Il ‘Che’ come guardia del corpo

A costo dei suoi giorni, continua a proteggere voi e me, uomini isolati e interi villaggi, compresi alcuni che hanno creduto alla menzogna che uccidendolo lo stavano uccidendo.

Si scrive perché, a volte, le dita fanno pugni che colpiscono, con i tasti, la menzogna; perché ha imparato con le prime luci della vita che non può lasciarsi macchiare dai simboli, né si lascia macchiare dai simboli; o semplicemente perché porta installata, tra mente e cuore, una certa molla automatica contro l’impudenza e l’ingiustizia. Questo è l’unico motivo per cui sollevo questi paragrafi nella piana di ottobre; in fondo, Che Guevara non ha bisogno di essere difeso.

No, il CHE non ha bisogno di guardie del corpo. Al contrario: a costo dei suoi giorni, continua a proteggere voi e me, uomini isolati e interi villaggi, compresi alcuni che hanno creduto alla menzogna che uccidendolo lo stavano uccidendo.

Più che negli omaggi – che sicuramente non gli farebbero molto piacere – la prova suprema della vita del Che è negli attacchi che ancora riceve. Perché, da chi, a quale scopo…? Cosa temono da questo uomo anfibio che si tuffa in un punto della mappa e, dopo un’asmatica apnea che condivide la dura sorte di un’altra città, appare combattendo dove non se l’era mai nemmeno immaginato?

Perché i “vivi”, i ladini che arrivano a rubare il governo di un paese, si prendono il tempo di attaccare qualcuno che, anche nella morte, è stato perso per decenni, senza una tomba conosciuta? Forse sapete qualcosa della relazione tra Jair Bolsonaro e Jeanine Áñez, i cosiddetti presidenti del Brasile e della Bolivia – in quello stesso disordine – che qualche giorno fa si è infangata attaccando la guerriglia.

Si scopre che, per Bolsonaro – il militare frustrato che è arrivato solo a capitano e oggi a malapena fa parte della riserva – l’eredità del Che ispira solo “i marginali, i tossicodipendenti e la feccia della terra”. Quanto sarà marginale questa sinistra che, nonostante i tradimenti, le divisioni, le battute d’arresto e gli scontri; nonostante la lunga notte del neoliberalismo e la dipendenza dalla povertà e dalla divisione indotta da Washington – l’imperialismo è il “cammello” che droga il popolo con menzogne di odio, per lasciarlo indifeso – continua ad alzare il pugno sinistro con la testardaggine di Guevara?

Certo, il Che è un nemico attivo e potente per questo piccolo capitano di piombo che prova nostalgia per le dittature che hanno ucciso “in grande” quando è riuscito a malapena a spingere il suo popolo nell’imboscata pianificata con il generale COVID-19, un militare senza fucile. Il comandante amico di tutto il Terzo Mondo non può essere piacevole per il repressore represso che chiamava il capo torturatore di San Paolo “eroe nazionale” durante la dittatura brasiliana del 1964-1985.

Bolsonaro soffre della stessa oscurità mentale della sua vicina Jeanine Áñez, che, senza sapere cosa sia un eroe, ha chiamato l’esercito boliviano che nel 1967 uccise un prigioniero, ferito e disarmato, solo perché era più grande di tutti loro. Dopo aver rubato la presidenza a Evo Morales, Áñez aveva detto che “la lezione dei boliviani al mondo con la sconfitta e la morte di Che Guevara in Bolivia è che la dittatura comunista qui non ha un passaggio”, una frase curiosa nella bocca di chi ha aperto, nella terra degli dei e dei popoli indigeni, le porte al nuovo fascismo xenofobo e razzista.

Usando il linguaggio volgare che esaurisce il suo repertorio, la presidente di fatto ha disegnato una minaccia di morte per cubani, venezuelani e argentini che avrebbe suscitato preoccupazione se fosse stata collegata ai sentimenti degli 11 milioni di boliviani, ma in questo modo, mentre la gonna dittatoriale urla da sola e a cappella, difficilmente suscita risate. Avete sentito parlare del lignaggio di Martí, Bolívar e San Martín?

Si sa già che, se è più grande, la paura si rafforza; per questo, seguendo Jeanine, il suo ministro della difesa ha detto, nella stessa linea sciovinista, che “la Bolivia è ancora la terra dei coraggiosi e la tomba dei codardi”. Avrà, quindi, il suo pantheon sistemato in quella terra che non è mai stata sufficiente a coprire il corpo del Che.

Personalmente, credo di più in Evo Morales, il presidente indigeno che va ancora in giro con una lancia nella schiena nonostante sia stato veramente coraggioso nell’affrontare, per il suo popolo, il nemico più potente che la nostra era conosce. Con il saluto alla gloria del Che – che ha rivendicato nel suo Paese anche contro il servilismo all’impero radicato da decenni -, Evo ha affermato che i sogni di Guevara vivono in chi lotta con passione e coraggio, senza perdere la tenerezza, per una maggiore giustizia sociale nel mondo.

Quello, quello di Evo, è il Che che conosciamo. Colui che, nello stesso momento in cui gli Stati Uniti stavano piantando dittature in America Latina, ha portato alle Nazioni Unite il “basta” di questa grande umanità e ha annunciato che la storia avrebbe dovuto contare sui poveri. Per difenderli – solo in cambio di quella caduta che continuiamo a discutere – ha lasciato a Cuba tutto ciò che aveva sollevato al tratto di penna.

A volte si perde, appare sempre, non rinuncia mai a prendersi cura di noi. I potenti e gli iniziati lo temono tanto perché, mentre soffrono per la rapida scadenza, la guerriglia siede ogni giorno alla tavola dei poveri. Si legge la notizia e si scrive per semplice “enca… loramiento”; se lo merita, ma non ha bisogno di essere difeso: anche con una gamba rotta e un fucile ferito, Che Guevara è ancora la nostra migliore guardia del corpo.

Fonte:  www.juventudrebelde.cu

Traduzione:

ASSOCIAZIONE NAZIONALE DI AMICIZIA ITALIA-CUBA

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