Celac, unità nella diversità. L’eredità di Bolivar

Geraldina Colotti

Unità nella diversità. Questo l’intento espresso nel vertice della Celac, la Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici che si è concluso in Messico. Un proposito che, diversamente articolato perché rivolto più ai popoli che ai governi, il presidente Nicolas Maduro aveva già espresso a conclusione del Congresso Bicentenario, e che ha ripetuto anche in Messico con un discorso concreto e prospettico al tempo stesso.

Un discorso nel solco di Hugo Chávez e nello spirito di Bolivar. A mostrare quanto grande sia la diversità – di intenti, vedute e scelte politiche – con alcuni degli Stati membri (16 i presenti, sui 33 complessivi, ovvero tutti quelli americani, esclusi Stati Uniti e Canada), è bastato il rumoroso ostruzionismo dei presidenti neoliberisti di Uruguay e Paraguay, e i commenti in rete della Colombia. A loro ha risposto per le rime il presidente cubano Miguel Diaz Canel, ricordando che, prima di parlare dei presunti problemi in casa d’altri, avrebbero dovuto occuparsi di quelli in casa propria, considerando il forte rifiuto che ricevono le loro politiche.

Un tema affrontato anche nel programma Dando y dando, condotto settimanalmente dalla giornalista e deputata venezuelana, Tania Diaz. L’uruguayano Ruben Suarez, di Conaicop, ha analizzato la svolta securitaria e l’attacco ai diritti sindacali del governo di Lacalle Pou, e la conseguente (e massiccia) reazione popolare. L’attivista paraguayana, Fatima Rallo, ha parlato del livello di “democrazia” del governo di Mario Abdo Benitez, in forte eredità con la passata dittatura, come testimonia il caso delle due ragazzine scomparse, fatte passare per “terroriste”. L’analisi di Juan Carlos Tanus, direttore di Colombiani e colombiane in Venezuela ha evidenziato quanto pesi la pervicace chiusura degli spazi di agibilità politica sulla possibilità di uno spostamento a sinistra in Colombia.

I governi di Uruguay, Paraguay e Colombia, seppur rimasti nell’organismo – a differenza del Brasile di Bolsonaro, che l’anno scorso ha portato fuori dalla Celac il suo paese, ovvero la seconda economia della regione dopo il Messico -, hanno d’altronde rivendicato appieno il loro ruolo di portatori d’acqua di Washington. Di sicuro, per quanto subalterni, si sentono più affini a quella classe oligarchica che, in Europa, al di là della retorica stucchevole sui sacrifici comuni, ingrassa sulle sofferenze che provocano quei sacrifici alle classi popolari per le “riforme strutturali” volute dai decisori sovranazionali.

Il presidente messicano Amlo ha detto che la Celac potrebbe prendere a modello “qualcosa di simile alla Ue, ma con caratteristiche legate al contesto”. Di quale ispirazione può essere l’Unione europea per i paesi del sud? Nella Ue non esiste “unione” ma competizione sfrenata: basata sulla compressione del costo del lavoro, sull’assenza di sovranità e sui processi di privatizzazione che monetizzano al rialzo le politiche pubbliche a vantaggio dei pochi. Mentre aumentano le “piccole patrie” xenofobe e si erigono muri contro la libera circolazione delle persone, a essere senza frontiera sono solo i movimenti del capitale finanziario. E per raggiungere quel “pareggio in bilancio” agitato come una scure sulle conquiste operaie, le classi popolari devono pagare il “debito sovrano”, come grottescamente viene chiamato il tributo che, da veri sudditi, devono versare ai loro grassatori.

Il sogno bolivariano della “Patria grande” implica un altro indirizzo. A partire dal congresso di Panama, Bolivar prevedeva la costruzione di un blocco multinazionale dei popoli americani di tradizione ispanica, che permettesse di unire le risorse umane, naturali e economiche e formare alternative valide agli imperi europei e al nascente impero anglo-americano. Il suo progetto fu respinto dalle oligarchie nazionali.

Quel blocco si sarebbe creato a partire dalle rivoluzioni indipendentiste dell’epoca che avevano trionfato in tutta l’America ispanica, tranne che a Cuba e Porto Rico. L’ultima battaglia del libertador Simon Bolivar e del maresciallo Antonio José de Sucre fu per liberare l’Alto Perù (la Bolivia). Tuttavia, il 3 ottobre del 1821, nel suo discorso di fronte al Congresso della Gran Colombia, a Rosario de Cucuta, Bolivar dichiarò: “Preferisco il titolo di cittadino a quello di Libertador, perché questo emana dalla guerra, quello emana dalle leggi. Cambiami, Signore, tutti i miei titoli con quello di buon cittadino”.

A quell’epoca, Marx, che avrebbe criticato la nozione astratta di cittadino in base alla divisione in classe della società, aveva 3 anni, e poi verrà sviato dalle fonti dell’epoca nel suo giudizio su Bolivar. Il congresso di Panama venne chiamato anche anfizionico, in omaggio alla Lega Anfizionica dell’Antica Grecia, per sottolineare un’idea di integrazione basata su regole condivise. Quell’unità sudamericana, che avrebbe facilitato anche accordi di difesa comune, si frammentò allora in nove stati totalmente distanti dalle loro realtà nazionali e regionali, agganciati agli interessi strategici dei nuovi imperi mondiali.

Agli interessi imperialisti è saldamente agganciata la Colombia di Ivan Duque, il primo stato latinoamericano entrato a far parte della Nato dal 2018. Duque ha appena firmato un memorandum di intesa con la Ue, che lo considera un “partner strategico” nonostante i quotidiani massacri che il suo narco-governo perpetua contro il popolo colombiano. Lo ha fatto nell’ambito dell’Assemblea annuale dell’Onu, in corso a New York, durante la quale Biden ha “lodato il coraggio” di chi destabilizza i governi di Cuba, Venezuela, Nicaragua perché si riconosce “nella vera democrazia” modello USA. E, nel frattempo, il capo del Comando Sur è atterrato a Bogotà, per rafforzare il suo principale gendarme in America Latina, i cui aerei hanno violato ancora una volta lo spazio venezuelano.

Anche nell’Assemblea Generale dell’Onu, si è levata la voce dei paesi socialisti contro le misure coercitive unilaterali imposte dall’imperialismo nordamericano in spregio delle norme internazionali. L’appoggio che hanno riscontrato da parte di quei governi, come Russia e Cina, che si muovono per la costruzione di un mondo multicentrico e multipolare, ha mostrato anche in questo contesto la crisi di egemonia in cui si dibatte l’imperialismo Usa, la crisi strutturale del modello che rappresenta. Contro la retorica sui diritti umani, strombazzata a partire dai pulpiti che meno avrebbero dovuto permetterselo, sono emersi i dati dei rapporti indipendenti sulle conseguenze delle “sanzioni”, e sulle gravi illegalità imposte dagli Stati Uniti con la complicità dei governi e delle istituzioni subalterne.

Un esempio eclatante riguarda il diplomatico venezuelano Alex Saab, sequestrato sull’isola di Capo Verde, gravemente malato e in procinto di essere estradato illegalmente negli Usa per la subalternità delle istituzioni capoverdiane. Una vicenda che sta pesando anche sulle trattative in corso in Messico tra l’opposizione golpista diretta dagli Usa e il governo bolivariano, che esige la liberazione del diplomatico, e che ha chiesto il sostegno della Celac nella difesa del processo di pace.

E se aver indotto anche i governi neoliberisti presenti a firmare la dichiarazione finale, che comprende questioni come il debito estero o la condivisione dei vaccini è stato sicuramente importante, ancor più importante è far sì che non rimangano lettera morta. E qui la parola passa alla forza organizzata e cosciente del potere popolare.

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