Cinque Eroi

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Caro compagno Generale d’Esercito Raúl Castro Ruz, Presidente dei Consigli di Stato e dei Ministri;

Compagne/i:

gerardoOnorare le cubane/i che un giorno come oggi, 120 anni fa, decisero di riprendere le armi per combattere per l’indipendenza della patria, è il modo migliore di ricevere il Titolo Onorifico di “Eroe della Repubblica di Cuba” che generosamente si consegna a cinque cubani di questi tempi il cui merito non è altro che aver compiuto il nostro dovere.

José Martí, anima di quella sollevazione nazionale del 24 febbraio 1895, sentenziò che la capacità di essere un eroe si misura dal rispetto che si tributa a coloro che lo sono stati. Pertanto, in un giorno come oggi, il nostro primo pensiero è di gratitudine e lealtà a tutti coloro che nel corso della storia, con il loro sacrificio, hanno reso possibile che viviamo in una Cuba socialista, rivoluzionaria e vittoriosa, consapevoli che corrisponde alla nostra generazione, e a quelle che ci seguono, difendere la continuità di questa opera, i sogni e gli ideali dei nostri liberatori.

Il primo pensiero dei Cinque in questo giorno deve essere per un uomo la cui leadership e visione strategica sono stati decisivi nella battaglia che ha portato alla nostra liberazione, e chi con il suo esempio ci instillò sempre lo spirito di lotta, resistenza e sacrificio. Un uomo che ci ha insegnato che la parola resa non esiste nel dizionario di un rivoluzionario, e da molto presto assicurò a tutti i cubani che i Cinque sarebbero ritornati alla madrepatria. Comandante in Capo: questa onorificenza che oggi con orgoglio riceviamo, è anche sua.

Al nostro Generale dell’Esercito Raul Castro, che non si riposò sino a compiere ciò che Fidel aveva promesso, e alle compagne/i che come lui portano già sul loro petto questa onorevole  stella , e sempre sono stati un esempio per i Cinque, gli diciamo che questa medaglia è anche vostra.

Al popolo cubano che fece sua la causa dei Cinque, e che ancora oggi non smette di incoraggiarci con le sue manifestazioni di sostegno e di affetto; alla direzione del Partito e il Governo del nostro paese; alle organizzazioni di massa, istituzioni, avvocati, religiosi e governi di altri paesi che si sono solidarizzati con la nostra causa: questa onorificenza è anche vostra.

Ringraziamo anche i fratelli di tutti il mondo che hanno lottato fianco a fianco per più di 16 anni di battaglie legali e politiche, e gli diciamo loro che questa onorificenza è anche di voi tutti.

Ai nostri famigliari, che hanno lottato, sofferto e resistito. con fermezza, per tanti anni, e a tutti coloro che meritavano di vedere questo giorno, e che non sono più con noi: questa medaglia è anche vostra.

Agli eroi ed eroine senza volto che mai potranno ricevere un omaggio pubblico come questo, ma che hanno dedicato, dedicano, o dedicheranno domani le loro vite alla difesa della patria da anonime trincee: sappiano, ovunque si trovino, che questa onorificenza è anche loro.

Questo onore che oggi riceviamo, è a sua volta una sfida che ci impone di essere all’altezza delle nuove sfide che affronta la Rivoluzione. Non di rado, dal nostro ritorno, ci hanno avvicinato compatrioti  per esprimerci che avrebbero voluto aver l’opportunità che ebbero i Cinque di proteggere il nostro popolo dall’aggressione. A loro e a tutti i patrioti cubani, diciamo che la nostra missione non è finita, e che possono aggiungersi.

L’attualizzazione del nostro modello economico al fine di ottenere un socialismo più efficiente, prospero e sostenibile, così come il processo di ripristino delle relazioni con gli USA, creano una congiuntura di cambiamenti che richiede a tutti noi agire con intelligenza, professionalità, impegno e fermezza per individuare e affrontare le nuove sfide e nuovi pericoli che si avvicinano. Ci sono e saranno molti modi per difendere Cuba, e Cuba avrà sempre bisogno di figli leali che vigilino per lei. E’ per questo che ci incoraggia sapere che in seno a questo popolo rivoluzionario ci sono molti “Cinque” disposti a sacrificare tutto per la propria patria.

Insieme a Ramón, René, Fernando ed Antonio, riceviamo con orgoglio e gratitudine questo grande onore che la patria ci conferisce. Conti la patria con questi cinque soldati che oggi, davanti al nostro popolo, riaffermiamo l’impegno di servirla fino all’ultimo dei nostri giorni, e di essere sempre fedeli alle idee di Martí, del Che, di Fidel e di Raul.

Molte grazie!

I CINQUE EROI:

GERARDO HERNÁNDEZ NORDELO
gerardoÈ nato il 4 giugno 1965 a La Habana. È passato per i diversi livelli d’ insegnamento, caratterizzandosi per i suoi buoni risultati scolastici. Nel 1980 ha fatto parte delle fila dell’Unione dei Giovani Comunisti e nel 1989 si laureato in Relazioni Politiche Internazionali presso l’Istituto Superiore di Relazioni Internazionale Raúl Roa García.
Tra gli anni 1989 e 1990, ha compiuto una missione internazionalista nella Repubblica Popolare dell’Angola. Nel 1993 è entrato nel Partito Comunista di Cuba.
Dalla metà del 1990, con l’obiettivo di proteggere a Cuba, ha compiuto missioni che hanno protetto il nostro popolo da azioni terroristiche. È stato arrestato il 12 settembre 1998 e condannato ingiustamente a due ergastoli più 15 anni di privazione della libertà. Gli è stato negato il diritto a alla revisione della condanna. Durante la reclusione la sua condotta è stata un esempio da seguire per il resto dei suoi compagni. Il 17 dicembre 2014, come risultato di un accordo bilaterale tra Cuba e USA è stato rimesso in libertà.
È caricaturista. Una parte della sua opera è stata pubblicata dalla stampa, esposta in gallerie d’arte e raccolta in vari libri.

RAMÓN LABAÑINO SALAZAR
ramonÈ nato il 9 giugno 1963 a La Habana.
È pasato per i diversi livelli di insegnamento, con buoni risultati scolastici.
Nel 1986 si laureato con Diploma d’Oro in Economia presso l’Università di La Habna. Nel 1987 è entrato nelle fila dell’Unione dei Giovani Comunisti e nel 1991 nel Partito Comunista di Cuba.
Dal 1990 ha compiuto importanti missioni negli Stati Uniti per impedire le azioni di gruppi controrivoluzionari residenti a Miami. Il 12 settembre 1998 è sttao arrestato e poi condannato ingiustamente all’ergastolo più 18 anni.
Il 9 dicembre del 2001, dopo di un lungo processo, la condanna è stata modificata in 30 anni di prigione.
Durante il la sua permanenza in carcere, la sua condizione rivoluzionaria non ha vacillato e ha mantenuto i suoi principi al di sopra delle ignominie. Il 17 dicembre 2014, come risultato di un accordo bilaterale tra Cuba e USA è stato rimesso in libertà.

ANTONIO GUERRIERO RODRÍGUEZ
antonioÈ nato il 16 ottobre 1958 a Miami, Stati Uniti. La sua famiglia è ritornata a Cuba alla fine di quello stesso anno. Ha frequentato le scuole medie superiori presso la Scuola Vocazionale “Vladimir Ilich Lenin”, centro dove ha fatto parte dell’Unione dei Giovani Comunisti.
Nel 1983 si è laureato in Ingegneria delle Costruzioni di Aerodromi a Kiev, ex Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Ha lavorato presso l’Istituto di Aeronautica Civile di Cuba (IACC) e ha partecipato all’ampliamento dell’Aeroporto Internazionale Antonio Maceo di Santiago de Cuba. Nel 1989 è entrato nel Partito Comunista di Cuba (PCC).
A partire dal 1992 ha compiuto missioni dirette a prevenire azioni terroristiche contro Cuba. Il 12 settembre 1998 è stato arrestato dalle autorità nordamericane e condannato ingiustamente all’ergastolo più 10 anni di privazione della libertà. Nel 2009 gli è stata modificata la condanna a 21 anni e 10 mesi di privazione della libertà. Il 17 dicembre 2014, come risultato di un accordo bilaterale tra Cuba e USA è stato rimesso in libertà.
Durante i 16 anni di prigione si è dedicato alla creazione di un’abbondante opera plastica e poetica; molti dei suoi poemi sono stati posti in musica.

FERNANDO GONZÁLEZ LLORT
fernandoÈ nato 18 agosto 1963 a La Habana. Durante i suoi studi nei diversi insegnamenti si è distinto per i suoi risultati scolastisi. È entrato nell’Unione dei Giovani Comunisti (UJC) nel 1981. Ha fatto gli studi universitar presso l’Istituto Superiore di Relazioni Internazionale “Raúl Roa García” e ha occupato responsabilità politiche nella Federazione Studentesca Universitaria e nell’UJC. Si è laureato con Diploma d’Oro nel 1987.
Tra il 1987 e il 1989 ha compito una missione internazionalista nella Repubblica Popolare dell’Angola, unendosi a una brigata di carri armati. È entrato nelle fila del Partito Comunista di Cuba nel 1988.
Dall’inizio della decennio del ‘90 è stato incaricato di compiere missioni volte a prevenire azioni terroristiche contro Cuba. È stato arrestato il 12 settembre 1998 e condannato ingiustamente a 19 anni di prigione. Il 9 dicembre del 2001 gli è stata modificata la condanna a 17 anni e 9 mesi, che ha scontato interamente. È arrivato in Patria il 28 febbraio 2014.
Una volta a Cuba è stato designato Vicepresidente dell’Istituto Cubano di Amicizia con i Popoli (ICAP) e ha appoggiato instancabilmente la campagna di lotta per il ritorno dei suoi tre fratelli.

RENÉ GONZÁLEZ SEHWERERT
reneÈ nato il 13 agosto 1956 a Chicago, Stati Uniti. Nel 1970 è entrato nell’Unione dei Giovani Comunisti.
Nel 1977 ha compiuto una missione internazionalista nella Repubblica Popolare dell’Angola, e nel 1982 si è laureato come Pilota Istruttore di Volo e specialista in tecniche di aviazione nella scuola “Carlos Ulloa” di Pinar del Río.
È entrato nelle fila del Partito Comunista di Cuba nel 1990.
Alla fine degli anni 1990 è partito verso gli Stati Uniti per compiere missioni dirette a prevenire azioni terroristiche contro Cuba. È stato arrestato il 12 settembre 1998 e condannato ingiustamente a 15 anni di prigione, che ha interamente scontato. Il 7 ottobre 2011è uscìto di prigione, ma obbligato a rimanere 18 mesi negli USA in regime di libertàvigilata.
Il 10 maggio 2013, la corte degli Stati Uniti ha accettato che rimanesse a Cuba per il resto del tempo della sua libertà vigilata, a condizione che rinunciasse alla sua cittadinanza statunitense.
Una volta in patria, ha dedicato tutti i suoi sforzi alla campagna di lotta per il ritorno dei suoi quattro fratelli.

 Intervento di Homero Acosta Álvarez, Segretario del Consiglio di Stato, nella cerimonia per il 120º anniversario del reinizio della Guerra d’Indipendenza e della decorazione dei Cinque Eroi nel Palazzo delle Convenzioni, il 24 febbraio del 2015 “ Anno 57º della Rivoluzione.”

Generale d’Esercito Raúl Castro Ruz, Presidente dei Consigli di

Stato e dei Ministri;

Compagni Gerardo, Antonio, Ramón, Fernando e René;

Compagne e compagni:

homeroÈ trascorso molto tempo per la celebrazione di questa cerimonia, da quando il 29 dicembre 2001 l’Assemblea Nazionale del Potere Popolare decise di assegnare il titolo onorifico di Eroe della Repubblica di Cuba ai compagni Gerardo, Antonio, Ramón,
Fernando e René, per aver compiuto con dedizione, dignità e fermezza la sacra missione di difendere il nostro paese, proteggendolo dal terrorismo, mettendo in pericolo le loro vite e sopportando enormi sacrifici in un ambiente ostile e aggressivo.

Dopo lunghi anni d’ingiusta reclusione durante la quale hanno mantenuto una condotta esemplare ed hanno posto in alto la loro condizione di giovani (cubani) formati dalla Rivoluzione, in attenzione alla loro decisa difesa delle nostra Patria, il Consiglio di Stato, su proposta del
suo presidente, il Generale d’Esercito Raúl Castro Ruz, ha deciso, come prevede la Legge N. 17 del 1978 il suo Regolamento, di assegnarvi come decorazione annessa al titolo onorifico di Eroe della Repubblica di Cuba, l’ordine “Playa Girón”.

Ricevete, cari compagni, a nome di questo popolo che vi ammira, le decorazioni di cui siete creditori, con la vostra condotta di ogni giorno e soprattutto per il coraggio e la fermezza dimostrate in più di diciassette anni d’ingiusta e crudele reclusione, nella quale avete fatto vostro il pensiero del Generale Calixto García Íñiguez durante il su esilio in Spagna, e cito:

“Prima di tutto sono cubano e non sacrificherò per niente e per nessuno gli ideali del mio popolo e della mia patria!”

Molte grazie.

Intervención de Eusebio Leal Spengler, Miembro del Comité Central del Partido Comunista de Cuba y Diputado a la Asamblea Nacional del Poder Popular, en el acto por el aniversario 120 del reinicio de la Guerra de Independencia y de condecoración a los Cinco Héroes, en el Palacio de Convenciones, el 24 de febrero del 2015, “Año 57 de la Revolución”

Querido General Presidente Raúl Castro Ruz;

Queridos compañeros Gerardo, Antonio, Ramón, Fernando y René;

Queridos compañeras y compañeros;

Cubanas y cubanos:

lealUn día como hoy, como se ha dicho, hace 120 años comenzó el levantamiento del pueblo cubano para alcanzar su definitiva y total independencia. El amor a esa libertad, a esa soberanía, a esa esperanza, se inició mucho tiempo atrás, quizás desde el instante mismo en que empezó a formarse lo que llamamos comúnmente la identidad. Los que llegaron de distintas latitudes de Europa, ya de la España conquistadora o del África, o los vestigios de las comunidades indígenas, en trance de extinción pero sobrevivientes, unieron sus sangres para formar algo que José Martí llamaría en palabras emotivas “dulcísimo misterio”.

El concepto de cubano viene del nombre de nuestra isla, Cuba. Nunca pudo ser cambiado, prevaleció por sobre el intento de darle otros nombres, otras atribuciones. El nombre, sonoro y breve, quedó prendido en el corazón de los que lo escucharon por vez primera.  Más allá del mar azul del Caribe, que se descubre desde la orilla de nuestras playas o desde el aire, Cuba aparece con la forma tan hermosa con que a las puertas del golfo de México establece la isla su presencia y su naturaleza.

En realidad nunca nos llamamos isleños, a pesar de que no es una, sino muchas islas las que conforman nuestra realidad. En el seno de ellas fueron surgiendo, a lo largo de los años, percepciones donde todo lo anterior que traía el conquistador o el conquistado como memoria fue cediendo lugar a algo diferente, que surgió en la manera de construir, que siendo igual o pareciéndolo era distinta. Surgió en el horizonte de la poesía, del canto campesino, de la voz de los poetas de más vuelo. Surgió también, tempranamente, en el pensamiento de los más inquietos, entre los que comenzaron a llamarse criollos.

Entonces éramos solamente un país. El país es un espacio. La patria comenzó a ser un sueño, una aspiración, y la nación, un derecho por el que había que luchar, una nación con leyes, una nación que sería depositaria y respetuosa de su propia cultura, una na­ción que sabría ir al futuro desde el pasado.

Allá en su retiro, muy cerca de Cuba, adonde quiso ir a morir ante la imposibilidad de llegar a ella, el presbítero Félix Varela exclamaba: “No hay patria sin virtud ni virtud con impiedad”. Pero, además, los últimos que le vieron afirman que les dijo: “Ofrezco todos mis sufrimientos y sacrificios por Cuba”.

Ese mismo sentimiento llevó a Heredia, en el padecimiento de su destierro, a sembrar en el alma cubana el espíritu de una patria, y eso alentó a los primeros que se rebelaron y encontraron que no había fronteras que cruzar más que el océano, que la lucha en última instancia sería aquí; que contra el cepo, el látigo, la discriminación, la humillación y la negación propia de la humanidad surgiría un día de redención y de libertad.

José Martí, autor del intento y del fundamento de la unidad de la nación cubana, creyó firmemente que no venía nuestra América ni de Rousseau ni de Washington, venía de sí misma. Al mismo tiempo, en la medida en que aún muy joven fue madurando su pensamiento, se acercó más a esa sufriente raíz de los orígenes: a Guaicaipuro, a Hatuey, a Guarina, a Cao­nabo, a todos los que enfrentaron el saber, como ha afirmado un pensador latinoamericano, que un determinado día y en una determinada hora nos habíamos enterado de que, primero, éramos indios; segundo, que nuestras teologías y nuestras ideas del bien o del mal eran distintas; que debíamos soberanía a un rey distante y que todo debía ser cambiado.

Sin embargo, más allá del dolor y el sufrimiento de aquellas primeras comunidades, que soportaron la mordida de los lebreles, el hierro de las cadenas y el fuego, como Hatuey, en Yara, donde vivía por los siglos la tradición de que en tiempos de tribulación o de esperanza un fuego misterioso se encendía en la noche iluminando el monte, Cuba fue forjándose, fue haciéndose y fue, desde lo que Martí juzga “la inocencia culpable” de un patriciado que, obteniendo su riqueza de la esclavitud, comenzó sin embargo a dar­se cuenta de que ya sus hijos no necesariamente pensaban como ellos, que necesitaban ardorosamente un cambio y que ese cambio pasaba por una autentificación de su identidad.

Cada pueblo nombrado, o cada una de las siete primeras ciudades, excepto tres, llevaron la impronta del lar indígena.

Así, Santa María del Puerto del Príncipe sobre el Camagüey, San Salvador sobre el Bayamo, La Habana sobre las huellas de Habaguanex, y así cada uno de los rincones y lugares repetían en la toponimia del suelo una presencia más antigua que empezaba a convertirse ya solo en una arqueología. O confundida con la sangre del conquistador dio a luz, como ha señalado el que fuera ilustre diputado de nuestra Asamblea, Cintio Vitier, el primer maestro, Miguel Velázquez que allá en Santiago de Cuba, donde tiene un modesto monumento, hablaba de que era tierra dominada y como de señorío.  Un sentido de rebeldía antiguo vino desde abajo, y ese sentimiento rebelde se fue convirtiendo en más fuerte en la medida en que la esperanza de cualquier cambio político, fundado en la consideración del conquistador sobre el conquistado, era prácticamente imposible.

A la sublevación de los esclavos que primero llevaron los nombres de su lugar de origen:  Juan Congo, Antonio Carabalí, Miguel Fula; sucedió el apellido que en la pila recibieron de sus amos: Morales, Ar­menteros, Cárdenas y así de esa gran cofusión y amalgama indo-hispano-africana, fue surgiendo nuestra identidad orgullosamente mestiza de la sangre y de la cultura.

Se hizo pronto realidad en la música, como lo fue en la poesía; era diferente en el paisaje tan distinto a las áridas pero hermosas tierras de Castilla, o la brumosa Galicia o Asturias, o las Islas Canarias… era otra cosa.  Y para los propios africanos la tierra tenía sus misterios: ciertos árboles les recordaban los suyos, algunos que consideraban sagrados fueron objeto de sus cultos. Y muy pronto fue naciendo, lentamente, lentamente, lentamente, una aspiración que fue convirtiendo el país en el sueño de una patria.

A los grandes precursores, a los que murieron con la esperanza de construirla, debe Cuba todavía sentidos homenajes.
Y como decía hace unas horas un juicioso historiador: la historia de nuestras luchas todavía, a pesar de todo lo que está escrito, está por escribirse.  Faltan muchas biografías, muchos heroísmos, muchos silencios, muchas lágrimas que nadie enjugó que deben ser cantadas por los poetas, como pedía José Martí a José Joaquín Palma, cuando le decía a su ilustre amigo, biógrafo de Céspedes, bayamés de cuna:  “Lloren los trovadores republicanos sobre la cuna apuntalada de sus repúblicas de gérmenes podridos; lloren los bardos de los pueblos viejos sobre los cetros despedazados, los monumentos derruidos, la perdida virtud, el desaliento aterrador: el delito de haber sabido ser esclavo, se paga siéndolo mucho tiempo todavía”.

Y luego dirá: “Nosotros tenemos héroes que eternizar, heroínas que enaltecer, admirables pujanzas que encomiar:

tenemos agraviada a la legión gloriosa de nuestros mártires que nos pide, quejosa de nosotros, sus trenos y sus himnos”.

Y los que se anticiparon y se conjuraron, estuvieron dispuestos a perderlo todo, a sacrificarlo todo.

Ya a principios del siglo XIX la América parecía haber resuelto el problema y una inquietud profunda sacudía de una u otra parte el continente. Valientes pensadores explicaron los derechos de una América independiente, y algunos líderes se atrevieron a de-safiar el poder y a morir como Gual y España en una plaza de Caracas, siendo ejecutados antes de que llegara la hora.

Exactamente en Cuba, en el silencio de las logias, trabajaron “Frasquito” Agüero y otros para hacer un texto constitucional de una república ideal, utópica y futura. Los años pasaron y al parecer para muchos, unido a la trata esclavista, el destino de Cuba pasaba necesariamente por ser una estrella más de la unión del sur de Estados Unidos, algunos invocaban hasta la providencia divina para asegurarlo.  Sin embargo, otros creían todo lo contrario:  Cuba no debe esperar más que solidaridad; pero nuestro problema debemos resolverlo nosotros mismos, y esa solución, invocada ya por Varela y enseñada por Luz en su escuela, como educador y formador de una juventud rebelde, adquirió dimensión en lo que él llamó “el sol del mundo moral” que caerían reyes e imperios, pero que jamás caería del pecho humano.
Mucho debe Cuba a Luz, y Martí afirma que lloró dos ve­ces, por Luz y por Lincoln, dice, sin haber conocido a Luz ni a Lincoln. Luego, del segundo, dice que supo, y aconsejado por un mal político y por un mal hombre, quiso lanzar sobre Cuba toda la hez del Sur derrotado.

Sin embargo, venidos de allá?? de América, donde ha­­bían pre­senciado el gran debate en el Sur y el Norte, no pocos cubanos quisieron luchar también por la libertad de su patria.  En Cuba el movimiento de búsqueda de la anexión a la nación norteamericana se fue debilitando en la medida en que el Sur iba siendo derrotado. Otros creían que era posible un camino: reformas, reformas y solo reformas. La aspiración a una concesión política, más que a una conquista política.
De esa ardua batalla entre dos corrientes surgió una victoriosa que se empezó a manifestar en distintos puntos del occidente, el centro y el oriente.

Ya en 1851, en una plaza de Camagüey, Joaquín de Agüero era ejecutado. Se dice que un joven, un adolescente fue llevado al dramático escenario de su ejecución y que mojó en su sangre su pañuelo; sería el que algunos llamarían: Bayardo y otros El Mayor, el letrado, el poderoso defensor de las ideas políticas y sociales, el que sería Mayor General del Ejército Libertador y líder del pensamiento abolicionista en Camagüey.

Mientras, en Oriente, más allá de Jobabo se reunían una y otra vez, y así lo hicieron por penúltima vez en lo que llamaron la Convención de Tirsán, en un lugar nombrado San Miguel del Rompe. Allí se escuchó la voz del más inquieto, del hombre de pequeña estatura, de grande y variado talento, abogado que había recorrido el mundo, buen jinete, jugador, afortunado, amante del amor y los placeres de la vida, pero dispuesto a renunciar a todo clamó por un levantamiento sin esperar más.

Otros con más riqueza, pero con no menos determinación aspiraban a un nuevo periodo de zafra para reunir con qué hacer la batalla definitiva, y sin embargo un juramento surgió de todos los conjurados:  Si esta conspiración es descubierta, el primero al que intenten apresar, se levantará.

La madrugada del 9 al 10 de octubre Céspedes, en el patio de su ingenio La Demajagua, con apenas 37 hombres, a la vista del Golfo de Guacanayabo y contemplando en el horizonte la sierra magnífica, se dirigió a aquellos compañeros suyos proclamando no solamente la necesidad de luchar y arrebatar las armas del adversario, único camino posible, sino lanzando un tizón encendido sobre una isla esclavista.  Sus propios esclavos serían libres y tendrían el derecho a luchar por su libertad y por su patria.

El concepto de patria se había unido a la ambición por una nación y en una fecha venturosa tomaron la primera de las ciudades orientales. Esa primera ciudad fue Bayamo, que después entregaron a las llamas en el momento en que todo parecía perdido.  A las puertas de las casas de los conjurados o de los jóvenes más comprometidos llegaron los primeros guerrilleros solicitando pan y armas.  En San Luis uno tocó a la puerta de Marcos y de Mariana, la insigne Mariana —este año es el bicentenario de su nacimiento—. Poderosa madre de una nación que en ese momento pone a sus hijos de rodillas y les hace jurar, ante el Cristo que toma de la pared del aposento, que lucharán hasta morir por su patria, juramento que se cumplió para casi todos.

Años de lucha y de sacrificio.  Ninguna historia, ni española ni cubana, ha logrado hablar en toda su magnitud de lo que sufrió la familia, el niño, la mujer cubana, el campesino cubano.  Peleábamos contra un ejército aguerrido y batallador, que venía de vindicar sus querellas en la península, en las largas guerras carlistas y ahora, en Cuba, por decenas de miles enfrentaban el levantamiento de los cubanos.  Ya habían surgido entre nosotros guerrilleros temibles.  Ante el temor de la toma inexorable de Bayamo, esperó con un puñado de hombres escogidos, en un punto llamado las Ventas de Casanova, un guerrero dominicano acostumbrado a combatir en la guerra de restauración de su propia patria y contra el invasor extranjero; allí demostró que esa arma, usada hasta ahora para vindicaciones de honor o cortar caña, sería la más importante en la lucha.  Todavía se conserva en un museo en la península, una carabina cortada de un solo golpe por un machetazo fiero; tal fue el combate que duró segundos, que duró momentos, lo que permitió dar cuenta al enemigo de que había nacido un adversario, hijo de su sangre, que sería capaz de luchar por su libertad y alcanzarla.

Bayamo fue incendiada como una nueva Numancia y eso les anunció el futuro y el destino.  Ya en 1853, en una humilde casa de la calle Paula, hijo de español y de española, había nacido José Martí.  En ese mismo año muere el Padre Varela, en San Agustín de la Florida, y muere Domingo del Monte, en Bar­celona, dos poderosos pensadores se extinguen.  Pero más me interesa el primero; el segundo, hombre de gusto, literato, diseñador de vida social y pensador agudo.  El primero, revolucionario integral, que opta por la abolición de la esclavitud, por el reconocimiento de la independencia americana, que se convierte en defensor de los pobres, que publica su periódico y lo envía a Cuba.

Sus discípulos le lloraron, pero nadie sabía entonces que en la propia pila bautismal en que había sido bautizado José Julián, había sido también bautizado el Padre Varela.  Cuando desapareció uno, nació el otro.

Y ese joven llamado a un poderoso destino es el que hoy evocamos, al conmemorar la hazaña de la unidad de la nación que él hizo nacer de la desesperación por el fracaso del magno esfuerzo después de tanto sacrificio; él, que leyó con amargura lo que ocurrió en los Mangos de Baraguá y escribió al General Antonio que tenía ante sí una de las páginas más hermosas de la historia de Cuba; él, que sintió como propio el honor de todo el pueblo y las lágrimas de ese pueblo; él, que sufrió las reconvenciones en su hogar; él, que llegó a tener una relación tan intensa y profunda con un padre, que siendo soldado y español, alcanzó a entender, al verlo herido y llagado, prisionero y enflaquecido, que su destino era otro, quizás diseñado en su hermoso poema Abdala, cuando presenta el duelo entre el yugo y la estrella y pide lo uno y lo otro, y está convencido, como afirma, de que esa estrella ilumina y mata.

Exilio, Centroamérica, la América del Sur, los cubanos dispersos, las acusaciones recíprocas, finalmente España, los Estados Unidos. Allí vivió 14 años, y fue, como han afirmado sus cronistas, el cubano que más entendió en su tiempo aquella nación. Admiró las virtudes de Emerson, las del padre Flanagan. Admiró la obra colosal de la construcción del puente de Brooklyn. Asistió puntualmente a las conferencias de Oscar Wilde, a las exposiciones de teatro; enamorose candorosamente de la hermosa bailarina española Charito Otero. Pero más que todo, se dio cuenta del gran fenómeno que en aquella nación se forjaba y que, como había afirmado Bolívar en un momento de extraordinaria lucidez, parece llamada por la providencia a colmar a la América Latina de pobreza y miseria en nombre de la libertad.  Se dio cuenta de que si en 1868 nada pudieron esperar, de que, a pesar de que allí siempre existieron, existen y existirán amigos poderosos de Cuba, hubo una dicotomía entre el sentimiento de los amigos y la voluntad de un Estado que siempre quiso de una manera manifiesta impedir la realización de una independencia que creyó inoportuna. Creyó más bien en el cumplimiento de una doctrina trazada por uno de sus políticos, que planteaba que solamente extendiendo la mano en el momento de la madurez de la fruta, esta caería sencillamente en sus palmas.

No obstante todo ello, pasó de ser el orador de última fila, al primero. Cada acto del 10 de Octubre, cada conmemoración cubana, el horroroso recuerdo del 27 de Noviembre, terrible suceso que le sorprendió en España, vuelve todos los años a llevar al orador a la tribuna y a unir lo que estaba desunido.  Y de mil octavillas surgió un periódico, Patria, y de mil discursos surgió una orientación política, y de mil disposiciones y pequeñas organizaciones soñó con la creación de un partido político para dirigir una guerra de liberación nacional, anticipándose al concepto de que es imposible hacer una revolución sin una teoría revolucionaria.  Su teoría no era otra que nuestra historia, nuestro sacrificio, nuestro esfuerzo. Éramos una nación en ciernes, de derecho, pero no de hecho.

Llamado a poner empatía en la discordia, unió a Gómez y a Maceo. Es inocultable que después del fracaso de 1884 y del encontronazo de Nueva York, ya no había posibilidad de una amistad fecunda para iniciar un nuevo proceso.  Hoy diríamos:  no hay condiciones objetivas.  Sin embargo, Maceo, en Costa Rica, preparaba a su contingente. Preparaba Gómez, en la soledad de Montecristi, en República Do­minicana, o cuando antes se encontraron en la construcción del canal de Panamá amigos dispuestos a ayudar, a dar amparo, a ofrecer techo y pan a los emigrados que por todas partes soñaban y querían su patria. Y de esa forma surgió la organización un 10 de abril, que es un día crítico en la historia de Cuba, el día de la gloriosa Asamblea Constituyente de Guáimaro, donde nació la utopía democrática del pueblo cubano; pero donde también se le puso plomo a las alas de la revolución, donde se pensó que era posible hacer una república de leyes cuando no éramos dueños más que del espacio que pisaban los campamentos y los caballos de los libertadores. En medio de esa realidad, un 10 de abril hace nacer su creación más completa: el partido político, un partido unitario que convocaría al pueblo cubano a una guerra que él consideró inevitable y, después, necesaria.

Inevitable, porque en sus sentimientos nobles, generosos, en su íntima y profunda convicción él había reclamado en su famoso Manifiesto a la República Española, que no le pediría lo imposible, pero le pedía lo posible:  los derechos conculcados de Cuba, la representación de Cuba, el derecho de estudiar, de interpretar, de conocer que éramos diferentes.  Nada de esto fue escuchado, solamente muchos solidarios en España y en otras partes del mundo creían en la causa de Cuba.

Ahora todo sería más difícil: había un alto desarrollo de la tecnología militar, una situación nueva en el continente americano, las repúblicas sufrían los padecimientos de sus propias divisiones cuando habían dejado intactos trono y altar después del esfuerzo inmenso de la primera batalla.

Recordaban aún las dolorosas palabras de Bolívar en Santa Marta: “He arado en el mar”; la tristeza de San Martín al regresar y encontrar su país dividido; la pena de O’Higgins al morir en Lima, apartado de su tierra amada; el dolor tremendo de Francisco de Morazán al verse capturado y ejecutado por sus propios compañeros, y aún pesaba aquella maldición casi bíblica que había lanzado Miranda, cuando el gran precursor al ser entregado prisionero a las puertas de una nave española, que lo llevará a una prisión perpetua y definitiva, al reconocer los que cometen aquel parricidio, responde:  “Bochinche y solo bochinche es lo que saben hacer ustedes”.

Por sobre toda esa historia se levantó Martí, era  vasta y grande su cultura como ha señalado uno de sus biógrafos, subía y bajaba escaleras como quien no tenía pulmones, su voz era clara y nítida, su poder de convencimiento grande. Era, al mismo tiempo, un escritor incansable, cuya hermosa letra inicial se ha­bía transformado prácticamente en líneas inteligibles solo para los paleógrafos.  Faltaba tiempo, le faltaba tiempo.

Cuando todo estuvo preparado y dispuesto, cuando creyó que todo estaba organizado, cuando había logrado visitar a Mariana Grajales en Jamaica, que ya ciega le acaricia la cabeza y prácticamente con este gesto noble y de rodillas envía un abrazo fraterno al hijo que tanto amaba, a la madre que nunca pudo ver su patria libre; cuando ya separado de todo bien personal, lejos su esposa, apartado de su hijo, muerto su padre, dispersos sus amigos, se le vio pobre en Estados Unidos, trabajando en el invierno ganando el pan, fundando la Liga para educar a los negros cubanos, que bajo la orientación de Rafael Serra se reunían y le llamaban, con cariño y con devoción, Maestro y Apóstol. ¡Qué torpeza tratar de despojarlo de un título tan importante, Apóstol:  el que lleva la palabra, el que trasmite un mensaje nuevo y ese fue su mensaje!

Cuando en el puerto de Fernandina se perdieron las naves creyó enloquecer, pero transformándose de José Martí en Orestes, que fue siempre el seudónimo de sus escritos y su seudónimo político, viajó de inmediato a la República Dominicana para buscar al general Gómez en Montecristi, en aquella casa donde en breves días, el 25 de marzo, se cumplirán también 120 años de la firma del poderoso Manifiesto llamando a las armas al pueblo cubano, a los españoles que nada debían de temer si respetaban la patria que había de fundarse.  Hubo discordias, no se lograba entender qué estaba ocurriendo.  Hoy es fácil para nosotros hacerlo a través de un teléfono, de un mensaje; entonces solamente era el telégrafo con su lenguaje críptico el que anunciaba que la hora había llegado.

Maceo había estado años antes en Cuba y conocía el estado político del país, y en este momento, vacilaba en poder salir hacia Cuba, porque no sabía qué estaba pasando en Estados Unidos y el dinero que se ofrecía para fletar una nave y llegar sanos y salvos no aparecía.

Gómez estaba igualmente pobre en Santo Do­mingo, apenas unos centavos para poder tomar esa determinación, y otros patriotas esperando en distintos lugares, y en Cuba mucha gente avisada en Oriente, en el Occidente, en Matanzas.  De pronto el General dio la orden: “Es necesario el alzamiento”, y Martí no vaciló en enviar el telegrama, que su amigo recoge en la estación de la Western Union en la calle Obispo, en La Habana Vieja: “Giros agotados”, lo cual significaba que se había agotado el tiempo. Era la noche del 24 de febrero; el Capitán General tenía la convicción y las informaciones de que se tramaba realmente un movimiento.

Algunos dirigentes fueron capturados en La Ha­bana. Juan Gualberto Gómez, comprometido con su hermano y amigo José Martí, se fue a Matanzas, a Ibarra, en busca del ingenio Vellocino de Oro donde había nacido, para levantarse con un grupo de compañeros y cumplir su palabra.

En Santiago, Guillermo Moncada quiso morir cumpliendo su palabra, enfermo de tisis, pero en el campo de Cuba libre.
En Baire se levantaron, y en Bayate se alzó también Bartolomé Masó, y todo el mundo esperaba solamente la llegada de los líderes. Allá en España la conmoción fue grande, se había desmentido la propaganda autonomista, se había desmentido la propaganda anticubana de que todos eran sueños disparatados de un profeta enloquecido. Ahora solamente faltaba el arribo.

En admirable disciplina y en presencia de los generales y oficiales que estaban en Costa Rica, juraron Antonio y Flor aceptar las condiciones de viajar en las que el segundo le planteaba al primero, y así salieron hasta tomar la goleta Honor y arribar el 1ro. de abril a las costas de Cuba, en un punto del litoral baracoano: “Soy yo, Antonio Maceo, que he vuelto”, gritó en lo alto del camino, mientras fogoneaba con su arma a los guerrilleros de Baracoa. El 11 de abril, día glorioso y memorable, en Playitas de Cajobabo desembarcaban Máximo Gómez y José Martí.

Hace 20 años el Jefe de la Revolución me pidió contar esta historia. Con profunda emoción y como se sube a encender la llama en lo alto del cenotafio donde están los restos de los caídos, traté de cumplir mi deber. Confieso que ha sido un gran honor aquel y este que usted, General Presidente, hoy me ha conferido.

Pero algo más debo decir:  El hecho importante y trascendental es que entonces concluí mis palabras clamando porque se levantaran de las tumbas los muertos gloriosos del 10 de Octubre y del 24 de Febrero; clamé por los mártires, por las heroínas, por las cubanas que bordaron banderas pidiéndoles atravesarnos en el camino de un enemigo y adversario implacable que, todo parecía indicar, venía esta vez a cercenar de forma definitiva, jugando con los azares de la historia, el destino de Cuba; pero no fue posible.

Hoy, 20 años después, estamos aquí de pie, en una coyuntura diferente.  Nos hemos presentado con hidalguía bajo los mismos mangos orientales, para enfrentarnos con el caballeroso adversario que ofrece al menos detener por un tiempo la mano agresora y darnos la oportunidad de discutir lo que lógicamente será necesario debatir bastante.

Ahora más que nunca hace falta la unidad de la nación, ahora más que nunca la prenda más preciosa debe ser conservada.  La fortaleza que nos ha permitido llegar hasta aquí fue aquella que vi esa otra noche de abril en Playitas de Cajobabo cuando, convocados por el líder de la Revolución, llegamos a aquella hora oscura de la noche a la orilla de la playa.  Él llevaba la bandera cubana en el asta que le trajo uno de sus ayudantes, y entonces, entrando en el agua a la altura prácticamente del tobillo, se abrió de pronto en el cielo la luna blanca y movió la bandera de Cuba hacia el Sur, hacia el Norte, hacia el Este y hacia el Oeste, diciendo: ¡Aquí estamos!

Y aquí estamos hoy, ¡oh, patria amada!, ¡oh, bandera dulce, por la cual tantos lucharon! No importa que tú, Maestro generoso, te hayas ido tan pronto, aquel 19 de mayo, tuviste una profunda convicción, convicción profunda: “Yo sé desaparecer, pero mis ideas prevalecerán”.

Y esas ideas han prevalecido. Fueron las ideas que se defendieron en el proceso histórico del Moncada.  Fueron las que conquistaron a los muchachos que se reunían en la calle de Prado para escuchar la voz de aquel joven que había irrumpido en la universidad como un torbellino, y de quien me dijo una de sus hermanas: un día volvió a la casa y papá ya lo sabía:  “Vienes a buscar al chiquito”. El chiquito está aquí con nosotros, y el grande está con nosotros todavía.

¡Viva Cuba!

Omaggi di Fidel e Raúl a Martí, in Santiago di Cuba

In occasione del 120º anniversario del reinizio delle guerre d’indipendenza, le corone di fiori offerte dal leader storico della Rivoluzione Fidel Castro, dal Generale d’Esercito Raúl Castro, dai Consigli di Stato e dei Ministri e dal popolo di Cuba, sono state poste nel cimitero Santa Ifigenia Monumento Nazionale, ed è stata realizzata una cerimonia militare davanti al Mausoleo che custodisce i resti dell’Eroe Nazionale.

Gli allievi della Scuola militare Camilo Cienfuegos (EMCC), della provincia di Matanzas e dell’Accademia Navale Granma, Ordine Antonio Maceo, de L’Avana, selezionati per i loro risultati integrali, hanno partecipato all’omaggio.

Dianelis Tejeda, studentessa del terzo anno della specialità di Geografia e Geodesia, dell’Accademia Navale Granma, ha detto che è un onore rendere omaggio a chi fu l’organizzatore della Guerra Necessaria, un fatto trascendentale che marcò la continuità del processo rivoluzionario cubano.

Pablo Enrique González, allievo dell’undicesimo grado della EMCC, di Matanzas

ha segnalato il lavoro di Martí alla ricerca dell’unità per riannodare la lotta e il suo alto senso del dovere, che deve costituire un esempio per le attuali generazioni, di fronte alle sfide di questi tempi.

Funzionari del Comitato Provinciale del Partito Comunista di Cuba e del

Governo nel territorio, pionieri, studenti, combattenti della

Rivoluzione e una rappresentazione del popolo di Santiago, hanno assistito alla cerimonia in ricordo della gesta del 24 febbraio del 1895.

 

 

 

 

 

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