Vertice Celac, la riscossa del continente riparte dal Messico

Geraldina Colotti

Il Messico è in questo momento al centro del progetto di rilancio dell’integrazione regionale. Proprio oggi, 18 settembre, si riunisce lì la Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi (Celac). Al momento della sua fondazione nel 2011, l’organismo era composto da 33 paesi nelle Americhe ad eccezione degli Stati Uniti e del Canada. Il più grande blocco regionale, che comprende oltre l’8,5% della popolazione mondiale e rappresenta circa il 7,5% del PIL mondiale. Numeri colpiti dall’abbandono, lo scorso anno, del Brasile di Bolsonaro, la più importante economia della regione dopo il Messico.

Senza paura del ridicolo, il governo brasiliano ha accusato la Celac di essere diventata “un palcoscenico per governi autoritari come Venezuela, Cuba e Nicaragua”. Per impulso di Fidel Castro e Hugo Chávez, la Celac è entrata in vigore dieci anni fa a partire dal Vertice di Caracas, con l’obiettivo di promuovere il dialogo e il processo di integrazione negli ambiti politico, sociale ed economico finalizzato allo sviluppo dei paesi membri.

Obiettivi che si propone di rilanciare ora che la presidenza pro tempore tocca il Messico, tornato a sinistra con il governo Obrador. Importante anche la presenza dell’Argentina che, nonostante il “voto castigo” alle elezioni di medio-termine e il timbro moderato del suo governo, sta facendo la sua parte, e pone con decisione il tema del debito e dello strozzinaggio delle grandi istituzioni internazionali.

All’incontro dello scorso luglio, Obrador ha detto: “Dobbiamo costruire qualcosa di simile all’Unione europea”, ma proporzionato al contesto, alla storia e alla realtà della regione. Al centro del vertice Celac, la ripresa dell’economia, fortemente colpita dalla pandemia, e l’indipendenza dall’estero per la produzione di vaccini. Sul tavolo c’è anche la proposta di lasciare l’Organizzazione degli Stati americani, subordinata agli obiettivi egemonici degli Stati Uniti sulla regione e con ragione definita a suo tempo da Fidel Castro “ministero delle colonie”.

Un dibattito spinoso, considerando la presenza di paesi vassalli degli Stati Uniti come la Colombia che, come altri governi neoliberisti, contribuisce all’altissimo livello di disuguaglianza nel continente, ancora più sfacciato con l’arricchimento di pochi durante la pandemia. Secondo il calcolo del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, nel 2021 il numero di miliardari in America Latina è passato da 76 a 107 e la loro fortuna totale è passata da 284 miliardi di dollari a 480 miliardi. Come dire che il numero dei super ricchi è aumentato del 41% e la loro ricchezza è salita al 69%. Nel 2014, la forza trainante dei governi di sinistra nella regione aveva messo a tacere gli obiettivi dei difensori dell’economia di guerra e, al vertice dell’Avana di quell’anno, la Celac era stata dichiarata “zona di pace” e libera da armi nucleari.

Un proposito opposto a quello dell’Unione Europea, i cui paesi hanno continuato ad aumentare il budget per le spese militari all’interno della NATO, come volevano gli Stati Uniti. Cifre clamorosamente esibite anche in tempo di pandemia, a fronte di una carenza di strutture sanitarie, dimezzate in dieci anni di privatizzazioni. Nei 27 Paesi dell’Ue la spesa militare si aggira intorno ai 185 miliardi di dollari l’anno rispetto ai 778 miliardi di dollari degli USA. Secondo un rapporto dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), durante la pandemia la spesa militare nel pianeta ha continuato a crescere (+2,6), mentre il PIL mondiale è sceso del 4,4%. Si è trattato del più grande aumento annuale dalla crisi “finanziaria” del 2008-2009.

L’anno scorso, 12 paesi della NATO hanno speso almeno il 2% del loro PIL per le loro forze armate, l’obiettivo fissato dall’organizzazione, rispetto ai nove del 2019. Una singola fregata di classe FREMM costa 936 milioni di dollari: pari allo stipendio medio annuo di 10.662 medici in un paese OCSE. Queste navi da guerra sono in servizio in Italia e Francia, ma gli Stati Uniti stanno negoziando il loro acquisto per un importo equivalente a più di un miliardo di dollari. Il nuovo serbatoio Leopard 2, made in Germany, costa undici milioni di dollari, fino a 440 sistemi di ventilazione polmonare. Una singola cartuccia vale 3.200 dollari, come 90 test per il Covid. Come ha fatto notare Greenpeace, il budget annuale per le armi nucleari, a livello mondiale, è dieci volte maggiore della somma dei budget dell’ONU e dell’OMS.

Mentre il Covid ha messo in luce l’inefficacia del modello capitalista, l’idea di “sicurezza” continua ad essere imposta dal complesso militare-industriale. E così ora la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato la nascita dell’esercito europeo. Una “forza di spedizione” che permetterebbe all’Ue di intervenire nei teatri di guerra avendo a disposizione circa 5.000 soldati agli ordini di un comando generale a Bruxelles: ma “in sintonia” con la Nato, con cui se ne parlerà il prossimo anno, durante la presidenza francese.

La Francia, potenza nucleare, ha infatti difficoltà a mettere in comune i suoi arsenali e aspira a comandare il nuovo esercito. Ovviamente, un progetto del genere richiede un aumento della spesa, soprattutto nei settori della “guerra cibernetica” e dell’economia spaziale, un business da un trilione di dollari entro il 2029. E, intanto, le cose si stanno complicando per l’avvio della Nato del Pacifico tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia.

Alla Celac, l’asse dei paesi socialisti vuole continuare a imprimere un corso diverso. In Messico, è arrivato anche il presidente venezuelano Nicolas Maduro. È il primo viaggio ufficiale da quando, nel marzo del 2020, il Dipartimento di Giustizia nordamericano si era spinto fino a mettere una taglia di 15 milioni di dollari sulla sua testa e su quella di altri dirigenti chavisti: con l’accusa di “narco-terrorismo, traffico di droga e possesso di armi”.

Il Messico è anche sede dei negoziati tra il governo bolivariano e l’opposizione golpista, capitanata dall’autoproclamato Juan Guaidó. Per far pesare i loro interessi sul processo di dialogo, che ha gettato buone basi, il presidente colombiano Ivan Duque e Guaidó, sostenuti dai falchi del Pentagono, cercano di trattenere i beni del popolo venezuelano che si trovano all’estero, e che tengono sequestrati, con la complicità degli Stati Uniti e dei governi che li hanno seguiti nell’imporre misure coercitive unilaterali illegali. Si tratta di un punto irrinunciabile, tra quelli messi sul tavolo dal governo bolivariano. La linea espressa dal ricercato Julio Borges e da Guaidó è invece quella di consegnare il bottino a quelle che considerano autorità neutrali, come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale.

Per questo, Duque tenta di confiscare fraudolentemente l’impresa venezuelana Monómeros, che si trova a Barranquilla e che produce e commercializza diversi prodotti petrolchimici, compresi i fertilizzanti. Secondo Guaidó, Duque ha incamerato Monómeros “per difendere gli interessi del popolo venezuelano”, di cui si è detto “un grande alleato”. I beni venezuelani – ha aggiunto l’autoproclamato – “dal 2019 sono e continueranno ad essere protetti affinché la dittatura non continui a depredarli”. Il governo bolivariano ha denunciato pubblicamente la manovra e la magistratura venezuelana ha aperto un altro procedimento contro Guaidó per furto aggravato di beni pubblici e alto tradimento.

In Messico è arrivato anche il presidente peruviano Pedro Castillo, che poi si recherà negli Stati Uniti. Sarà un’occasione importante per chiarire che posizione assumerà il Perù a livello internazionale: se effettivamente manterrà la decisione annunciata dall’ex ministro degli esteri, Héctor Bejar, costretto alle dimissioni, di uscire dal Gruppo di Lima, o se cederà al ricatto degli Stati Uniti.

L’oligarchia peruviana è più che mai sul piede di guerra e la morte del dirigente di Sendero Luminoso Abimael Guzman, deceduto in carcere a 86 anni, ha riaperto altre ferite e fratture, nelle quali la destra ha ottenuto una sadica vittoria. Il governo ha varato un decreto per cremare il corpo di Guzman senza consegnarlo alla famiglia: ovvero a un’altra prigioniera politica, designata dalla moglie Elena Iparraguirre, ex guerrigliera detenuta. Le altre prigioniere sono in sciopero della fame.

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