Che succede a Cuba?

Alessandra Riccio

Un mese fa i media “main stream”, che solitamente non hanno interesse a far notare che nel Terzo Mondo esiste solo un paese con cinque vaccini in sperimentazione di cui uno già approvato, e neanche a raccontare che nelle Olimpiadi di Tokio il paese dell’America Latina con più medaglie d’oro è stata Cuba (prima del Brasile, dell’Argentina, del Messico, paesi grandi e potenzialmente ricchi), un mese fa –dicevo- l’informazione parlava soprattutto di manifestazioni di piazza, repressioni brutali e di un paese fallito: la Cuba rivoluzionarie e il suo sistema socialista.

Per chi ha a cuore le sorti dell’Isola Ribelle per la sua storia, per la sua resistenza, per la fatica e l’impegno con cui ha inteso e intende costruire una società solidale in un paese sovrano, per la sua politica internazionale, le insolite manifestazioni di piazza potevano ben essere il frutto della stanchezza di un popolo che da troppo tempo vive di sacrifici che sopporta e a cui si sottopone con la convinzione di partecipare a un progetto politico che, dopo più di sessanta anni, vale ancora la pena. Potevano esserlo ma, qualche mese dopo, possiamo dire che così non è stato e che ancora una volta la Rivoluzione e il suo governo hanno trovato il sostegno popolare. Ma come? Si interrogano gli amici di sinistra, e non solo del nostro paese. Se a Cuba non ci sono elezioni, non ci sono partiti, di che sostegno popolare parliamo? La discussione finisce qui, chi ti ha chiesto notizie dell’isola ribelle ti tappa la bocca, la parola democrazia viene pronunciata a lettere cubitali e, al di là di questo assioma, non c’è discussione possibile. Difficile poter discutere partendo da un punto di vista diverso, dal fatto che il nostro sistema politico pluralista e democratico sta dimostrando da tempo di non riuscire più a stare al passo con un mondo globalizzato, neoliberale e capitalista; pur riconoscendo la necessità prioritaria di garantire la sopravvivenza del nostro pianeta, il diritto dei paesi del Terzo Mondo alla sovranità e ad una crescita ragionevole, pur condannando per principio ogni forma di colonizzazione, in realtà tutto questo esiste e continua a funzionare in sistemi capitalistici e neoliberali, cioè nella stragrande maggioranza dei governi del pianeta. Il capitalismo –sotto gli occhi di tutti- è fallito ma non se ne decreta la morte.

In maniera del tutto eccezionale, di quella morte è, invece, convinta l’isola di Cuba, una piccola isola del Mar Caribe abitata da undici milioni di persone, che nel 1959 ha condotto vittoriosamente una guerra per liberarsi dal dittatore Batista e per ottenere una vera sovranità nazionale, scippata nel 1898, alla fine della guerra di indipendenza dalla Spagna, dagli Stati Uniti d’America intervenuti pesantemente sulla neonata Repubblica con qualche anno di Governatorato e con l’ Emendamento Platt, arbitraria autodeterminazione ad intervenire sui casi di Cuba sia interni che esterni.

Mezzo secolo di vita politica sotto il controllo degli Stati Uniti, battaglie sindacali soffocate nel sangue, più di sessanta partiti e partitini in contese elettorali che finivano con gli assembramenti più bizzarri, e una dittatura divenuta sempre più sanguinaria, hanno motivato più di un movimento di opposizione, da quello sindacale e del Partito Socialista al Direttorio Universitario e al Movimento 26 luglio. Fu quest’ultimo, diretto dal giovane avvocato Fidel Castro, a scegliere la lotta armata condotta dalle montagne della Sierra Maestra contro l’esercito, molto numeroso e ben armato, di Fulgencio Batista. Mentre la guerriglia castrista guadagnava terreno sul piano militare, conquistava anche il consenso della popolazione contadina in primis (la sierra) e delle città poi (el llano). Negli anni sessanta, la Rivoluzione cubana ha affascinato mezzo mondo: un gruppo di giovanissimi “barbudos” non si è lasciato abbindolare dalle lusinghe di chi (dentro e fuori dell’isola) avrebbe voluto sostituirli nel controllo politico del paese appena liberato. Fidel Castro, che con appena trentatré anni era il più anziano e il leader riconosciuto, aveva già da tempo reso pubblico il programma politico del suo movimento con la sua autodifesa nel processo che fece seguito al fallito attacco alla caserma Moncada nel 1953: “La storia mi assolverà”. Quel programma sociale si ispirava al patriota e guida delle guerre di indipendenza della fine del secolo diciannovesimo, José Martí, ma si nutriva anche di un socialismo radicale che sarebbe sfociato nella scelta comunista ufficializzata solo a metà degli anni Settanta con il processo di Istituzionalizzazione. La morte del Che in Bolivia nel 1967, il fallimento di una gigantesca raccolta di canna da zucchero che avrebbe potuto liberare Cuba dalle dipendenze economiche, la necessità di tenere a bada le continue minacce di invasione dal rabbioso vicino del Nord, spinsero la giovane Repubblica rivoluzionaria nelle braccia generose, ma esigenti e rigide, dell’Unione Sovietica sul piano interno mentre invece, in politica estera, Cuba, senza chiedere né contare su Mosca, intraprendeva una delle operazioni di solidarietà internazionale più ardite e straordinarie mai viste: l’appoggio militare all’Angola, appena resasi indipendente dal Portogallo e già contesa da brame neocoloniali. Nelson Mandela ha detto al mondo quanto sia stata importante la presenza cubana in Africa per l’indipendenza della Namibia, per la fine dell’apartheid e per la decolonizzazione del territorio. Negli anni ottanta, la Rivoluzione, ormai trentennale, intraprende una riflessione sul proprio assetto e, mentre continua più che mai a restare in guardia contro eventuali aggressioni, dà vita ad un processo di “rettificazione degli errori” ben prima che a Mosca Gorbaciov stupisse il mondo con la sua “glasnost”. Il passaggio dagli anni ottanta ai novanta ha visto due acute crisi di consenso all’interno dell’isola: quella dell’ambasciata del Perù e successivo esodo dal porto del Mariel e la crisi del “balceros” negli anni novanta. Il campo socialista europeo, dopo il crollo del muro di Berlino e la sorprendente fine dell’Unione Sovietica era ridotto in cenere provocando nella sinistra mondiale una crisi ideologica senza paragoni. Quei primi anni novanta io li ho vissuti a Cuba ormai restata sola; ricordo i discorsi di Fidel Castro, l’impegno di non cedere, la fiducia nel sistema socialista, la necessità di resistere, l’annuncio di un “periodo speciale in tempo di pace” che garantiva l’indispensabile alla popolazione, intendendo per indispensabile la salute e l’istruzione oltre al sistema socialista nell’organizzazione statale di previdenza per non lasciare nessuno senza aiuto. E contemporaneamente mettere tutte le forze a disposizione nel perfezionamento delle infrastrutture del settore turistico ormai individuato come l’unica possibilità di incassare moneta viva mentre il blocco economico, commerciale e finanziario restava in tutta la sua crudezza. Buona parte degli anni novanta sono stati segnati dalla penuria e dalle ristrettezze del periodo speciale; chi trovava insopportabile quella vita ha cercato, con ogni mezzo, di lasciare il paese in un’epoca in cui era ancora difficile avere un passaporto ma ancora più difficile continuava ad essere la possibilità di ricevere un visto non solo dagli Stati Uniti (che, secondo gli accordi diplomatici –non rispettati- ne avrebbe dovuto concedere 20.000 all’anno) ma anche dei paesi europei che cominciavano già a temere le “invasioni” di extracomunitari. La visita di Papa Wojtyla nel 1998, la prima di un Papa nell’isola caraibica, per molti avrebbe potuto avere l’effetto devastante che il suo pontificato aveva avuto in Europa per il campo socialista. Così non fu.

Il duemila si è annunciato molto positivo: nel vicino Venezuela il presidente Chávez mette in opera una rivoluzione sui generis e auspica un “socialismo del Terzo millennio”; Cuba non è più sola e può contare sul petrolio venezuelano ricambiando con medici, personale sanitario, alfabetizzatori, tecnici. E’ il “capitale umano” accumulato anche nella durezza del periodo speciale, mantenendo i livelli d’istruzione, le Università, le scuole di specializzazione, le istituzioni culturali. La sponda venezuelana e la visione politica di un giovane rivoluzionario come Hugo Chávez consente a Cuba, dopo anni di solitudine e di inevitabile chiusura sul tema della sopravvivenza, a dare di nuovo fiato all’utopia, al sogno di un’America Grande pensata da Simón Bolívar durante le guerre di Indipendenza e immaginata da José Martí come “Nuestra America”. Questa nuova alleanza con un paese latinoamericano che sta vivendo un’insolita rivoluzione ricca perché benedetta dal prezzo del petrolio, inaugura un’epoca di speranza non solo perché allevia le ristrettezze del Periodo Speciale per il popolo cubano ma soprattutto perché dà vita al progetto di Patria Grande perseguito e sognato da molti intelletti nostramericani. E per di più, in quei primi anni del nuovo secolo e nuovo millennio, nei paesi dell’America Latina oltre alla rivoluzionaria presidenza di Hugo Chávez in Venezuela, vengono eletti al seggio presidenziale uomini politici del calibro di Inacio Lula da Silva in Brasile, Néstor Kirchner in Argentina e Tabaré Vázquez e Pepe Mujica in Uruguay mentre in pool position scalpitano Evo Morales per la Bolivia e Rafael Correra per l’Ecuador. A giudicare dai programmi e dalle dichiarazioni di questi leaders politici, Cuba non è più sola.

Se ne ha la prova nel 2005 a Mar del Plata, durante il IV Vertice delle Americhe, il gigantesco incontro di tutti gli Stati Americani convocato dall’OEA, con la partecipazione di numerosissimi presidenti e con un solo paese escluso: la Cuba rivoluzionaria di Fidel Castro. Il discorso inaugurale tocca all’ospite, il presidente argentino Kirchner che parla chiaro e forte, rivendicando la parità dei paesi rappresentati e l’urgenza di lavorare per l’equità e il rispetto. Accolto assai poco calorosamente sul territorio da una contromanifestazione, la III Cumbre de los Pueblos, il Presidente Bush lascia al rappresentante del Canada il compito di sviare l’ordine del giorno dell’agenda concordata per portare la discussione sulla creazione di un’Area di Libero Commercio Americana (ALCA) temuta e invisa ai paesi progressisti della regione. Washington vorrebbe imporla ma si trova di fronte un muro di ostilità; Bush abbandona il campo, l’ordine del giorno voluto da Stati Uniti, Canadà, Messico ecc. non passa perché “ancora non sono date le condizioni necessarie per un accordo equilibrato ed equitativo fra i paesi”. L’ALCA viene seppellita a Mar del Plata accompagnata dalla simbolica marcia della contromanifestazione guidata dalle Madri della Plaza de Mayo, da Diego Armando Maradona, dal cantautore cubano Silvio Rodríguez e da Manu Chao, dal Premio Nobel Pérez Esquivel e dal sindacalista aymara Evo Morales, candidato alla presidenza della Bolivia. Una rappresentatività molto illustrativa di un’America giusta, egualitaria, intelligente e creativa, all’altezza dei tempi.

Perché sostengo che quella data dimostra che Cuba non è più sola? Perché dalla sua isola lontana, Fidel Castro è una delle menti politiche che hanno disegnato la strategia di Mar del Plata che oggi possiamo interpretare come uno dei fallimenti più eclatanti della politica statunitense verso il “cortile di casa”. Appena un anno dopo, nel 2006, Fidel, insieme a Chávez, è in Argentina, a Córdoba dove è pronta una folla immensa per ascoltare le voci dei due leader rivoluzionari che non dimenticano di far visita alla casa di Altagracia dove il Che bambino aveva curato la sua asma. Visita di grande importanza simbolica per l’America Latina di due capi di Stato che gli Stati Uniti ritengono costituire uno straordinario pericolo per la loro sicurezza nazionale.

Anche all’interno Cuba si è lasciata alle spalle, poco a poco, il Periodo Speciale con le sue ristrettezze. Poco a poco ha ripreso il flusso turistico, ha aperto spazi che consentono ai suoi cittadini di lavorare all’estero, di viaggiare, di andare e tornare dal proprio paese, di dar vita ad iniziative private nel settore della ristorazione e dell’ospitalità; progredisce nel campo della salute e della ricerca scientifica senza abbandonare la solidarietà delle brigate mediche in giro per decine di paesi del mondo mentre una nuova iniziativa consente a giovani di tutto il (Terzo) Mondo di studiare medicina gratis a Cuba. L’Università Latinoamericana di Medicina è una delle novità più generose del Terzo Millennio: forma personale medico di ogni parte del mondo a titolo gratuito. E’ una delle ultime iniziative di Fidel Castro che, purtroppo, si ammala gravemente nel 2007 lasciando gradualmente i suoi incarichi al fratello Raúl, l’uomo che è stato sempre al suo fianco fin dai tempi dell’assalto alla Caserma Moncada nel 1953.

La seconda decade del Terzo Millennio, senza più Fidel Castro al comando, vede un’offensiva di nuovo genere contro i paesi latinoamericani disobbedienti al Washington Consensus. Con ogni genere di accuse, di acrobazie legali, di frodi elettorali, di tradimenti interni, cadono Cristina Kirchner, Dilma Roussef e Lula fatti bersaglio da giudici infedeli; il successore di Correa, Lenin Moreno designato dallo stesso partito, tradisce clamorosamente gli ideali della Revolución Ciudadana; Evo Morales, minacciato di morte, rinuncia alla carica dopo un colpo di stato della destra boliviana; Pepe Mujica, in Uruguay, si ritira nel suo orto mentre, morto Hugo Chávez di un cancro fulminante nel 2013, il Venezuela resiste sotto la guida di Nicolás Maduro alla grottesca autoproclamazione a Presidente del deputato Juan Guaidó e alle sanzioni, embargo e blocchi da parte dei Presidenti degli Stati Uniti da Barak Obama a Biden (e anche di ingiustificate sanzioni europee). Durante il suo secondo mandato, Obama, con un certo cinismo, sostiene di aver capito che non è con le sanzioni che si piega la resistenza cubana; riapre l’ambasciata, si reca in visita all’Avana e dà vita a un grande show smentito poco tempo dopo da Donald Trum che richiude l’ambasciata e rinforza il blocco, curando che i paesi terzi debbano –volenti o nolenti- obbedire al dictat statunitense. Frattanto nuovi alberghi, aeroporti, istallazioni turistiche erano pronti a ricevere i cittadini americani ai quali, prima di Obama, era vietato viaggiare nell’isola nemica; la bella capitale, La Habana, veniva tirata a lucido per festeggiare i cinquecento anni dalla sua fondazione.

Nel 2018, come previsto, anche Raúl Castro lascia la guida della nazione. Al suo posto è designato il vice-presidente Miguel Díaz-Canel, nato nel 1960, un anno dopo la vittoria rivoluzionaria, dunque rappresentante a pieno titolo della nuova generazione come lo è Bruno Rodríguez, lo sperimentato Ministro degli Esteri, che è nato nel 1958, e molto altro personale politico del paese.

Nel 2020 arriva nel mondo intero l’epidemia di Covid con tutte le sue sequele. E’ una pandemia e non risparmia nessun paese. L’isola di Cuba è ben allenata a difendersi dalle epidemia e il suo sistema di salute gode anche di una eccellente sperimentazione scientifica che consente di cominciare il ciclo di vaccinazioni prodotti in situ. Ma intanto si sono dovuti chiudere gli aeroporti, i grandi alberghi sono restati vuoti, nuovamente bisogna affrontare stati di emergenza che colpiscono la popolazione e nutrono il malcontento generale. Lentezze burocratiche, una lunga e generale consultazione popolare per le necessarie modifiche costituzionali in grado di mantenere il paese al passo con i tempi, episodi di accaparramento e sperimentazioni monetarie che generano ulteriore confusione, favoriscono le proteste, lo scontento, la discussione. Qualche centinaio di artisti si fanno protagonisti di una manifestazione davanti al Ministero della Cultura: esigono di parlare tutti insieme con il Ministro, non accettano di discutere con il suo vice. I più intransigenti sono gli artisti del Movimento San Isidro che hanno già dato vita a curiosi happening avvolti nella bandiera a stelle e strisce, hanno proclamato falsi scioperi della fame, non nascondono di ricevere finanziamenti dalla NED (Fondazione Nazionale per la Democrazia), dall’USAID e da altre affiliate della CIA.

In questo clima, l’11 giugno 2021, contemporaneamente in varie città dell’isola, alcune centinaia di manifestanti inscenano violente manifestazioni contro la polizia, sfasciano vetrine e lanciano pietre. Pur non essendoci brigate antidisturbo paragonabili a quelle di altri paesi dell’America Latina o alle nostre, polizia e forze armate possono controllare facilmente i disordini . Il paese subisce uno choc non tanto per l’entità dei disordini quanto per l’incertezza derivante dalla situazione: crisi sanitaria, crisi economica, il nuovo presidente Biden non solo non attenua le restrizioni di Trump ma sostiene che quello sia un paese fallito e offre perfino, insolentemente, di mandare dei vaccini purché siano distribuiti e amministrati da un’organizzazione diretta dagli USA. La reazione popolare e del Governo è stata rapida e confortante: la rivoluzione è ancora un patrimonio da difendere e i suoi valori sono preziosi; la resistenza di Cuba è un esempio per una gran parte del mondo e dimostra di sapere e volere mantenere il ruolo politico che l’ha resa grande con i suoi nuovi dirigenti, con i suoi cittadini più giovani, con i suoi emigrati non tutti controrivoluzionari. La rivoluzione digitale che è arrivata anche a Cuba, è servita per dar vita ad una nuova forma di guerra fatta di false notizie, disinformazione, mezze verità, una guerra ordita e pagata dal nemico si sempre; il Ministro degli Esteri Bruno Rodríguez ha reso pubblica questa denuncia il 13 agosto scorso: “Il Governo degli Stati Uniti finanzia laboratori scientifici, attrezzati con alta tecnologia, per gestire la frammentazione sociale a Cuba. Attraverso la bugia, la disinformazione, la decontestualizzazione, l’iperbole e l’esagerazione dei nostri problemi, la tossicità, l’odio e la divisione, questi laboratori cercano inutilmente di annientare il consenso sociale della Rivoluzione Cubana, del socialismo cubano e di approfittare, come un miraggio, delle nuove forme di partecipazione specialmente giovanile che emergono in tutto il mondo e anche a Cuba. Questi piani, nel nostro caso, si infrangono e si infrangeranno contro la profonda convinzione rivoluzionaria, patriottica e socialista della gioventù cubana.” E ha anche rivolto un appello che le sinistre del mondo dovrebbero raccogliere invece di lasciarsi intorpidire da perplessità e distinguo: “Urge l’incorporazione attiva a questa battaglia politico-istituzionale dei movimenti sociali, delle forze di sinistra, dell’intellettualità progressista, degli amici di Cuba, dei cubani residenti all’estero, come parte dell’articolazione politica e mediatica contro egemonica a cui continua a convocarci ancora oggi Fidel”.

Cuba è l’unico paese al mondo al quale viene inflitto un blocco economico, finanziario e commerciale da sessanta anni. Le ragioni sono state, a cominciare dagli anni 60 le nazionalizzazioni, poi l’alleanza con l’Unione Sovietica, quindi l’aiuto ai movimenti di lotta armata, in seguito il partito unico, ed infine il rispetto dei diritti umani, diritti intesi secondo convenienza. Forse la vera, profonda ragione per questa persecuzione è la possibilità di dimostrare che un altro mondo è possibile.

(“Cumpanis”, 20 agosto 2021)

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