Colombia: massacri, torture, deportazioni forzate

Gerladina Colotti

“La Colombia è un paese in guerra che è diventato la principale enclave militare degli Stati Uniti nella regione. Vittima di una brutale spoliazione ad opera delle grandi multinazionali del paese del nord, e uno dei centri di quel grande affare del capitalismo mondiale che è il narcotraffico”. Questo ci dice Maria Fernanda Barreto, militante colombiana-venezolana, scrittrice e autrice del libro “Nuestra América en palabras. 10 entrevistas para comprender la guerra y construir la paz”, edito recentemente in Argentina.

Con Barreto abbiamo discusso la situazione della Colombia dalla prospettiva di chi vive da molti anni in Venezuela, il paese che è costantemente bersaglio degli attacchi provenienti dal governo del paese vicino. “La Colombia – dice l’analista – è governata da un’oligarchia che è senza dubbio la più violenta del continente e quella più subordinata ai disegni degli Stati Uniti, al punto da trasformare il proprio territorio in testa di ponte per l’attacco alla Rivoluzione bolivariana e il rilancio del progetto imperialista nella regione. Non a caso l’ex presidente Juan Manuel Santos era orgoglioso che la Colombia fosse considerata come l’Israele dell’America”.

È un paese “la cui tragedia si esprime in massacri, torture, deportazioni forzate, ma anche dove la resistenza del popolo viene costantemente resa invisibile di fronte all’opinione pubblica nazionale e internazionale”. Malgrado gli omicidi quasi quotidiani di guerriglieri smobilitati e di dirigenti sociali, nessun Almagro si alza ad esigere sanzioni, come succede, ingiustamente, contro il Venezuela bolivariano. Pare che il mondo – prosegue Barreto – “non veda quel che succede in Colombia, e questa indifferenza è complice delle infinite violazioni dei diritti umani commesse ogni giorno in questo paese. La Colombia rappresenta un grande dolore per i suoi figli e le sue figlie che fanno parte della immensa diaspora lanciata per il mondo a causa della violenza economica e del terrorismo di Stato”.

Quali sono le forze politiche che contrastano l’uribismo a livello istituzionale? “In Colombia – risponde l’analista – esistono attualmente vari partiti di centro, di centro destra, di centro sinistra e di sinistra che si identificano con l’anti-uribismo, ma che sono molto diversi nella loro ideologia”.

Esiste anche un’opposizione armata che continua ad agire. “In Colombia – spiega Barreto – esiste sempre la lotta di guerriglia, che si esprime fondamentalmente nell’Esercito di Liberazione Nazionale, attualmente il maggior gruppo guerrigliero, un settore delle Farc-Ep che non ha mai accettato gli accordi di pace, e poi nella Seconda Marquetalia, un settore delle Farc-Ep tornato alle armi dopo il fallimento degli accordi di pace”. Ma – aggiunge – “la cosa più interessante è che in Colombia esiste e resiste una grande organizzazione popolare, indigena, contadina, nera, femminista, studentesca, giovanile, sindacale, dei diritti umani, di vari altri settori che si organizzano per lottare nei territori e cercare alternative per uno sviluppo che sia veramente in armonia con la costruzione di quella pace con giustizia sociale di cui il paese ha bisogno”.

In un paese che, da quando è stato assassinato il leader liberale Eliécer Gaitán, ha chiuso con la violenza ogni spazio alla politica, esiste la possibilità di vincere l’uribismo con le elezioni? L’analista colombiana risponde: “Forse uno dei problemi più drammatici della Colombia è stato la mancanza di unità fra i diversi settori della sinistra, cosa che il Venezuela è riuscito a superare grazie a Chávez e che è senz’altro un requisito imprescindibile per azioni veramente rivoluzionarie. In un paese occupato militarmente dagli Stati Uniti, enclave mondiale di uno dei maggiori lubrificanti del capitalismo come il traffico di droga, e invaso dalle mafie, come la Colombia, il potere esecutivo è soltanto un fattore del potere, che tuttavia dobbiamo lottare per raggiungere”.

Ma in che modo? Cosa pensa Barreto della proposta di Patto storico per l’unità della sinistra? “Gli otto milioni di voti che portarono Gustavo Petro vicino alla vittoria elettorale nelle elezioni del 2018 – risponde – hanno messo in luce un cambiamento nel rapporto di forze elettorali nel paese, e per questo per il 2022 si torna a porre in evidenza l’importanza di ricercare una candidatura che possa rappresentare l’unità d’espressione dei partiti alternativi all’egemonia uribista, che sta da circa vent’anni al potere. In questa ricerca nell’unità, definita “patto storico”, confluiscono partiti di centro, di centro sinistra e di sinistra, e perfino persone che potremmo definire di centro destra, ma che sono concordi nell’attribuire una grande importanza alla ricerca di un’alternativa all’uribismo. Speriamo che in quello spazio si evidenzi l’importanza dell’unità al di là dell’intolleranza e dei tradizionali appetiti personali, così da poter arrivare a una candidatura unica che si confronti con l’estrema destra rappresentata dall’uribismo, nelle prossime elezioni del 2022”.

Chiediamo all’analista la sua opinione sul conflitto fra l’uribismo e il governo bolivariano che continua anche dopo l’arrivo di Biden alla presidenza degli Stati Uniti. “Quanto alle relazioni fra Colombia e Venezuela – lei risponde – queste continuano in maniera diversa su due livelli. Nella dinamica dei due popoli, quella quotidiana, della frontiera viva, delle culture sorelle, e nella dinamica dell’oligarchia al potere in Colombia, che ha deciso di subordinare gli interessi della politica estera colombiana ai disegni di Washington e che sta perfino coinvolgendo la Colombia in una guerra fratricida con il Venezuela. Per fortuna queste posizioni hanno trovato un’opposizione nel paese stesso, in alcuni settori della borghesia colombiana, nella sinistra istituzionale e soprattutto nelle organizzazioni popolari, ben coscienti che il loro conflitto non è con il Venezuela e che una guerra fra le nostre due nazioni potrebbe solo estendere e prolungare il conflitto sociale e armato di cui soffre la Colombia. Anche dal Venezuela la risposta istituzionale e popolare è stata quella di una Rivoluzione pacifica ma armata, come sempre ci ricordava il comandante Chávez. Ed entro i settori popolari stiamo anche noi, colombiani e colombiane che siamo parte di una immensa comunità di emigrati, e che siamo disposti e disposte a difendere la Rivoluzione bolivariana come abbiamo fatto duecento anni fa, unendo i nostri popoli contro l’oligarchia cipaya e contro l’imperialismo, che è quello che in definitiva sta attizzando questo conflitto”.

(Traduzione di Nunzia Augeri per Cumpanis)

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