Si può frenare il bellicismo dal seno della società USA?

Benché gli USA continuino ad essere la principale potenza mondiale, da varie decadi ed in diversi campi questo paese viene sperimentando una crescente declinazione e deterioramento della sua base industriale, che si manifesta in maggiori disuguaglianze e fratture sociali, tra le altre conseguenze, includendo nel seno dei gruppi oligarchici di potere.

L’obiettivo esposto alla fine della II Guerra Mondiale di mantenere un’ampia superiorità militare per dissuadere i suoi avversari, presto divenne un fine a sé stesso, che ha condizionato la corsa militarista per più di settanta anni, perfino dopo che la fine dell’Unione Sovietica lo ha messo in dubbio.

Con prontezza altre supposte minacce alla sicurezza nazionale sono state articolate e gonfiate e sono servite da base per conformare una volontà bipartitica ampiamente maggioritaria in pro della spesa militare. Ogni anno si assegnano risorse e cifre superiori al bilioni di dollari per questi fini mentre la stessa infrastruttura economica del paese si sgretola, insieme al fatto che il debito pubblico sorpassa all’abbondante Prodotto Interno Lordo della nazione.

Continuare per questo cammino apparentemente illogico risponde realmente all’enorme peso economico, politico, mediatico e culturale del chiamato Complesso Militare Industriale, estesa rete di entità e corporazioni private che, alimentata con fondi pubblici, è ramificata in tutto il paese e della quale dipendono migliaia di subappaltatori e milioni di posti di lavoro. Questo si riflette nella disposizione dei politici associati a questa rete di appoggiare con entusiasmo l’aumento della spesa militare, la politica estera aggressiva e le avventure belliche. L’industria di armamenti e l’intricato mondo di entità associate, think tank e complessi mediatici hanno un peso di primo ordine nei centri di potere del paese.

A questa situazione si uniscono l’effetto che ha nella politica del paese la sua natura imperialista, la sua arroganza e resistenza ad aggiustarsi davanti ai cambiamenti geopolitici in corso, e gli interessi economico-finanziari in gioco in diversi confini del pianeta. Bisogna sottolineare inoltre che nelle strutture dei disegni delle politiche, tanto nel Pentagono come nel Dipartimento di Stato e nel Consiglio di Sicurezza Nazionale, sono aumentate la presenza di elementi neo-conservatori e le messe a fuoco militariste.

A dispetto delle tensioni finanziarie ed altre conseguenze nefaste, è difficile pronosticare il momento nel quale gli Stati Uniti, per il loro stesso interesse e necessità di mantenere il loro status come “potenza”, cambino e passino a frenare la dismisura delle loro pretese imperiali e i già insostenibili livelli di crescita del loro macchinario bellico. Deve dedursi, pertanto, che la bellicosità ed il carattere distruttivo del loro ruolo nel mondo si manterranno nel futuro prevedibile, e che la loro stessa declinazione seguirà il suo corso.

Tuttavia, quello che vogliamo sottolineare, è il notevole aumento delle voci che, perfino da settori conservatori, argomentano in favore di una nuova cornice di priorità nella politica nazionale e che, senza arrivare a rompere il consenso predominante in politica estera, chiedono una restrizione delle tradizionali e nefaste pretese avviate a mantenere la proiezione dell’apparato bellico a livello globale, e patrocinano per ridurre significativamente il presupposto per fini militari.

Il dibattito tra i bellicisti ed i sostenitori che vogliono frenare la proiezione militare globale

 

Quanto esposto si riflette nel dibattito su diversi temi della politica nazionale e si manifesta come una delle multiple contraddizioni che si scatena tra segmenti dell’élite politica del paese, in questo caso tra falchi e i chiamati interventisti liberali, da un lato, e dall’altro libertari e nazionalisti ostinati nel frenare gli impulsi bellici e nella riduzione di spese per questo fine.

Consideriamo alcuni di questi progetti che non provengono in assoluto da enti pacifisti o di settori di sinistra.

Un famoso politico ed analista di destra come Pat Buchaban risalta tra quelli che patrocinano per una nuova messa a fuoco della politica estera, più regolata alle necessità della politica interna della nazione. Attualmente, dice:

“Le preoccupazioni per i temi domestici sono predominanti nel paese –il confronto alla pandemia, l’invasione di immigranti dalla frontiera meridionale, come la durezza delle relazioni razziali che è aumentata come non si era mai visto in decadi – e è tempo che i nostri statisti prestino attenzione alla nostra società, diano priorità “América First” collocando in primo luogo gli statunitensi e lasciare che il mondo si preoccupi per sé stesso”.

Lo stesso Buchanan in un articolo precedente intitolava “È che non abbiamo già nemici sufficienti?”. Lì critica alcuni azioni recenti del governo di Biden e dichiarazioni del suo cancelliere Antony Blinken rispetto a Cina, Corea del Nord, Iran e Russia, dove si proietta come un falco, e si domanda l’analista se non è già tempo di  agire per evitare l’inizio di nuove guerre.

In un altro articolo posteriore Buchanan allude al fatto che è tempo di riconsiderare i compromessi degli Stati Uniti nella NATO e quei trattati di sicurezza esistenti col Giappone, Corea del Sud, Filippine o Australia stabiliti settanta anni fa, che risultano essere obblighi restanti della Guerra Fredda.

Concetti simili sono espressi da diversi analisti ed ex militari di alto rango e politici di filiazione maggiormente repubblicana che patrocinano anche per l’unilateralismo e per evitare l’inserimento degli Stati Uniti come parte di accordi o situazioni che impegnino loro a partecipare a conflitti altrui.

Alcuni segnalano che il paese deve progettare una nuova strategia nazionale che assicuri mete politiche congruenti con le realtà fiscali e le capacità militari del paese. Il colonnello in pensione dell’Esercito, Douglas Macgregor, ex assessore del Segretario della Difesa, osservava che ci sono troppe teste calde nel Congresso pronte per compromettere le forze armate prima di fare una valutazione degli interessi concreti ed i costi di tali azioni.

Inoltre, un crescente settore accademico e di analisti politici si sommano alle dichiarazioni del professore Paul Kennedy che più di tre decadi fa, nella sua opera più importante  “Auge e caduta delle grandi potenze”, faceva notare l’infausto impatto che il sovradimensionamento imperiale stava avendo nel paese.

Alcuni segnalano che la nazione si vede trascinata verso nuovi conflitti, perché il Pentagono soffre di un’incontinenza strategica, mentre il volume e la composizione delle forze militari non conservano relazione con le necessità di proteggere gli statunitensi. Anche Think tank come, l’Istituto Cato, appoggiano queste teorie.

Robert Kelly, del conservatore Istituto Lowy, ha detto nel 2019 che il paese era già chiaramente stanco ed esausto con le guerre interminabili come quella in Iraq ed in Afghanistan. Kelly ha considerato come un poderoso segno di cambiamento nell’opinione pubblica la vittoria di Trump nel 2016 che ha identificato più volte queste avventure militari come guerre stupide.

Molte voci famose segnalano che Washington non deve continuare ad invischiarsi in conflitti di altri paesi, perché non è oramai in capacità di svolgere il ruolo di “egemone” globale quando è assediato da problemi domestici severi e conseguenze costose per la sua stessa popolazione.

The New York Times cita un’inchiesta dell’anno scorso del Council of Global Affairs di Chicago, che ha dimostrato che una maggioranza degli elettori repubblicani favoriscono una messa a fuoco più nazionalista, di autosufficienza economica e l’adozione di un avvicinamento unilaterale nelle azioni diplomatiche e nelle relazioni col mondo.

Senza ignorare il predominio di posizioni di destra che esistono nel seno del Partito Repubblicano, si evidenziano divergenze ed un certo riallineamento politico nelle file di entrambi i partiti, come l’influenza crescente di elementi neo-conservatori intorno al direttivo democratico fautore di una politica estera aggressiva ed interventista. Alcuni sono arrivati a considerare la leadership democratica come gestore della conversione di questo gruppo come il partito della guerra. Deve tenersi in conto che nonostante l’ala progressista democratica si sia fortificata, la sua proiezione e peso per influire nei temi di politica estera è minimo.

Nei giorni scorsi, in aprile del 2021, abbiamo assistito a quello che si è evidenziato come un importante cambio nelle posizioni del maggiore e più influente gruppo di veterani, l’American Legión, che ha fatto un appello affinché gli Stati Uniti mettano fine alle loro guerre perpetue. Con questa dichiarazione ha rinforzato la sua risoluzione dell’anno passato nella quale faceva un appello al Congresso per ristabilire un bilancio costituzionale e “rimpiazzare le obsolete Autorizzazioni per l’Uso della Forza Militare.”

Per concludere, ed in contrasto con tutto quello detto anteriormente, risulta interessante riferire qui le preoccupazioni appena espresse dal conosciuto politologo di destra Robert Kagan, tradizionale sostenitore di una politica militare aggressiva e dell’egemonismo yankee. Oltre ad enfatizzare che gli Stati Uniti hanno la responsabilità di essere il poliziotto del mondo, si lamentava e qualificava come un serio problema per il paese il fatto che il popolo statunitense continui a guardare in eccesso verso l’interno, e non vuole condividere il destino del dominio mondiale.

di Fernando M. Garcia Bielsa

da Cubadebate traduzione di Ida Garberi

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