Venezuela. Sanzioni e lawfare, armi subdole delle democrazie borghesi

di Geraldina Colotti

Democrazia “partecipata e protagonista”. Così la costituzione bolivariana definisce l’importanza del potere popolare in Venezuela. Questo significa che la politica, intesa come gestione della polis, non è delegata a un atto rituale da espletare con il voto a ogni tornata elettorale, ma è organizzazione quotidiana, diretta e responsabile che riguarda ogni persona, intesa come essere sociale. Prevede soggetti consapevoli delle cause e delle conseguenze del proprio agire nel mondo, che non si limitano a essere spettatori o spettatrici.

In quest’ottica, la costituzione bolivariana attesta che la sovranità risiede “in modo intrasferibile” nel popolo, e che ogni carica pubblica può essere sottoposta a referendum, previa raccolta di firme, a metà mandato. In quest’ottica, nell’ottica di una “rivoluzione permanente” tra conflitto e consenso avviata verso la transizione al socialismo, le elezioni puntano a consolidare e costruire nuovi spazi di agibilità per il potere popolare: per quella che, in altre latitudini, si potrebbe definire “autonomia di classe”.

Garante di questo processo è il Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV), un partito di quadri e di movimento, il più grande dell’America Latina, forte di una capillare organizzazione sociale. Coadiuvato dalle forze alleate nel Gran Polo Patriotico (GPP), il PSUV si avvia alla sua elezione n. 25, alle legislative del 6 di dicembre. Delle 24 precedenti, organizzate da quando Hugo Chavez ha vinto le presidenziali del 1998, il socialismo bolivariano ne ha perse 2, e sempre ha riconosciuto la sconfitta.

In questi giorni, il presidente Maduro ha presentato le componenti e i componenti del Comando di campagna, diretto dall’ex ministro della Comunicazione, Jorge Rodriguez e dedicato a Dario Vivas, il dirigente del PSUV recentemente scomparso a causa del coronavirus.

Le parlamentari si svolgeranno all’insegna dell’”unità nazionale” e del dialogo con quella parte dell’opposizione non golpista che ha deciso di partecipare al voto, e che ha contribuito alla costituzione di un nuovo Consejo Nacional Electoral (CNE), uno dei 5 poteri di cui si compone l’istituito bolivariano.

Per la prima volta nella storia del Parlamento venezuelano, il numero dei e delle deputate passerà da 167 a 277, dando una ancor più ampia garanzia di partecipazione agli 89 partiti politici – 29 nazionali, 6 indigeni e 53 regionali – abilitati per questa competizione elettorale. “Si è formato un solido blocco di donne, giovani, di comuneros, della classe operaia, della terza età, di contadini, di imprenditori patrioti, del Gran Polo Patriotico”, ha detto Maduro. Il GPP presenterà 554 candidati, affidati al sistema di voto, altamente automatizzato, considerato a prova di frodi da tutti gli osservatori elettorali.

Anche la preparazione al voto, infatti, è un ulteriore esercizio di sovranità e partecipazione popolare, perché coinvolge, durante tutto l’anno, lavoratori e lavoratrici addetti alla costruzione, al controllo e al trasporto delle macchinette elettorali, nonché alla “difesa integrale” delle urne e dei seggi dall’inveterata aggressività dell’estrema destra venezuelana.

Chiunque, per quanto distante dal progetto bolivariano, sia stato in Venezuela da osservatore elettorale, non ha potuto che lodarne l’esemplare correttezza. D’altro canto, la stessa opposizione si è servita del meccanismo per svolgere le proprie primarie, ed è stato lo stesso sistema elettorale a registrare la vittoria della destra alle ultime parlamentari.

Purtroppo, però, la stragrande maggioranza dei cittadini europei o statunitensi non ha modo di conoscere né i meccanismi di decisione popolare del socialismo cubano, né il funzionamento della democrazia partecipata e protagonista del Venezuela.

Le informazioni che gli arrivano sono infatti filtrate dai grandi apparati ideologici di controllo, capaci di presentare come “democratico” un personaggio come Guaidó, che nessuno ha eletto, ma che si è autoproclamato “presidente a interim” per volere di Trump.

Facendo eco alla voce del padrone nordamericano, i media europei enfatizzano perciò sia le “sanzioni” imposte dagli USA persino ai rappresentanti dell’opposizione moderata in Venezuela, sia il “boicottaggio radicale”, di Guaidó nell’ambito di un “Patto d’unità con “37 partiti e un centinaio di movimenti sociali”. Che quei “movimenti” siano Ong emanazione delle agenzie per la sicurezza USA, e che molti di quei partiti facciano ormai i loro congressi nelle cabine telefoniche data la loro consistenza reale, poco importa. Non devono rispondere al popolo, ma alle grandi corporazioni internazionali.

A fronte della crisi della democrazia borghese, conclamata a livello mondiale, quel che importa è veicolare il concetto che l’unica democrazia possibile sia quella stabilita da Washington, dove a decidere è un intreccio lobbistico, e dai comitati d’affari delle grandi istituzioni internazionali. Una “democrazia” dell’ingerenza, che celebra se stessa arrivando a proporre al Nobel per la Pace Donald Trump.

Eppure i termini di paragone non mancherebbero, negli Stati Uniti, in America Latina e in Europa. Mentre in Venezuela si aumenta il numero dei parlamentari e si garantisce ancor di più la partecipazione delle minoranze, in Italia, per esempio, si vorrebbe fare il contrario.

Il 20 e il 21 settembre, i cittadini si recheranno a votare per un referendum che propone di tagliare il numero di parlamentari da 630 a 400 (alla Camera) e da 315 a 200 al Senato. Una proposta che alcuni partiti, a partire dal Movimento 5 Stelle che ne ha fatto una bandiera, presentano come una misura contro gli sprechi e la burocrazia, benché il risparmio annuale per le casse dello Stato sia dello 0,01%.

Per le forze di alternativa, si tratta invece di una ulteriore limitazione alla rappresentanza democratica, in un paese in cui esiste un’elevata soglia di sbarramento elettorale che impedisce ai settori popolari di portare in Parlamento i propri eletti, e dove i costi di una campagna elettorale sono altissimi.

Una cortina di fumo, inoltre, a fronte, per esempio, della distanza siderale tra lo stipendio di un operaio e quello di un grande manager o di un alto funzionario, che né la presunta vocazione anti-sistemica dei 5S, né il “centro-sinistra” a cui piacciono prima di tutto i padroni, si sognano di mettere in questione.

Così, d’altronde, si è espresso in una intervista il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, interpretando il parere del governo: “L’Italia condanna la deriva autoritaria in Venezuela e si riconosce nelle dichiarazioni dell’Unione Europea, da quella adottata all’indomani delle contestate elezioni presidenziali del maggio 2018 a quelle più recenti che a giugno di quest’anno hanno stigmatizzato le misure adottate dal Tribunale Supremo di Giustizia ai danni dei partiti di opposizione”.

Il ministro 5S ha tenuto a sottolineare che “l’Italia non riconosce la validità delle elezioni presidenziali del maggio 2018, né la legittimità democratica del vincitore, Nicolás Maduro. Ci siamo da subito uniti – ha ricordato – a quanti nella comunità internazionale chiedono nuove elezioni presidenziali nei tempi più rapidi possibili”.

E ha aggiunto: “Non bisogna confondere il mancato riconoscimento di Juan Guaidò anche come Presidente della Repubblica con una posizione di equidistanza dell’Italia, di supporto a Maduro, o peggio ancora di indifferenza di fronte alle violazioni dei diritti e delle libertà fondamentali”.

Il twitter di Mike Pompeo, ha così spronato i vassalli degli USA: “La comunità internazionale – ha scritto – è sempre più cosciente che le elezioni programmate dal regime di Maduro non saranno né libere né giuste. 34 nazioni si sono unite a noi a favore di un governo di transizione”. Gli ha risposto il presidente dell’Assemblea Nazionale Costituente, durante il suo programma Con el mazo dando: “Signor Pompeo, qui c’è una Costituzione e la Costituzione venezuelana stabilisce che quest’anno ci siano elezioni, che sono state fissate per il 6 dicembre”, ha detto Diosdado.

Ma se Maduro viola così sfacciatamente i “diritti umani”, perché concede un indulto di massa a chi organizza complotti contro di lui? Qui viene smascherata l’ipocrisia delle democrazie borghesi europee come quella spagnola o italiana, quando considerano importantissimo battersi per far uscire dal carcere golpisti e lestofanti, presentati come “prigionieri politici” in casa d’altri.

Peccato che in casa propria, sia la Spagna con i baschi che l’Italia con i prigionieri politici degli anni ’70-80 si comportino in tutt’altra maniera. In Italia, gli esponenti di quel “centro-sinistra” che vede come il fumo negli occhi il socialismo e la rivoluzione bolivariana, ha avuto un ruolo determinante nella modifica costituzionale che ha reso impossibile la possibilità di votare un’amnistia per i rivoluzionari prigionieri. E così, a parte qualche dichiarazione iniziale, neanche l’indulto di Maduro ha fatto cambiare idea all’Unione Europea in merito alle parlamentari in Venezuela.

Nessun coro di proteste si è però levato dalle istituzioni europee per condannare il golpe in Bolivia, né la repressione in Ecuador, né tanto meno per denunciare l’uso della magistratura a fini politici, oggi noto come lawfare. Il 7 settembre, con un tempismo sospetto, i tribunali hanno inabilitato sia Evo Morales, che in Bolivia avrebbe voluto presentarsi come senatore a Cochabamba il 28 ottobre, sia Rafael Correa, che in Ecuador era stato candidato alla vicepresidenza e alla circoscrizione dei residenti all’estero.

Con una sentenza-lampo, la cassazione ha infatti convalidato la condanna a 8 anni per corruzione, che cancella i diritti civili all’ex presidente ecuadoriano. E, intanto, sono in molti a denunciare sia l’eventualità di un autogolpe in Bolivia, sia la possibilità che i tribunali pongano ulteriori ostacoli al partito di Morales o all’alleanza correista in Ecuador.

Commentando con un twitter la sentenza di cassazione, Correa ha citato Voltaire sull’ ”uso perverso della legge per commettere ingiustizie”. L’ex presidente brasiliano Lula da Silva ha invece ricordato le parole di Victor Hugo: “È dell’inferno dei poveri che è fatto il paradiso dei ricchi”, ha detto Lula in un video in cui annuncia la sua candidatura alle prossime elezioni in Brasile.

Dopo essere andato in carcere per una persecuzione giuridica che ora si sta smontando pezzo per pezzo, l’ex presidente è tornato ad attaccare l’attuale capo di stato brasiliano, Jair Bolsonaro, sia per la catastrofica gestione della pandemia da coronavirus, sia per l’”umiliante” subalternità agli Stati Uniti. Un servilismo evidenziato dal fatto che un generale brasiliano “serva nel Comando Militare Sur e firmi un accordo con Trump affinché le truppe statunitensi usino la base Aerospaziale di Alcantara, nello stato di Maranhao”.

Il lawfare non è una pratica nuova nel corso della storia, tanto meno in America Latina. Oggi, però, costituisce uno degli architravi usati dall’imperialismo USA contro i governi non graditi, per accompagnare e legittimare la strategia del “golpe istituzionale” nelle guerre di nuovo tipo.

Dall’Honduras del 2009 a oggi, non sono mancati gli esempi, conditi ogni volta di qualche variante, introdotta per elevare la soglia di accettazione di una nuova illegalità, mascherata dall’appoggio internazionale. Una legalità addomesticata dai grandi poteri sovranazionali, come quella a cui fanno appello i complici dell’autoproclamato Guaidó quando parlano di “elezioni libere e democratiche”.

Una farsa che legittimi ingerenze e colpi di mano, attraverso l’azione di un settore militare, com’è accaduto i Bolivia, o della polizia come si sta provando a fare in Argentina. Un piano che solo la grande maturità del popolo venezuelano è riuscito finora a sventare rinnovando l’unione civico-militare.

E per questo, aldilà della sottovalutazione del pericolo portata avanti da quelle formazioni politiche che hanno deciso di rompere l’unità del GPP in un momento così delicato, e in vista di un appuntamento elettorale decisivo, il dibattito che si è acceso in Venezuela è di una portata infinitamente superiore a quello che si svolge nelle competizioni politiche della democrazia borghese: un dibattito per la spartizione di quote di potere, dove il popolo vota, però non decide.

(Articolo scritto per il Cuatro F)

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