La globalizzazione neoliberista e l’esempio del Venezuela di Chavez

Geraldina Colotti

“È un’idea grandiosa pretendere di formare di tutto il nuovo mondo una sola nazione con un solo vincolo che leghi le parti tra loro”. Così scriveva Bolivar nella Lettera da Kingston (la famosa Carta de Jamaica, del 1815), e più avanti aggiungeva: “Che bello sarebbe che l’istmo di Panama fosse per noi ciò che quello di Corinto era per i greci. Chissà che un giorno non si abbia la fortuna di insediare lì un autorevole parlamento dei rappresentanti delle repubbliche, dei regni e degli imperi, per trattare e discutere i grandi interessi della pace e della guerra con le nazioni delle altre parti del mondo”.

Un sogno che, nella rivoluzione bolivariana, si è rinnovato in quello di una seconda indipendenza, simbolizzato quest’anno nel Bicentenario dalla battaglia di Carabobo. Un progetto di integrazione regionale (e non solo) che Hugo Chávez ha spiegato nel corso degli anni anche ai movimenti “altermondialisti” che si riunivano nei Social Forum. I suoi discorsi, presenti nelle parole pronunciate dal presidente Maduro durante il Congresso Bicentenario e il concomitante vertice dei paesi dell’Alba che si è tenuto a Caracas, risultano quanto mai attuali in questa fase di attacco imperialista alla rivoluzione cubana e a quella sandinista in Nicaragua, con modalità già viste contro il Venezuela bolivariano, e nella quale l’elemento della solidarietà internazionale si fa determinante.

In molti, in questi giorni, sono tornati a Genova, a vent’anni dalle manifestazioni contro il G8 nelle quali, il 20 luglio del 2001, venne ucciso il giovane Carlo Giuliani. In un’Europa ancora priva di un’alternativa di classe capace di trasformare in occasione questo nuovo capitolo della crisi sistemica del modello capitalista, riflettere sui diversi esiti dell’esperienza dei Forum sociali mondiali, in Europa o in America Latina, e sullo spartiacque che ha rappresentato il 2001 a livello internazionale, non è di poco conto.

“Un altro mondo è possibile”, si diceva allora. Lo slogan, come si ricorderà, viene lanciato nel 1999 da Bernard Cassen, dell’organizzazione francese Attac France, e di Le Monde diplomatique. Il 1999 è l’anno del “popolo di Seattle”, come i media cominciano a chiamare i manifestanti che si scontrano con la polizia inseguendo i potenti del pianeta, che si riuniscono a porte chiuse. Lo slogan viene assunto nel 2001 dal primo Forum Sociale di Porto Alegre, di cui Cassen è ideatore con Ignacio Ramonet.

L’incontro si svolge negli stessi giorni (dal 25 al 30 gennaio) del Forum economico mondiale di Davos, in Svizzera. Riunisce oltre 10.000 partecipanti e 1.000 organizzazioni di 120 paesi. Da allora, lo slogan viene ripreso da tutti i forum sociali che continueranno a svolgersi. L’ultimo, ha avuto luogo, in virtuale, il 31 gennaio di quest’anno e, dopo una settimana di attività, con la rappresentanza di 144 paesi e 1.371 organizzazioni iscritte, ha dichiarato di prepararsi per un nuovo forum in Messico, nel 2022.

Ma quale possibilità avevano, quei movimenti – definiti “alter-mondialisti” oppure “no-global” -, di rendere “possibile” un altro mondo nei paesi capitalisti, oggi più che mai “necessario” di fronte al fallimento di un modello nel quale 60 famiglie possiedono la ricchezza del pianeta? Se, infatti, si può rintracciare un filo che, da Porto Alegre e Genova conduce ai movimenti che sono venuti dopo, come Occupy Wall Street, Me Too, Fridays For Future, o Black Lives Matter, per quanto riguarda l’Europa solo il movimento degli Indignados, in Spagna, ha trovato un vero sbocco di potere con il partito Podemos.

In Europa, ma soprattutto in Italia, gran parte dei movimenti “no-global” ha cercato di scavalcare l’esperienza del movimento operaio novecentesco rifacendosi a “mitopoiesi” precedenti o post-moderne, in base allo slogan “cambiare il mondo senza prendere il potere” e al modello zapatista.

A gennaio del 2003, un anno dopo la vittoria di Lula in Brasile, nel suo primo memorabile discorso a Porto Alegre, culla dei Social Forum, Chávez ha spiegato invece come, dalla rivolta del Caracazo contro il neoliberismo del 1989 (l’anno in cui cadeva il Muro di Berlino), che ha preparato la ribellione civico-militare del 1992, si sia arrivati in Venezuela a coniugare il “governo della strada” e quello di Miraflores, moltiplicando lo spirito di Porto Alegre nell’esperienza dei Consigli comunali e poi delle comunas. Insomma, come la critica alle democrazie borghesi della Quarta Repubblica, portata avanti anche con la lotta armata, si fosse tradotta nella difesa del socialismo e di quei tentativi rivoluzionari, non nella presa di distanza e nel taglio delle radici, nell’illusione di sentirsi più “leggeri”.

 Un progetto, quello del socialismo bolivariano, che ha scommesso di smantellare dall’interno lo Stato borghese e ha reso attuale il sogno di Bolivar di una seconda indipendenza latinoamericana. Il 25 luglio del 1999, ha ricordato allora il Comandante, vi fu il referendum con cui venne eletta l’Assemblea Nazionale Costituente. E nel 2001 vennero approvate le 49 Leggi abilitanti per collegare il testo costituzionale alla realtà del socialismo bolivariano in costruzione. L’anno dopo arriverà il colpo di stato, ma la reazione del popolo venezuelano, preparato a vincere a differenza di quello di Genova, rimetterà le cose a posto. “La formazione di forze sociali trasformatrici e rivoluzionarie all’interno dei popoli è imprescindibile”, disse Chávez a Porto Alegre.

L’11 settembre del 2001, l’attacco alle Torri Gemelle e la successiva guerra di Bush ai “combattenti nemici” segnerà uno iato incolmabile tra il pacifismo etico e assoluto dei movimenti no-global e la rabbia dei popoli oppressi, orfana di un orizzonte laico-socialista. Le oceaniche manifestazioni pacifiste contro l’aggressione all’Iraq, viste nelle piazze del mondo nel 2003, rifluiranno nei distinguo nel corso delle successive aggressioni imperialiste, comprese quelle più recenti al socialismo bolivariano e alla rivoluzione cubana (per non parlare di quella sandinista).

A Porto Alegre, rivolgendosi alla platea, Chávez spiega perché, sebbene speri di non dover usare più il fucile, è sempre bene tenerlo vicino. Parla delle trappole ideologiche predisposte dalla borghesia e di un nuovo internazionalismo.

Mentre nei paesi capitalisti le politiche neoliberiste stringevano sempre di più il cappio al collo dei settori popolari, in America Latina si apriva il decennio di vittorie elettorali che consentirà a milioni di persone di uscire dalla povertà estrema, e di mantenere ancora aperta la prospettiva del socialismo.

“Questo è un processo inarrestabile – disse allora il Comandante – così come iniziò quello per l’indipendenza e ci furono 15 anni di guerra, ugualmente ci saranno processi che esploderanno con la forza di un vulcano, e faranno il loro corso, e niente e nessuno potrà fermarli”.

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