È possibile la normalizzazione delle relazioni tra Cuba e gli USA?

Cuba è sempre stata disposta, nonostante il passato e proprio per questo, al dialogo aperto per risolvere le questioni in sospeso, tutte, con il governo USA, sulla base dell’uguaglianza, del rispetto reciproco e nel quadro del Diritto Internazionale e della Carta delle Nazioni Unite

Jorge Casals Llano  www.granma.cu

Sebbene il titolo sembri essere solo una domanda retorica, la verità è che è stata la più ripetuta – e non solo a Cuba – sempre che, non importa dove né da chi, si affronti il tema delle relazioni Cuba-USA, che in realtà è  quello delle relazioni tra Cuba ed il governo (i governi) USA, che è più rigoroso, poiché distingue Cuba per ciò che è, una, ed esclude il popolo USA dal conflitto storico.

Certo, almeno dal 2015, quando, con Obama, è diventata di moda la “normalizzazione delle relazioni”, la risposta è sempre dipesa da cosa – ciascuna o ogni parte – intendesse per “normalizzazione”. E come i dizionari ci dicono che «normalizzare è sottomettere alla norma, mettere in ordine, rendere normale una cosa…», siccome si riferiscono alla norma bisogna tornare ancora ad essi per precisare cosa é: “principio che s’impone o si adotta’ e dirige la condotta. Quindi, la normalizzazione è possibile solo a partire dalla norma (che ciascuno, o ogni parte accetta), del principio adottato come guida della condotta e del corretto sviluppo. Così, se la norma che regola la condotta delle parti è diversa o, peggio ancora, se una delle parti adotta come norma regole inaccettabili per l’altra, si evidenzia che non si può parlare, in alcun caso, di normalizzazione delle relazioni tra di loro.

E la norma che mostra la storia delle relazioni tra Cuba e gli USA, da molto prima che Cuba fosse indipendente, può rintracciarsi nelle ambizioni di quella che sarebbe stata una nazione imperiale e nelle azioni che avrebbe intrapreso. E così facendo si può vedere che in data tanto remota, nell’aprile 1812, in un rapporto indirizzato al viceré da Luis de Onís, allora ministro plenipotenziario spagnolo a Washington, sull’espansione territoriale USA si legge: “Ogni giorno si stanno sviluppando sempre più le idee ambiziose di questa Repubblica e confermandosi le sue mire ostili contro la Spagna …, questo governo non si è proposto altro che fissare i suoi limiti alla foce del rio Norte o Bravo, seguendo il suo corso fino al grado 31 e, da lì, tirando una linea retta sino al Mar Pacifico, prendendosi di conseguenza le province del Texas, Nuevo Santander, Coahuila, New Mexico e parte della Provincia di Nueva Vizcaya e Sonora. Questo progetto sembrerà un delirio per qualsiasi persona di buon senso, ma non è meno certo che il progetto esiste, e che per queste province è stato espressamente redatto un piano per ordine del governo, includendo, anche, in detti limiti l’isola di Cuba come una pertinenza naturale di questa Repubblica». (Fine citazione)

Poi sarebbero venuti, nel 1823, John Quincy Adams e la Politica della frutta matura; nello stesso anno la Dottrina Monroe, “L’America per gli americani” e, seguendo la stessa logica, i successivi governi fecero di tutto per impedire l’indipendenza di Cuba dalla Spagna finché, ritenendosi abbastanza potenti, “inspiegabilmente” (la storia mostra altri eventi e in altre parti del mondo “inspiegabili” e convenientemente usati) si produsse l’esplosione del Maine come giustificazione per l’intervento nella nostra guerra di indipendenza e, con esso, la possibilità di impadronirsi di Cuba. Poi ci furono altri interventi militari che lasciarono la base navale di Guantanamo e la possibilità di convertire Cuba nella prima enclave neocoloniale… e altri e lo stesso governo che promossero e sostennero le dittature di Machado e Batista, si opposero, prima ancora del trionfo del 1959, alla Rivoluzione che sarebbe iniziata nel Moncada e, da allora fino ad oggi, si proposero distruggerla.

Comprendendo il problema della normalizzazione e senza parlare oltre della normalità che non è mai stata, è necessario valutare le relazioni stesse e persino se sono convenienti per le parti. La prima idea che sorge, anche indotta dalla storia, è proprio quella di apprezzare l’adesione alle norme, considerando ora le relazioni internazionali, per cercare di esaminare gli scenari possibili.

Va oltre gli obiettivi di questo articolo anche enumerare la lunga strada percorsa dall’umanità per raggiungere l’attuale sistema internazionale, che formalmente si basa su norme che riconoscono principi come l’uguaglianza degli Stati, la non ingerenza nei loro affari interni, la soluzione pacifica dei conflitti tra loro e del rapporto fondato sull’istituzionalità basata sul Diritto Internazionale; né ci sarebbe spazio sufficiente per delineare i difetti del sistema stesso.

Ma si scopre che neppure per gli USA funziona più un sistema che, secondo il suo segretario di Stato, Blinken,     nel suo discorso ‘Una politica estera per il popolo statunitense’, non è capace di “salvare il mondo dall’autoritarismo” né di “far fronte alla sfida geopolitica posta dalla Cina”. Neppure sembra servire il sistema ai partecipanti alle recenti riunioni del G7, della NATO, del Consiglio e della Commissione Europea in cui il presidente Biden ha fatto riferimento alla necessità di un “ordine mondiale basato su regole”, e perfino nella nuova Carta Atlantica, recentemente firmata, anche si parla di regole…, benché queste non siano né quelle del Diritto Internazionale né quelle della Carta delle Nazioni Unite, né possano spiegare che persino le regole precedenti, e le politiche fallimentari da esse derivate, sono state quelle che hanno prodotto disastri come quelli di Iraq, Libia, Siria e Afghanistan, solo per citare i più recenti.

Non si può non considerare, quando si tratta di relazioni, il trito tema della priorità, o più esattamente, della presunta “non priorità” di Cuba per gli USA. La risposta risulta evidente ricordando l’accanimento con cui, dal 1959, tutti i presidenti USA (sei democratici e sette repubblicani) hanno agito contro Cuba; anche il blocco con le sue miliardarie perdite economiche e sofferenze per i cubani, sebbene implichi il ripudio del mondo all’ONU della politica genocida; l’invasione di Playa Girón con il suo clamoroso fallimento e il ridicolo degli invasori; le centinaia di azioni terroristiche, compreso il crimine dell’aereo delle Barbados, e le migliaia di morti e disabili risultanti da tutte quelle azioni…, e le leggi Torricelli e Helms-Burton, l’ultima delle quali con la manifesta intenzione di convertire Cuba in una colonia yankee, e rifiutata praticamente dall’intera comunità internazionale, inclusi gli stessi soci degli USA, e persino le 243 misure coercitive genocide di Trump e il loro mantenimento da parte di Biden.

Risulterebbe quantomeno ingenuo supporre che tanto interesse da parte di 13 presidenti USA (e anche di quelli che li hanno preceduti dal 1812), compreso quello attuale con il suo repentino ed eccessivo interesse per il benessere del popolo cubano, solo si relazioni alla strategia territoriale e non alla geostrategia dell’impero?

L’analisi esige di non sopravvalutare – perché mancherebbe persino di rispetto all’establishment USA e al suo “potere simbolico” basato sulla mitica storia dell’eccezionalità e del “destino manifesto” – l’incidenza in esse di politicanti che si fanno chiamare cubani solo perché serve bene ai loro affari, e influencer che devono la loro “influenza” ai soldi stanziati nel bilancio USA per la sovversione dell’ordine a Cuba e alla loro capacità di decidere la politica estera della potente nazione del nord nei confronti di Cuba.

Tutto quanto sopra significa che non sia possibile che ci siano relazioni reciprocamente vantaggiose tra Cuba e gli USA? Che rimarranno gli eterni reclami a Cuba degli USA, dei suoi servi e vassalli, sulla democrazia, libertà e diritti umani, quando negli USA queste istituzioni si sgretolano mentre, a Cuba, il rispetto di esse si rafforza?

Indubbiamente, una convivenza civile e rispettosa, in cui l’azione di nessuna delle parti risulti controproducente per gli obiettivi comuni, è vantaggiosa per entrambe le nazioni ed è ciò che Cuba ha sempre cercato di essere conseguente alla dichiarazione martiana che ci guida: «Cuba non va mendicando per il mondo, cammina come una sorella, e agisce con tale autorità. Salvando se stessa, salva”, che ha fatto sì che ci rispettiamo come popolo e ci siamo guadagnati il ​​rispetto degli altri. Per questo tutti sanno, amici e no, che nessun paese può rivolgersi alla piccola isola con un linguaggio intimidatorio: il rispetto impone dialogo tra pari per affrontare questioni comuni.

E se quanto detto è vero, non è men vero che Cuba sa che non può dipendere da un partner poco affidabile, restio ad ammettere che con il suo governo (di Cuba) solo si possono risolvere i temi in sospeso sulla base della negoziazione e cooperazione, e che insiste nel presumere che pressioni, ricatti e sanzioni possano piegarla. Cuba è anche consapevole degli accelerati cambiamenti che si sono prodotti e continuano a verificarsi in questo XXI secolo nella geoeconomia, geopolitica e governance globale, che rendono sempre più possibile prendere le distanze dai meccanismi in cui gli USA mantengono ancora la loro egemonia.

Cuba è sempre stata disposta, nonostante il passato e proprio per questo, al dialogo aperto per risolvere le questioni in sospeso, tutte, con il governo USA, sulla base dell’uguaglianza, del rispetto reciproco e nel quadro del Diritto Internazionale e della Carta delle Nazioni Unite; lo è anche stata nel cooperare in tutti gli ambiti, a partire da quello scientifico ed accademico ed, in particolare, nella biotecnologia e medicina, includendo quelli religiosi, culturali e degli affari in generale. Tutto questo è ben noto alle potenziali controparti USA  e conosciuto dai nostri amici che, negli USA, sono molti; la cui élite, nel frattempo, non si è ancora ritrovata dopo il clamoroso fallimento della globalizzazione neoliberale, la crescente accettazione del socialismo da parte della sua gioventù e persino dall’élite intellettuale occidentale, e il recentemente apparso “capitalismo delle parti interessate” impossibile da conciliare.


¿Es posible la normalización de las relaciones entre Cuba y EE. UU.?

Cuba siempre ha estado dispuesta, a pesar del pasado y precisamente por él, al diálogo abierto para resolver los asuntos pendientes, todos, con el Gobierno de EE. UU., sobre la base de la igualdad, el respeto mutuo y en los marcos del Derecho Internacional y la Carta de las Naciones Unidas

Autor: Jorge Casals Llano

Aunque el título pareciera ser solo una pregunta retórica, lo cierto es que ha sido la más reiterada –y no solo en Cuba– siempre que, sin importar dónde ni por quiénes, se aborde el tema de las relaciones Cuba-EE. UU., que en realidad es el de las relaciones entre Cuba y el (los) gobierno(s) de EE. UU., lo que es más riguroso, pues distingue a Cuba como lo que es, una, y excluye al pueblo de EE. UU.  del conflicto histórico.

Por supuesto que, al menos desde 2015, cuando con Obama se puso de moda lo de la «normalización de las relaciones», la respuesta siempre debió depender de qué –cada cual, o cada parte– entendiera por «normalización». Y como los diccionarios nos indican que «normalizar es someter a la norma, poner en orden, hacer que una cosa sea normal…», como se refieren a la norma tenemos que volver otra vez a ellos para precisar que es: «principio que se impone o se adopta» y dirige la conducta. Así pues, la normalización solo es posible a partir de la norma (que cada cual, o cada parte acepta), del principio adoptado como rector de la conducta y del correcto desarrollo. Así pues, si la norma que dirige la conducta de las partes es diferente o, peor aún, si una de las partes adopta como norma reglas inaceptables para la otra, se hace evidente que no puede hablarse, en ningún caso, de normalización de las relaciones entre ellas.

Y la norma que muestra la historia de las relaciones entre Cuba y EE. UU., desde mucho antes de que Cuba fuera independiente, puede rastrearse en las ambiciones de la que sería nación imperial y las acciones que adoptaría. Y al hacerlo,  puede verse que en fecha tan temprana como abril de 1812, en un informe dirigido al virrey por Luis de Onís, entonces ministro plenipotenciario de España en Washington, acerca de la expansión territorial de EE. UU. se lee: «Cada día se van desarrollando más y más las ideas ambiciosas de esta República y confirmándose sus miras hostiles contra España…, este gobierno no se ha propuesto nada menos que el de fijar sus límites en la embocadura del río Norte o Bravo, siguiendo su curso hasta el grado 31 y desde allí tirando una línea recta hasta el Mar Pacífico, tomándose por consiguiente las provincias de Texas, Nuevo Santander, Coahuila, Nuevo México y parte de la Provincia de Nueva Vizcaya y la Sonora. Parecerá un delirio este proyecto para toda persona sensata, pero no es menos seguro que el proyecto existe, y que se ha levantado un plan expresamente de estas provincias por orden del gobierno, incluyendo también en dichos límites la isla de Cuba como una pertenencia natural de esta República».  (Fin de la  cita)

Luego vendrían, en 1823, John Quincy Adams y la Política de la fruta madura; en el mismo año la Doctrina Monroe, «América para los americanos» y, siguiendo la misma lógica, los sucesivos gobiernos hicieron todo lo posible para impedir la independencia de Cuba de España hasta que, al considerarse suficientemente poderosos, «inexplicablemente» (la historia muestra otros sucesos y en otras partes del mundo «inexplicables» y convenientemente utilizados) se produjera la voladura del Maine como justificación de la intervención en nuestra guerra de independencia, y con ella la posibilidad de adueñarse de Cuba. Luego hubo más intervenciones militares que dejaron la base naval en Guantánamo y la posibilidad de convertir a Cuba en el primer enclave neocolonial…, y otros y el mismo gobierno que promovieron y apoyaron las dictaduras de Machado y Batista, se opusieron, aún antes del triunfo de 1959, a la Revolución que se iniciara en el Moncada y, desde entonces y hasta hoy, se propusieron destruirla.

Comprendido el problema de la normalización y sin hablar más de la normalidad que nunca ha sido, toca valorar las relaciones mismas y hasta si resultan estas convenientes para las partes. La primera idea que surge, también inducida por la historia, es justipreciar el apego a las normas, ahora considerando las relaciones internacionales, para tratar de avizorar los escenarios posibles.

Sobrepasa los objetivos de este artículo siquiera enumerar el largo camino recorrido por la humanidad hasta alcanzar el actual sistema internacional, que formalmente está basado en normas en las que se reconocen principios como la igualdad de los Estados, la no injerencia en sus asuntos internos, la solución pacífica de los conflictos entre ellos  y el relacionamiento a partir de la institucionalidad basada en el Derecho Internacional; tampoco alcanzaría el espacio para reseñar las falencias del  sistema mismo.

Pero resulta que ni para EE. UU. funciona ya un sistema que, según su secretario de Estado, Blinken, en su discurso Una política exterior para el pueblo estadounidense, no es capaz de «salvar al mundo del autoritarismo» ni de «hacer frente al reto geopolítico que significa China». Tampoco parece servir el sistema a los participantes en las recientes reuniones del g7, la otan, el Consejo y la Comisión Europea en las que el presidente Biden se refiriera a la necesidad de un «orden mundial basado en reglas», y hasta que en la nueva Carta Atlántica, recientemente firmada, también se hable de reglas…, aunque estas no sean ni las del Derecho Internacional ni las de la Carta de la onu ni puedan explicar que incluso las anteriores reglas, y las políticas fallidas derivadas de ellas, fueran las que produjeran desastres como los de Irak, Libia, Siria y Afganistán, solo por citar los más recientes.

No puede dejarse de considerar, si de relaciones se trata, el manido tema de la prioridad, o más exactamente, de la supuesta «no prioridad» de Cuba para EE. UU. La respuesta se hace evidente al rememorar la saña con la que, desde 1959, todos los presidentes norteamericanos (seis demócratas y siete republicanos) han actuado contra Cuba; también el bloqueo con sus billonarias pérdidas económicas y sufrimiento para los cubanos, aunque implique el repudio del mundo en la onu a la política genocida; la invasión por Playa Girón con su estrepitoso fracaso y el ridículo de los invasores; los cientos de acciones terroristas, incluido el crimen del avión de Barbados, y los miles de muertos y de discapacitados resultado de todas esas acciones…, y las leyes Torricelli y Helms-Burton, la última de ellas con la manifiesta intención de convertir a Cuba en una colonia yanqui, y rechazada por prácticamente toda la comunidad internacional, incluyendo a los propios socios de EE. UU., y hasta las 243 medidas coercitivas genocidas de Trump y su mantenimiento por Biden.

¿No resultaría al menos ingenuo suponer que tanto interés de 13 presidentes norteamericanos (y también de los que les antecedieron desde 1812) incluyendo al actual con su repentino y desmedido interés por el bienestar del pueblo cubano, solo se relaciona con la estrategia territorial y no con la geoestrategia del imperio?

El análisis exige no sobrestimar –porque hasta irrespetaría al establishment norteamericano y su «poder simbólico» basado en la mítica historia del excepcionalismo y del «destino manifiesto»– la incidencia en ellas de politiqueros que se hacen llamar cubanos solo porque sirve bien a sus negocios, e influencers que deben su «influencia» a los dineros que se destinan en el presupuesto de EE. UU. a la subversión del orden en Cuba y su capacidad para decidir la política exterior de la poderosa nación del norte respecto a Cuba.

¿Significa todo lo anterior que no es posible que entre Cuba y EE. UU. existan relaciones mutuamente ventajosas? ¿Que se mantendrán los sempiternos reclamos a Cuba por EE. UU., sus siervos y vasallos, sobre democracia, libertad y derechos humanos, cuando en EE. UU. se resquebrajan esas instituciones mientras que en Cuba el respeto a ellas se fortalece?

Sin duda, una convivencia civilizada y respetuosa, en la que la acción de ninguna de las partes resulte contraproducente con los objetivos comunes, es beneficiosa para ambas naciones y es lo que desde siempre Cuba ha procurado por ser consecuente con la declaración martiana que nos guía: «Cuba no anda de pedigüeña por el mundo, anda de hermana, y obra con la autoridad de tal. Al salvarse, salva», que ha hecho que nos respetemos como pueblo y nos hayamos ganado el respeto de los demás. Es por ello que todos saben, amigos y los que no lo son, que ningún país puede dirigirse a la pequeña Isla en lenguaje intimidatorio: el respeto impone el diálogo entre iguales para tratar los asuntos comunes.

Y si lo anterior es cierto, no lo es menos que Cuba sabe que no puede depender de un partner poco confiable que se resiste a admitir que con su gobierno solo se pueden solucionar los asuntos pendientes sobre la base de la negociación y la cooperación, y que insiste en suponer que presiones, chantajes y sanciones pueden doblegarla. También Cuba sabe de los acelerados cambios que se han producido y siguen produciéndose en este siglo XXI en la geoeconomía, la geopolítica y la gobernanza global, que hacen cada vez más posible su distanciamiento de los mecanismos en los que aún EE. UU. mantiene su hegemonía.

Cuba siempre ha estado dispuesta, a pesar del pasado y precisamente por él, al diálogo abierto para resolver los asuntos pendientes, todos, con el Gobierno de EE. UU., sobre la base de la igualdad, el respeto mutuo y en los marcos del Derecho Internacional y la Carta de las Naciones Unidas; también lo ha estado a cooperar en todos los ámbitos, comenzando por el científico y académico y, en particular, en el de la biotecnología y la medicina, e incluyendo los religiosos y culturales y el de los negocios en general. Todo ello es bien conocido por las potenciales contrapartes norteamericanas y sabido por nuestros amigos, que son muchos en EE. UU., cuya élite, mientras tanto, no se acaba de encontrar luego del rotundo fracaso de la globalización neoliberal, la cada vez mayor aceptación del socialismo por su juventud y hasta por la élite intelectual occidental,  y el recientemente aparecido «capitalismo de las partes interesadas» imposible de conciliar.

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