese gran aliado de Colombia, Estados Unidos”.

Un mes después de la toma de posesión, The Inter-American Dialogue (tanque de pensamiento norteamericano dirigido a posicionar las percepciones estadounidenses sobre temas en América Latina) organizó un evento con el canciller designado por Iván Duque, Carlos Holmes Trujillo, donde también participaron Francisco Carrión, embajador de Ecuador en Estados Unidos; Andrew Selee, presidente del Instituto de Políticas Migratorias; y Pedro Burelli, ex director externo de PDVSA.

El evento estuvo centrado en la consolidación del relato de cómo “la crisis de Venezuela afecta a la región” y las acciones políticas que debían emprenderse en conjunto.

Más allá de la conocida repetición de la narrativa antivenezolana, este conversatorio resultó ser una especie de oficialización de la entrada en escena del gobierno de Iván Duque en su rol de armador político de Estados Unidos y su plan de intervención contra Venezuela.

Durante el conversatorio, el moderador Michael Schifter (quien también fue director del programa latinoamericano de la National Endowment for Democracy) señaló que el recién electo presidente Duque tomaba su mandato con preocupación por la “renarcotización” de las relaciones colombo-estadounidenses, y preguntó a Holmes Trujillo sobre la “preocupante” posibilidad de que, nuevamente, el tema de la droga fuese la prioridad de las relaciones bilaterales, en desmedro del abordaje de otros asuntos, en clara referencia al conflicto venezolano.

Por otra parte, el embajador ecuatoriano Francisco Carrión afirmó que su país ha sido generoso con Colombia al acoger a 300 mil colombianos víctimas de la violencia, y que debido a esta situación a Ecuador le resultaba casi imposible recibir a los migrantes venezolanos.

La respuesta del canciller Holmes Trujillo fue que estaban dispuestos a discutir con Ecuador las mejores salidas a estas inquietudes, pero dio por concluida la discusión señalando que “este tipo de desacuerdos podría afectar la cohesión política necesaria entre sus países para coordinar ataques de distinta índole contra Venezuela”.

Claramente el canciller colombiano dejaba saber que la finalidad de dicho evento era pensar una coalición de países contra Venezuela. Los “otros asuntos” a los que se refería Schifter.

El infaltable momento “sorpresa” del evento ocurrió cuando un participante anónimo que se identificó como “habitante colombiano del Chocó” se comunicó vía telefónica para denunciar que su región “sirve de corredor para el paso de cubanos y venezolanos que lo usan como puente para el narcotráfico hacia Centroamérica y EEUU, lo cual ha generado en esta zona un foco de violencia”.

Un conveniente testimonio a la medida de las intenciones antivenezolanas de Holmes Trujillo y el.

Control de daños pensado desde Washington

El fracaso de la Operación Gedeón llevada a cabo a principios de mayo dejó en clara evidencia el rol de Colombia y su papel de vanguardia de la “coalición multilateral” contra Venezuela.

Iván Duque y su mentor Álvaro Uribe han aceptado su rol como armadores de la estrategia de Estados Unidos, dejando al desnudo la debilidad institucional de todo el estado colombiano cuando su gobierno, por un lado, asegura no tener nada que ver con la fallida operación mercenaria, y por otro, denuncia públicamente la fuga de información desde sus aparatos de seguridad que terminaron confirmando su participación directa en la incursión fallida por las costas venezolanas.

Pero la baja más importante de esta operación es la legitimidad del interinato imaginario de Juan Guaidó. ¿Cómo negar sus vínculos con el narcotráfico?

No obstante, los intentos por resucitar la estrategia Guaidó continúan desde el think tank The Inter-American Dialogue.

El 18 de mayo dicha institución nuevamente organizó un evento de corte antivenezolano denominado “Conversaciones con Juan Guaidó”, en el cual de nuevo Michael Schifter trazó la línea discursiva al afirmar que “buscar la manera de poner fin a la pesadilla que están viviendo los venezolanos ha sido y sigue siendo la más urgente prioridad de diálogo interamericano”.

El foro organizado por Schifter tuvo la participación especial de la ex presidenta de Costa Rica, Laura Chinchilla, cuyas primeras palabras expresaron “el gran honor que muy pocos jefes de estado han podido tener” en referencia al recibimiento que le hiciera Donald Trump a Juan Guaidó en la Casa Blanca a principios de febrero.

Imposibilitada para evadir el tema de la fallida Operación Gedeón, Chinchilla se refirió a lo sucedido el 3 de mayo como “una situación a la que el régimen ha logrado sacar provecho”, sugiriendo a Juan Guaidó que este incidente lo llevaba “necesariamente a replantear o reconsiderar el uso de la fuerza como uno de los escenarios para resolver la situación en Venezuela”.

Chinchilla no tuvo reparos en repetir el desgastado mantra de “la culpa es de Maduro” al referirse a la situación nacional,

participando como una pieza menor en el andamiaje de control de daños llevado adelante por la mal llamada “comunidad internacional” después del fracaso de la operación.

El último capítulo de la ya mencionada maniobra de control de daños para tapar la contundencia del fracaso de la Operación Gedeón tuvo lugar con la organización de la llamada “Conferencia de Donantes”, que se realizó con el supuesto objetivo de recabar 2 mil 800 millones de dólares para los migrantes venezolanos en países latinoamericanos.

En el evento, en ningún momento se consideró a los miles de venezolanos que están regresando al país, huyendo del colapso provocado por el Covid-19 en estos países, así como de la marginación, la xenofobia y la estigmatización.

El retorno de los venezolanos a su país desmota un esfuerzo discursivo de varios años, perfectamente fabricado desde estos tanques de pensamiento con sede en Washington.

Vale la pena preguntarnos, después de Gedeón, ¿cómo se articula de nuevo a la llamada “comunidad internacional”? La respuesta es clara: organizando una conferencia de donantes donde cada país exige su parte de dicho dinero para formar parte de la “cohesión multilateral contra el régimen”.

Sin sorpresa alguna durante la conferencia, Iván Duque señaló que: “…si bien esta es una reunión donde estamos hablando esencialmente de la atención a los refugiados, esta tiene que ser una oportunidad para manifestar con contundencia que si no termina rápidamente esa dictadura en Venezuela, esa situación se va agravar”, sentenciando también que debía “cesar la usurpación, hacer una transición amplia, elecciones libres y reconstrucción”.

Queda en evidencia que si algo tienen en común Guaidó y Duque es que rinden honores a los mismos padres fundadores, los mismos que acaban de mandar un contingente de más de 800 efectivos militares para la supuesta lucha antidrogas en el Catatumbo colombiano.

No hace falta aclarar las intenciones reales de este movimiento.

La migración venezolana de ida o de vuelta, la supuesta crisis humanitaria y “la dictadura de Maduro” seguirán siendo las excusas perfectas de la oligarquía colombiana para no verse el ombligo, para que otros no vean su debilidad institucional, su guerra y su industria del narcotráfico desplegado por la región.

Después de todo, hasta las lanchas que se desamarran allá terminan aquí en la tierra de Bolívar.

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