Perù. Parlare di Juan in modo che Pedro ascolti

Alberto M. Adrianzén, Resumen Latinoamericano, 12 luglio 2021

“Un popolo che non sa da dove viene non sa dove va”
José Antonio Maravall

Il giorno prima delle elezioni al secondo turno, pubblicai su facebook una foto del generale Juan Velasco Alvarado sorridente con didascalia che diceva: “Ci vediamo domani”.

Quando si seppero i primi risultati che davano vincitore al Professor Pedro Castillo di Peru Libre, pubblicai un’altra foto di Velasco, ma questa volta che parlava al telefono con una didascalia che diceva: “Ciao Pedro…” La mia idea era collegare Pedro Castillo con Juan Velasco Alvarado poiché si possa dire che Castillo, di padre contadino, maestro di campagna, è “figlio e prodotto” della riforma agraria e del processo riformista che scatenò il Velasquismo negli anni Sessanta e Settanta. Ma soprattutto per dimostrare che il suo trionfo elettorale chiude un lungo ciclo storico iniziato col processo di Velasco di oltre cinquant’anni fa.

Il riformismo velasquista

Il Velasquismo può essere definito “riformismo statale” di natura antioligarchica; come un governo che cerca di fondare un “nuovo ordine”. Ma questo non nasce da un “patto democratico” ma, al contrario, da un atto autoritario. Cioè, dalla rottura col regime oligarchico attraverso un colpo di Stato per proporre, sulla base di esso, alla società un patto che si possa definire fondativo e che cerchi, tra l’altro, di creare nuove regole e garanzie di regolamentazione delle controversie tra capitale e lavoro, ridefinendo sostanzialmente la democrazia rappresentativa, i rapporti tra campagna e città, tra nazione e sistema internazionale, emancipando i contadini con la fine del gamonalismo, l’accesso alla proprietà della terra e la piena cittadinanza. La radicalità del Velasquismo, in questo contesto, si basava non solo sull’applicazione delle riforme che interessarono alcuni tradizionali gruppi di potere nazionali ed esteri, ma anche perché cercò di fondare un nuovo ordine sociale, politico, economico e culturale. Il Velasquismo, in questo contesto, fu una “rivoluzione politica”, intesa come separazione radicale tra potere politico e proprietà, specificamente proprietà della terra. Ciò porta, come dice Marx, a porre fine all’esclusione dell’individuo dallo Stato. In una struttura in cui potere e proprietà sono strettamente legati e da dove emana la proprietà, il potere dello Stato è “la responsabilità speciale di un padrone dissociato dal popolo e dai suoi servi”. La rivoluzione politica, in questo senso, eleva “gli affari di Stato ad affari del popolo”, cioè costituisce lo Stato “come preoccupazione generale” distruggendo i privilegi che separavano le élite dalle classi popolari e ponendo così la necessità di creare un “popolo” e un nuovo Stato insieme.

Non stupisce quindi che la richiesta fondamentale degli anni Ottanta, sotto il regime democratico, fosse l’inclusione, e più specificamente del “popolo”, nelle vicende politiche dello Stato, cioè la richiesta di far parte di una comunità nazionale dove siamo tutti uguali. In realtà, il Velasquismo cercò di creare un nuovo Stato, una nuova società e anche un “popolo” che fosse patriottico (definendo il rapporto tra peruviani) e nazionalista (definendo il rapporto del paese col mondo). Come sappiamo, questo tentativo fallì per molteplici cause e diede vita negli anni ’90 a quello che chiamiamo “regime autoritario di Fujimori”. È vero che possiamo qualificare il fujimorismo come regime autoritario “civico-militare”, come fu, ma possiamo anche definirlo “controrivoluzione” poiché ricollegava potere politico, proprietà privata ed élite esclusiviste. Ecco perché non stupirsi che la Costituzione del 1993 fosse, appunto, l’opposto di quella del 1979 e che la principale eredità e caratteristica fondamentale di fujimorismo e post-fujimorismo, oltre alla natura autoritaria, sia la sistematica “occupazione dello Stato”, come dice Francisco Durand, dalle élite, trasformandolo in “questione per pochi” mantenendo i privilegi delle élite economiche che governavano il Paese sia una cultura e politica razziste e limacentricche. In tale senso, le principali “opere” del fujimorismo furono la creazione di uno Stato neoliberista imposto dal colpo di Stato e “legalizzato” dalla Costituzione del 1993, democrazia basata sul rapporto clientelare con la società e nemica dei partiti e un “cosmopolitismo” legato al mondo (o politica estera). In altre parole, un’aperta subordinazione alla globalizzazione capitalista mondiale. Qualcosa di molto diverso, tra l’altro, dalla politica estera peruviana degli anni Settanta, che si basava, tra l’altro, su indipendenza, nazione ed integrazione latinoamericana.

Il “momento democratico”

In questo contesto dobbiamo individuare e valutare l’importanza del trionfo di Pedro Castillo e Peru Libre. Quello che voglio suggerire è che il trionfo di Castillo apra le possibilità di un “governo democratico e plebeo”, la cui legalità e legittimità derivano da elezioni corrette (cosa che la destra golpista nega e negherà) e che quindi rappresenta un momento democratico costituente. Questo fatto pone la necessità di completare democraticamente i compiti pendenti e inadempiuti che il momento riformista degli anni Sessanta e Settanta ci lasciò col processo Velasquista e il lavoro della sinistra in quegli anni. Uno di questi è la sconfitta di Fujimori come espressione di ciò che chiamiamo “controrivoluzione”; e un altro è recuperare, come si diceva una volta, lo “spirito” della Costituzione del 1979 per ricrearla secondo i tempi attuali. Ciò non significa ripetere il Velasquismo, né promuovere un “neovelasquismo”, ma piuttosto essere consapevoli che bisogna completare la costruzione della nazione e porre fine al ciclo autoritario e aprirne uno democratico e duraturo. Cioè, per finire ciò che iniziò più di cinquant’anni fa per sapere finalmente da dove proveniamo.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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