Venezuela, il Parlamento delle ragazze

Geraldina Colotti

“Essere giovane e non essere rivoluzionario è una contraddizione in termini, persino biologica”, disse l’allora presidente del Cile, Salvador Allende. Un’affermazione che trova conferma nella rivoluzione bolivariana, dove il ricambio politico si accompagna alla trasmissione di memoria da parte delle generazioni che sono venute prima. Un dato evidentissimo, anche quest’anno, durante la giornata della gioventù. Un’occasione per celebrare il bicentenario dalla Battaglia di Carabobo, nella quale migliaia di ragazzi combatterono agli ordini di Simon Bolivar per ottenere l’indipendenza del Venezuela.

Un’indipendenza incompiuta, poiché il sogno di Simon Bolivar, quello di una Patria Grande che includa tutto il continente latinoamericano, è ancora nelle mani di quante e quanti, organizzati nel Partito Socialista Unito del Venezuela, lottano per realizzarlo. Così, a differenza di quanto accade per i partiti in Europa, nell’ultima campagna di iscrizione al PSUV c’erano soprattutto giovanissimi a consegnare le tessere, nelle piazze del Venezuela. Molte e molti di loro, il 40% dei deputati PSUV, sono stati eletti al Parlamento venezuelano, che per quasi la metà è composto da donne.

Nella seduta ordinaria dell’Assemblea Nazionale, la ventunenne deputata Génesis Garvett ha iniziato il suo discorso citando Frantz Fanon per rinnovare lo spirito anticoloniale raccolto dalle giovani generazioni, poi ha invitato i suoi coetanei a un dialogo costruttivo, e ha ricordato la lotta delle donne per decidere del loro corpo e del loro futuro. C’è una bella differenza tra invitare al dialogo quando le decisioni sono nelle mani del potere popolare, e presentare come “unità nazionale” un carrozzone bipartisan diretto dalle grandi istituzioni internazionali. Nel Parlamento venezuelano, in onore alla Battaglia di Carabobo, si è approvato un accordo unanime contro le ingerenze esterne sul Venezuela. Lo ha votato anche la destra moderata che ha eletto i suoi deputati il 6 di dicembre, per un progetto opposto a quello bolivariano: “Dialogo, sì, ma sui principi non cediamo di una virgola”, hanno ribadito deputate e deputati a nome del socialismo bolivariano.

In seguito, i vari interventi hanno fornito un’ampia documentazione sulle conseguenze devastanti delle sanzioni per la vita del popolo venezuelano. Informative che andranno alla relatrice Onu per i diritti umani, presente nel paese appunto per verificare gli effetti delle misure coercitive unilaterali, usate come arma di ricatto contro il governo bolivariano.

Ma se in ventuno anni di rivoluzione bolivariana – gli anni della deputata Garvett-, nonostante i molteplici attacchi sferrati, l’imperialismo non l’ha avuta vinta, è stato soprattutto per l’alto livello di coscienza politica, che si rinnova nelle giovani generazioni. Una forza propulsiva che è andata perdendosi nei paesi capitalisti con il distacco dei giovani dalla politica, seguito alla sconfitta del grande ciclo di lotta iniziato con il movimento del ’68 del secolo scorso.

Allora, le piazze si riempivano di volti giovani intenzionati a dare l’assalto al cielo, a conferma delle parole di Allende: essere giovani e non essere rivoluzionari, è una contraddizione persino biologica. Oggi che le classi dominanti si sono riprese il campo e che l’involuzione della sinistra in Europa ha depotenziato il senso della militanza, producendo uno scollamento tra il “sociale” e il “politico”, le cose stanno, purtroppo, diversamente.

 La percentuale di giovani che militano in modo organizzato per trasformare profondamente la società è assai ridotta e assai meno “rumorosa”. Essendo scomparsa l’opzione rivoluzionaria dal novero delle possibilità in campo, ha preso piede una visione parcellizzata e minimalista, basata su un’improbabile conciliazione degli opposti che offusca la natura e le responsabilità della società divisa in classi.

Più che in politica, la partecipazione giovanile si riscontra in ambito associativo o in forme di volontariato, senza un progetto generale per trasformare le relazioni di potere. Lo stesso concetto di giovane si è modificato in base ai mutamenti socio-culturali degli ultimi decenni. In paesi come l’Italia, alla fine degli anni Ottanta riguardava una fascia d’età tra i 15 e i 24 anni, nei Novanta arrivava fino ai 29 anni, mentre nel terzo millennio fino ai 34 anni.

Per le organizzazioni internazionali come l’Onu, invece, è considerato giovane chi ha un’età compresa tra i 15 e i 24 anni, e “giovane adulto” chi è tra i 20 e i 24 anni. Nelle statistiche dell’Unione Europea, si considerano giovani le persone dai 15 ai 29 anni. Per la Banca Mondiale, si è giovani a partire dai 12 anni, un’età che in Italia rientra nell’infanzia, ma che in molti paesi del sud del mondo significa già anni di lavoro e di assunzione di responsabilità da adulto alle spalle. Per non parlare delle ragazzine, la cui adolescenza e crescita viene stroncata dalle gravidanze precoci, che solo il feroce incrocio tra sistema capitalista e patriarcato può considerare “naturali”.

In Europa, la media della disoccupazione giovanile fra tutti i Paesi, considerando la fascia di età 15-29 anni, è del 12,5%. Se invece si prende l’insieme tradizionale dei giovani fra i 15 ed i 24, la percentuale sale al 15,2%. Sempre riguardo al gruppo 15-24, il peggior paese europeo per disoccupazione giovanile è la Grecia, con un tasso vicino al 40% nel 2019. Seguono la Spagna, al 32,7%, e l’Italia, al 31,4%.

In Italia, circa i 2/3 dei giovani rimangono a casa dei genitori fino a trent’anni, circa 1/3 fino ai trentacinque, a causa dell’assenza di lavoro e degli alti costi di affitti e servizi. Il 13% dei giovani sotto i 29 anni ha infatti un lavoro instabile o precario, e rientra nella classifica del “working poor”. Il generale ritorno indietro sul piano dei diritti del lavoro e dello studio, fa sì che in Italia queste condizioni socio-economiche si vadano tramandando di generazione in generazione: i figli dei ricchi, sono sempre più ricchi, quelli dei poveri, sempre più poveri.

Analizzati per genere, i dati sono ancora più preoccupanti: nel 2018, le giovani europee che non studiavano né lavoravano sono state il 20,9% contro il 12,2% di maschi. In Italia, il 34,%, rispetto al 23,8% di ragazzi. Un dato più evidente nelle regioni del nostro sud, e aggravato dal coronavirus a livello mondiale, come ha evidenziato l’ultima indagine della Cepal.

L’11 febbraio è stata anche la giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza. In tutto il mondo, meno del 30% di chi fa ricerca è donna. Gli stereotipi di genere condizionano ancora le scelte scolastiche, moltiplicati dalla situazione economica di partenza per le ragazze delle classi popolari. Le facoltà scientifiche, richiedono infatti la frequenza, limitando così l’accesso a chi deve lavorare per mantenersi agli studi, per non parlare dell’esistenza del “numero chiuso” a Medicina.

In Venezuela, invece, negli ultimi 15 anni, la partecipazione delle ragazze nel campo della scienza, della tecnologia e dell’innovazione, è cresciuta nel tempo, fino a raggiungere la parità di genere in ambito scientifico. Un dato che, però, non vedremo comparire sui media europei: i giovani potrebbero accorgersi che la lotta paga.

(Articolo per il Cuatro F)

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